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430 capitolo xix.


colta, oscura di abeti e di pini, d’un verde funebre. Alcune di esse hanno dei nomi che non sono russi, nomi tartari, e bulgari.

Qualche nome rimane a ricordare quello strano popolo bulgaro che ebbe qui un impero, della cui capitale si vedono ancora splendidi ruderi presso le rive del Volga. Essa era così dimenticata, che s’era perduta; i boschi l’avevano ricoperta; ne rimaneva soltanto la tradizione, quando sotto Pietro il Grande le sue rovine maestose furono ritrovate nel folto d’una foresta. Erano amanti dei grandi fiumi, i bulgari; si divisero il Volga ed il Danubio; “bulgari bianchi„ quelli del Volga, “bulgari neri„ quelli del Danubio, ma furono assorbiti gli uni dai tartari, gli altri dagli slavi. Sono rimasti dei nomi: Bolgary sul Volga, Bulgaria sul Danubio, ma la razza non c’è più.

Nel pomeriggio ci ritrovammo in serie difficoltà. La strada, attraverso boschi sterminati, si era fatta così cattiva, che dovevamo procedere alla velocità di quindici e spesso di dieci chilometri l’ora. La carrozzeria scricchiolava, si muoveva tutta ad ogni urtone, quasi stesse per rompersi. Il freno a pedale, quel benedetto freno che ci prese fuoco tre volte in Siberia, non ardeva più, è vero, ma anche non funzionava più. S’era completamente guastato, ed eravamo rimasti col solo freno a mano, che, come si sa, funziona sulle ruote motrici. Ora, in una ripida discesa, mentre l’unico freno era chiuso, sentimmo l’automobile sussultare violentemente ed udimmo nella parte anteriore uno scrocchio metallico. La macchina si fermò tutta di traverso.

Balzammo a terra. Guardammo:

— Ed ora? Che si fa? — esclamammo angosciati vedendo quale danno era sopraggiunto.

L’azione del freno, troppo violenta, aveva avuto per effetto la rottura di quella specie di staffa che unisce le molle al perno della ruota, e l’asse delle ruote motrici s’era completamente separato dalle molle, cioè dallo chassis. Vi erano delle staffe di ricambio, ma troppo corte. Fortunatamente Ettore, rovistando fra