La metà del mondo vista da un'automobile/XIII
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CAPITOLO XIII.
UN PONTE CHE CROLLA
Alle quattro e mezza del 30 Giugno, con un tempo divinamente sereno ma freddo, lasciammo per la seconda volta Missowaja riprendendo la strada percorsa al 28. Portavamo con noi, legate al bagaglio, due lunghe tavole che lo Starosta ci aveva ceduto. Prevedevamo di averne bisogno per passar sopra agli scambi in vicinanza delle stazioni, durante la nostra corsa fra le rotaie.
L’idea di andare in automobile sopra una linea ferroviaria ci sembrava così stravagante che ne parlavamo con un senso di dubbio. Ci si era presentata alla mente come una cosa naturalissima: pensandovi finivamo col trovarla assurda. Il giorno avanti l’unica difficoltà per noi era la mancanza del permesso; al momento di mettere lo strano progetto in esecuzione vedevamo una folla di difficoltà insospettate. Le ruote non avrebbero affondato fra le traverse, incastrandosi? come superare i tratti in riparazione? Avremmo potuto uscire rapidamente dalla linea al sopraggiungere di qualche treno facoltativo? Le chiavarde delle rotaie non avrebbero lacerato le pneumatiche? E, tutto andando bene, le scosse d’un lungo tragitto sulle traverse non potevano avere le più gravi conseguenze sulla rigidità e sulla solidità della macchina? Rispondevamo a tutto: Vedremo! — e andavamo avanti.
Volevamo entrare sulla linea dalla piccola stazione vicina al fiume Mishika, dove ci eravamo fermati due giorni prima. Il singolare viaggio sarebbe cominciato nel luogo stesso ove ne era nata l’idea. Il prossimo treno per Irkutsk non sarebbe passato da Missowaja che alle otto, e il prossimo treno per Verkhne-Udinsk sarebbe passato a mezzogiorno. Avremmo avuto il tempo, fra l’uno e l’altro, di raggiungere la stazione di Tankoy ad un sessanta verste da Missowaja. Tankoy è l’erede navale di Missowaja; il nuovo porto dei ferry-boats, preferito perchè più vicino alla sponda occidentale del lago: la traversata dei battelli fra Tankoy e la stazione di Baikal, sulla riva sinistra dell’Angara, è soltanto di quaranta chilometri. Vi sono dei fiumi più larghi di così, come il Parà a Belem, e la Plata a Buenos-Ayres.
Rifacemmo pazientemente la vecchia strada solitaria, così pittoresca e così difficile, con i suoi innumerevoli ponticelli cadenti, le sue discese ripide e le sue salite che bisognava prendere d’assalto, ora serpeggiante presso la serenità del lago, ora internata nell’ombra della foresta. Profittavamo del vantaggio di conoscerla; la prodigiosa memoria di Borghese la ricordava tutta. Egli diceva ad Ettore, che guidava: Ora viene un salto; frena! Adesso troviamo quel ponte che pende a destra; tienti a sinistra! — Ma tutta questa prescienza non valse a farci camminare con una velocità media superiore ai nove chilometri all’ora. E soltanto verso le otto arrivammo alla piccola stazione presso alla Mishika.
Ritrovammo il capostazione, e il gendarme — quello che voleva telegrafare ai suoi superiori. Il capostazione non aveva ricevuto alcun avviso del nostro permesso. Il gendarme sì. Questi ci disse che tutti i gendarmi ed i soldati vigilanti lungo la linea avevano ricevuto da Irkutsk l’ordine di lasciarci passare. Il capostazione dichiarò:
— Io non mi oppongo. Non so niente. Non assumo responsabilità.
Il gendarme dichiarò:
— Vi accompagnerò io, e passerete per tutto.
Dal che ricevemmo la più convincente conferma della onnipotenza del gendarme in Siberia.
Per dare un posto nell’automobile al bravo milite, io mi arrampicai sull’alto bagaglio, nella parte posteriore della carrozzeria, dove m’insediai a cavallo, un po’ disturbato dalla presenza delle lunghe tavole, ma soddisfatto della elevata posizione che mi lasciava scorgere le cose da un punto di vista assolutamente nuovo. Il gendarme sedè nel posto del predellino.
