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424 capitolo xix.


più difficile del lavoro: la messa insieme. Ci vollero altre due ore di lavoro incessante per ricomporre la ruota, la cui centrazione pareva irraggiungibile. Alla fine la ruota fu completa. Non mancava più che fissare i bottoni avvitati che reggono il mozzo d’acciaio e il tamburo del freno. La ruota venne trasportata in una buia fucina primitiva — perchè Nicolai Petrovitch, come tutti i fabbricanti di carri, era anche maniscalco — ; fu acceso il fuoco, e con lunghi punzoni incandescenti i raggi vennero forati dove bisognava passare le viti. Fu un’altra lunga ora di lavoro, in mezzo a nembi di fumo che sorgeva stridendo dalle bruciate piaghe del legno. Finalmente le viti furono messe, i dadi stretti: la ruota era pronta.

I nuovi raggi non erano certo ben sagomati ed eleganti: massicci, tozzi, grossolani, non avevano di esatto che le attaccature. Davano alla ruota un aspetto di solida rozzezza; sembrava la ruota d’un carroccio. Ma essa era tale da resistere a tutti gli urti, a tutti gli sforzi.

In men che non si dica, Ettore l’applicò all’automobile. Erano le sette di sera quando rimontammo in macchina. Uscimmo dal cortile sulla strada. Gli operai ci seguirono salutando. Essi sorridevano soddisfatti, asciugandosi le calme fronti madide di sudore.

Al momento di slanciarci, ci stesero le brave mani callose, che stringemmo effusamente con riconoscenza.

Do svidania! — ci gridarono mentre ci allontanavamo.

Vale! — esclamò il latinista.

Le loro voci ci seguirono. Da lontano scorgemmo quei nostri salvatori che agitavano i berretti, finchè degli alberi ci nascosero. Essi forse sentivano un po’ di fierezza per quella poderosa corsa della macchina. Sentivano che un po’ della loro volontà, della loro abilità, della loro forza ci sospingevano aranti, verso la nostra mèta.

Volevamo camminare finchè la luce ce lo avesse permesso. Le strade erano prosciugate; correvamo a trenta chilometri all’ora. Lo splendore delle notti bianche era finito; l’oscurità della notte