Al fine di evitare gli scambi e i meccanismi dei segnali che ingombravano la linea in vicinanza della stazione, andammo a cercare più oltre, una versta lontano, un passaggio fra la vecchia strada e la ferrovia. La banchina ferroviaria era alta un paio di metri, ed il passaggio consisteva in una piccola scalinata ad uso d’un cantoniere vicino, poco adatta all’ascensione d’un’automobile. Ma non era quella una difficoltà da impressionarci. Con l’aiuto di vecchie traverse, che accatastammo sapientemente, e delle due tavole, costruimmo una passerella, che la macchina varcò trionfalmente di slancio. Eravamo finalmente sulla linea. Con le ruote di sinistra l’automobile scavalcò la rotaia di destra, noi ricaricammo in fretta le tavole, le legammo ben bene, e riprendemmo i nostri posti. Mi issai di nuovo sulla vetta del bagaglio come un arabo sulla gobba del dromedario. Partimmo.
La prima impressione fu deliziosa. Quella superba via, eguale, livellata, nitida, dopo i salti, gli sterpi, le boscaglie, i fossi della ex-strada maestra, era piena di seduzione. Stretta, ed alta sulla campagna, dava l’idea d’una snellezza sospesa, come d’un immenso ponte a nastro. Tutto ciò era nuovo, e forse per questo solo ci piaceva tanto. Procedevamo lentamente; le traverse, per quanto vicinissime l’una all’altra, e coperte da uno strato di sabbia, imprimevano all’automobile un’ondulazione, una specie di movimento di galoppo, lieve lieve. Ma quando la velocità aumentava, il galoppo diveniva violento, e finiva per cambiarsi in un fremito terribile, in uno squassamento feroce nel quale la macchina pareva dovesse spezzarsi. Ci contentavamo perciò di galoppare adagio adagio, con la velocità di un quindici chilometri all’ora. Arrivammo alla prima casa cantoniera.
Il guardiano, naturalmente, non era più informato del capostazione sul nostro viaggio, eseguito sotto l’alto ed esclusivo patronato della polizia. Il poveretto non capiva niente di quella strana locomotiva che se ne andava tranquillamente fuori delle rotaie; guardò esterrefatto, e finì certamente con l’immaginarla un veicolo di nuovo modello in prova, poiché si precipitò nella sua casetta, ne uscì subito armato del bastone che segnala “strada libera„, e si mise nella posizione regolamentare. Il gendarme ordinò di fermare, scese, si avvicinò a quell’uomo, e si fece consegnare la bandierina rossa che teneva, arrotolata, alla cintura. Il gendarme, agitando quel vessillo sovversivo, ritornò sull’automobile, tutto soddisfatto, esclamando:
— Per fermare i treni!
Passammo su numerosi ponticelli, larghi quanto le traverse, senza parapetti, sospesi su profondi burroni dei quali vedevamo spumeggiare l’acqua sotto di noi, per i larghi interstizi fra una traversa e l’altra. Quei ponticelli, così traforati, formati da assi discoste che sembrano sorrette soltanto dai binari, hanno un’apparenza di leggerezza e di fragilità che spaventa. Si sa che sono forti, ma non si vede. L’automobile camminava con le ruote di sinistra fra i due binari, e le ruote di destra all’esterno, su quel poco spazio delle traverse che sporge in fuori. Nei ponti, così, le ruote di destra correvano proprio sull’orlo dell’abisso. Era questione di centimetri. La manovra non presentava tecnicamente difficoltà per un guidatore dall’attenzione costante e dalla mano sicura. Ma era impossibile in quei momenti di sottrarsi ad una leggera, istintiva, segreta emozione, che faceva stringere i pugni, e non permetteva di distogliere l’occhio dalla ruota direttrice nel suo Il Governatore cinese della Mongolia in automobile seguito da ufficiali della sua scorta passaggio sullo stretto bordo, su quelle cime di travi sporgenti nel vuoto. Non si poteva scacciare completamente questo pensiero: che dopo tutto la salvezza dipendeva dalle facoltà d’un uomo, e che l’uomo più abile può avere un istante di debolezza, di malore, può subire un inganno dei sensi, può essere tradito dalla stanchezza, dalla stessa tensione ed attenzione.
Non tardammo ad attraversare il gran ponte di ferro sulla Mishika, che si presentava da lontano come una enorme gabbia rossastra, sospesa a venti metri dal fiume. A guardia del ponte, alle due imboccature, vi erano dei soldati armati di fucile. Tutti i ponti d’una certa importanza sono così custoditi militarmente. Pare di percorrere una ferrovia in tempo di guerra, in una zona accessibile alle ostilità, quando si aspetti un colpo di mano del nemico. L’impressione che se ne riceve è triste. Triste sopratutto perchè in realtà si aspetta un nemico, e questo nemico della Russia è russo.
Il fiume, che ci aveva fermati due giorni prima, rumoreggiava fra gli alti piloni, nell’ombra di selvaggi affollamenti d’alberi. Fummo contenti di valicarlo; ci pareva di prenderci una rivincita. Passato il ponte corremmo per un certo tempo sulla riva del lago, che la ferrovia costeggia e domina dall’alto. Poi il lago si allontanò, tornarono dei boschi. L’eguaglianza della strada, che ci era tanto piaciuta al principio, cominciava a noiarci. Una strada regolare e piana deve farsi perdonare la sua monotonia permettendo di correre. Ad un certo punto trovammo la linea in riparazione. Una squadra di operai spostava la livellazione d’una curva. Le traverse erano tutte scoperte. Il galoppo dell’automobile prese un’andatura furibonda. Non era possibile rallentare, per non incorrere nel pericolo di rimanere impuntati, e la macchina sobbalzava rapidamente sulle traverse, passava dall’una all’altra, urtandole di pieno con le pneumatiche, delle quali ci aspettavamo di sentire lo scoppio. Per fortuna, dopo alcune centinaia di metri di questa danza indiavolata, tornammo sul terreno normale. E arrivammo ad una stazione.
Erano le nove e un quarto.
Questa stazione non ha un nome: ha un numero. Sorge in mezzo a luoghi completamente disabitati; non è stata costruita per comodità di passeggeri. È una stazione di “servizio„ fabbricata all’epoca della guerra col Giappone, come tante altre, per accrescere la potenzialità della linea aumentando il numero degli incroci. Si chiama “Sedicesima stazione di smistamento„. Non dimenticheremo facilmente la Sedicesima stazione di smistamento della Transbaikalia.
Il capostazione, un giovane biondo, aitante, gentile, ci avvertì che era prossimo il passaggio del treno da Missowaja, e che perciò non potevamo più continuare la nostra corsa sulla linea. In verità all’arrivo del treno mancava più di mezz’ora; ma l’avviso era prudente, e perciò saggio. Ci tirammo in disparte ad aspettare. Il capostazione ci consigliò di riprendere il cammino sull’antica strada maestra, ancora praticabile, e di seguirla fino a qualche passaggio a livello, dove avremmo potuto tornare sulla ferrovia. Il fatto è che egli, in mancanza d’ordini, non voleva permetterci di rientrare sulla linea nella stazione, e ci mandava gentilmente lontano dalla sua giurisdizione. Noi accettammo il suo consiglio. Si trattava, in fondo, di pochi chilometri, e ne avevamo percorsi delle centinaia su quella via della desolazione. Seguimmo fedelmente un viottolo che ci era stato indicato, e un minuto dopo correvamo sull’erba folta della strada condannata.
Anche lì, come in quei tratti che conoscevamo già, non un segno di transito recente, non un’orma. La fiancheggiavano folte boscaglie. Perdemmo subito di vista la stazione, e ci ritrovammo nella solitudine verde e fiorita. Avevamo appena percorso un mezzo chilometro, quando ci si presentò un vecchio ponte di legno.
Era lungo un venticinque passi, largo quattro. Non arrivava alla larghezza degli altri ponti, ed appariva diverso per la disposizione delle tavole, per una certa rozzezza di costruzione. I ponti stradali, ordinariamente, anche se infradiciti, scalzati, mezzo demoliti, conservavano i segni d’una grande accuratezza di lavoro, avevano qualche cosa dell’antica nave. Si comprendeva che quel ponte era stato rifatto col legname d’un altro crollato. Mancava d’ogni traccia di parapetto, era un po’ sbilenco, mostrava le irregolarità e le trascuratezze del provvisorio. Ma avevamo già attraversato molti ponti provvisori — che non ci erano sembrati migliori. Esso scavalcava un torrentello, profondo tre o quattro metri, i cui ciglioni erano così irti di cespugli e di arbusti che pareva si tendessero delle piante per ricongiungersi.
Ettore rallentò la corsa, e sostò qualche secondo per guardare. Di fronte ad ogni ostacolo facevamo queste brevi fermate d’osservazione. Ispezionavamo senza muoverci dall’automobile, studiavamo rapidamente il passo, decidevamo in un baleno. Avevamo fatto l’occhio e la mente ai mille problemi della strada, tanto simili e tanto diversi. Li giudicavamo all’istante, per analogia. Applicavamo a colpo sicuro dei metodi insegnati dalla pratica, sapevamo dove occorreva slancio e dove occorreva cautela, conoscevamo per intuizione i punti sui quali le ruote potevano passare, indovinavamo la parte più resistente d’una tavola come la profondità d’un’acqua, la durezza d’un fondo melmoso. Lì avemmo un attimo di esitazione, un fugace presentimento del pericolo. Ma non fu che un attimo. Ogni dubbio non era completamente dissipato, ma noi avevamo un curioso modo di ragionare avanti alle difficoltà; ci dicevamo: Proviamo!
Il gendarme era saltato a terra. Egli non aveva la nostra esperienza in fatto di ponti vecchi, e giudicava con un vergine buon senso. Reputava necessario osservare da vicino, scendere nel torrente, guardare le travi. Ci diceva:
— Aspettate! Aspettate!
E si preparava alla ricognizione.
Borghese ordinò ad Ettore:
— Vai avanti! piano!
L’automobile s’inoltrò sul tavolato che tremò, scricchiolò un poco, oscillò come tanti altri avevano fatto sotto il peso della nostra macchina. Non eravamo gran che allarmati. Ma durante quelle traversate si prova sempre un senso indefinibile di sospensione, di attesa, di concentrazione; si segue con vigilanza il progredire della macchina; vi si pone tutta la forza del pensiero, quasi per mettere nel lavoro della materia le energie della mente, per aiutare, sostenere, spingere, dirigere con la poderosa tensione della volontà. Non ricordo che noi ci siamo mai scambiati una parola in quei momenti.
La parte anteriore dell’automobile aveva già superato la metà del ponte. Si avvicinava al ciglio erboso. Ogni pericolo ci parve dissipato. Improvvisamente sentimmo uno scroscio spaventoso. Il tavolato aveva ceduto sotto il peso della parte posteriore della macchina. Si sfondava, si sfaceva; tutto il ponte si apriva, crollava. Quel rovinìo, a noi che v’eravamo in mezzo, parve in quell’istante vasto come un cataclisma.
Il motore tacque. La vettura, al momento stesso in cui si fermava, s’accasciò dietro con un moto repentino e greve, e battè col ventre sui resti del tavolato. Poi, con una continuità di movimento che non ci lasciava pensare e comprendere, sollevò in aria le ruote anteriori, mentre s’inabissava con la parte posteriore, e compiendo un mostruoso giro di bilancia prese una posizione verticale. Così si sprofondò nel torrente, fino in fondo, travolgendoci tutti e tre in mezzo ad un terribile rovinare di tavole e di travi schiantate, spezzate, schiodate. Arrivata ad immergere il cassone nell’acqua del torrente, non si fermò. Continuò il suo giro, si rovesciò all’indietro per abbattersi sul dorso, finche una trave la trattenne. E rimase quasi supina, con le ruote in su e il dorso verso il suolo, lasciando appena spuntare i fanali e il radiatore dalla rottura del ponte, al di sopra dei resti delle travi e delle assi infrante. Tutto questo era avvenuto in pochi secondi. L’automobile aveva fatto, con la lentezza d’un pachiderma, una specie di salto mortale indietro.
Non fu che più tardi che avemmo un’idea chiara di quanto era successo. Nel momento della caduta non vedemmo che confusamente; tutte le nostre facoltà erano intente alle persone; il campo d’osservazione si restringeva alla immediata vicinanza dei nostri individui; ognuno di noi aveva la sua avventura, la sua lotta, il suo corpo a corpo col pericolo. Dopo ci raccontammo. Io conservo più vivido il ricordo della sensazione che della visione. Mi torna con maggior evidenza alla memoria quel che era dentro di me di quel che era intorno a me. Stavo a cavalcioni del bagaglio; la mia caduta fu la più lunga. Udendo il primo schianto credetti soltanto ad un avvallamento parziale dell’automobile, Nella strada che traversa la Taiga ad un incastrarsi delle ruote nel vano di qualche tavola spezzata, e pensando ad una panna tediosa e faticosa, esclamai:
— Ci siamo!
Un istante dopo mi trovavo sotto al ponte, in una penombra repentina e sinistra, aggrappato alle corde del bagaglio. L’automobile scendeva sempre, fracassando legname. Avevo l’impressione di non arrivare mai in fondo. Mi lasciavo trascinare, curvo sotto ad un tempestare di tavole che mi si abbattevano addosso, che mi premevano alle spalle, che si frangevano con rumorìo crescente, continuo, crepitante. Ricordo d’aver constatato, non senza soddisfazione, che non provavo alcun forte dolore, e d’aver pensato più volte: “Finora tutto va bene!„. Contavo di averla scampata, quando mi avvidi che il gran dorso dell’automobile eretto mi si rovesciava lentamente addosso. La scatola dell’oliatore, situata ai piedi del conducente, era venuta a trovarsi perpendicolarmente sulla mia testa, e m’inondava di flotti d’olio caldo. Ne ero intriso tutto, e lo sentivo colare sul viso. In quell’istante mi accorsi che i due seggi che il Principe ed Ettore occupavano un momento prima, erano vuoti.
Sotto alla minaccia di rimaner schiacciato, tentai di sfuggire. Ma mi fu impossibile; mi trovavo incastrato fra i bagagli e il tavolame caduto. Inutilmente adunai tutte le mie forze per sottrarmi al pericolo. Per fortuna una trave provvidenziale aveva fermato l’automobile nella sua lenta rotazione. Udii, in alto, la voce di Borghese urlare con espressione di dolore. Vidi le sue gambe stivalate che si agitavano disperatamente sopra di me, gocciolanti esse pure d’olio. La sua voce tacque subito. Nello stesso tempo Ettore comparve al mio fianco gridandomi:
— Esca, esca di lì!
— Non posso! — gli risposi.
— Ma fugga dunque! — mi ripetè ansiosamente — Svelto! Se la trave si rompe lei è morto!
— Non posso! — replicai — Aiutami tu, tirami fuori!
Egli mi afferrò energicamente per le ascelle e mi strappò da quelle strettoie. Ci ritrovammo tutti e tre, in piedi, chiedendoci notizie l’uno dell’altro, scambiandoci espressioni di soddisfazione intensa. Osservando la posizione dell’automobile, esclamavamo:
— È incredibile! Siamo salvi per miracolo!
Borghese, quando l’automobile sprofondava, con uno slancio istintivo s’era voltato indietro aggrappandosi ad una trave, ed era rimasto così, sospeso, finché la macchina, rovesciandosi, non era andata ad appoggiarsi precisamente sulle sue spalle. Egli si era trovato stretto fra la trave e il cofano del motore, compresso, soffocato. In quel momento aveva mandato gli urli che mi avevano fatto guardare in alto. Con quella grande forza che l’uomo trova nel pericolo, aveva potuto sollevare un istante l’automobile e liberarsi. Non è riuscito più a ricordare come avesse potuto volgersi dal sedile e aggrapparsi alla tavola. La storia d’un attimo decisivo non è rimasta scritta nella sua memoria. La stretta gli aveva prodotto due forti contusioni alla schiena e al petto; provava una sensazione di vivo dolore traendo fortemente il respiro, ed esprimeva tranquillamente l’opinione d’avere qualcuna delle ultime costole a sinistra spezzata. Ettore non aveva riportato che qualche scorticatura. Era rimasto al suo posto di guidatore, attaccato al volante, finché aveva finito con la testa in basso e i piedi in aria. Allora s’era lasciato cadere in fuori fra lo sfasciume del ponte, e guardandosi intorno, aveva scorto me ancora nel pericolo; ed era accorso. Io nella caduta avevo riportato delle avarie misteriose; sentivo ad ogni movimento un dolore diffuso alla spina dorsale, e non riuscivo più a sollevare completamente le gambe; esse si rifiutavano d’obbedirmi; le trascinavo a piccoli passi. Dovetti poi farmi sorreggere; e per due settimane ho continuato a muovermi stentatamente, strisciando il passo, e salendo con fatica e fra sospiri ogni gradino. Durante questo tempo credo di essere stato di qualche imbarazzo ai miei compagni di viaggio. Sulla faccia avevo delle escoriazioni prodotte non so come e non so da che, che ricordo soltanto per osservare che l’olio della macchina me le ha curate benissimo. Tutte queste ammaccature non toglievano nulla alla nostra felicità: la felicità di sentirci vivi.
Provammo una reazione di letizia. Il pericolo era passato su noi lasciando un’impressione d’incubo. Sognando di precipitare dall’alto avviene spesso di svegliarsi e di sentirsi contenti d’aver soltanto sognato. Noi avemmo un momento di quella contentezza indicibile. Ridevamo guardando l’automobile rovesciata, come se ci avesse fatto uno scherzo. E la fotografavamo da tutte le parti indicandoci le poco piacevoli posizioni che avevamo poco prima:
— Io ero lì, così.
— Io sotto a quelle tavole.
— Io sono passato là dentro.
— Se la trave non reggeva...!
— Schiacciati! Ah, ah!
Il gendarme non aveva aspettato la fine. Era corso verso la stazione urlando aiuto, e udivamo la sua voce che si allontanava ripetendo angosciosamente quell’urlo. Il primo pensiero di Borghese fu per l’automobile. La guardò attentamente, e gridò:
— Non vedo niente di grave! Guarda Ettore!
Ettore osservò:
— Mi pare salva! — e sorrise tutto contento.
Si mise subito al lavoro. Sciolse le corde del bagaglio, e trasportò lontano valigie, sacchi, cuscini, tenda. La benzina colava via dalle chiusure superiori dei serbatoi — che erano diventate inferiori. Egli strinse le viti e salvò quella che era rimasta. La pala s’era accartocciata come un foglio di carta; il piccone s’era spezzato; l’asta di ferro della bandiera era distorta; il cassone dei pezzi di ricambio aveva delle ammaccature a gibus; il serbatoio posteriore della benzina era pure ammaccato; le cinghie di cuoio che reggevano le gomme di ricambio erano spezzate; le tavole portate da Missowaja le trovammo ridotte a scheggie. Ma la macchina era intatta; essa aveva uno dei due lunghi ferri che sostengono il differenziale un poco piegato (s’era piegato al momento in cui l’automobile aveva battuto il “ventre„ sul piano del ponte), e lievemente storto il tubo di rame nel quale circola l’acqua dai cilindri al radiatore (e quello probabilmente s’era storto sulle spalle di Borghese). Niente altro. Questa incolumità era dovuta a varie circostanze fortunate.
La caduta era stata rapida, ma non precipitosa. Noi andavamo adagio; il ponte s’è sfondato per il peso, non per la velocità. Il crollo del tavolato, per quanto subitaneo, ha avuto delle fasi. L’automobile ha dovuto spezzare assi e travi sprofondando, e tutto questo legname che trovava sulla sua via non la tratteneva, certo, però frenava un po’ il suo impeto. Ma quel che veramente l’ha difesa è stato il carico di gomme di ricambio legato dietro. Quando, dopo essersi sollevata davanti fino a prendere una posizione verticale, s’era inabissata, essa era andata a cadere precisamente sulle gomme; s’era seduta sul caucciù. Questo aveva ammortizzato il colpo. E deve essere stato un colpo formidabile, perchè quei provvidenziali copertoni di ricambio rimasero perfettamente incastrati in fondo al torrente, così incastrati che poi dovemmo scavarli fuori come da una nicchia. Una trave aveva salvato noi, ed alcune pneumatiche inoperose avevano Una panna nella Taiga. salvato l’automobile. Se la trave era più in là o le pneumatiche stavano da un’altra parte, la corsa era finita. Non occorre dire che noi davamo all’intervento della trave un’importanza infinitamente maggiore, e meritata.
Non passarono molti minuti che dalla parte della stazione vedemmo arrivare di corsa della gente. Avanti a tutti il gendarme, scalmanato, ansimante, senza voce. La sua faccia s’illuminò d’un sorriso di soddisfazione vedendoci salvi. Si aspettava senza dubbio chi sa quale catastrofe. Dietro a lui correva il capostazione. Il pover’uomo aveva dei rimorsi. Ci salutò con effusione, quasi con riconoscenza per esserci fatti trovar vivi, e da quel momento si dedicò tutto a noi: ci diede il suo lavoro, la sua intelligenza, la sua autorità; non volle lasciarci più, e fino alla sera ci aiutò, ci accompagnò, ci guidò. Egli aveva condotto con sè la squadra d’operai che lavorava sulla linea, quella che avevamo incontrato poco prima della stazione. Erano una ventina di siberiani, grandi, forti, rudi, disciplinati, abili, una schiera caratteristica per le lunghe blouses rosse, per le grandi brache, gli alti stivali, le disordinate pettinature bionde. Avevano corde ed ascie. Il siberiano, tagliatore di foreste, abbattitore di giganti, è maestro dell’ascia. Li vedemmo subito all’opera. Fu iniziato il salvataggio della macchina.
Il capostazione dirigeva il lavoro. L’automobile fu imbracata con funi intorno al cofano del motore, e le funi tese vennero legate a dei tronchi d’albero, in modo da assicurarle l’immobilità. Poi gli operai finirono di demolire il ponte. Abbatterono tutto quel che ne era rimasto in piedi, accompagnando il lavoro col canto di languide nenie. Le travi cadevano rapidamente una dopo l’altra sotto i poderosi ed esatti colpi delle ascie, ed erano trasportate via, ammucchiate dalle parti. L’automobile si trovò isolata. Allora gli uomini divisi in due schiere afferrarono due corde, una davanti e una dietro l’automobile, una per tirare, l’altra per reggere; ed al comando, tutti uniti, piano piano, riportarono la macchina sulle quattro ruote. Essa si ritrovò nella sua posizione abituale, ma in fondo al torrente. Bisognava ora tirarla sulla strada. Era la seconda fase del salvataggio che cominciava. Fu trovato un mezzo ingegnoso. Dietro all’automobile, quella parte di ponte che essa aveva già attraversato — e che era rimasta intatta — fu ridotta facilmente a piano inclinato, mediante l’abbattimento delle travi di appoggio (dei piloni, per dir così). Dopo ciò si legarono due corde alla parte posteriore dello chassis, i bravi siberiani si attaccarono alle corde, e a forza di braccia, cantando, trassero la macchina lentamente, lungo il piano inclinato fin sulla strada.
Il lavoro era durato tre ore.
Tutta quella buona gente sembrava contenta quanto noi del salvataggio, un po’ per amor proprio, e un po’ perchè ci si affeziona sempre alle cose che ci costano fatica. S’interessava vivamente alle condizioni dell’automobile. Voleva sapere se poteva camminare, se “era viva„ ancora — come diceva con pittoresca espressione. Noi eravamo ansiosi; ci struggevamo di conoscere. L’apparenza non ci aveva ingannati? La macchina era realmente illesa? Volevamo sentire subito la sua voce. Ettore dispose sul volante i tasti della carburazione e dell’accensione in “posizione di marcia„ e afferrò la manovella.
Non si udiva una voce. Pareva vi fosse intorno l’aspettativa d’una sentenza. La manovella girò una, due, tre volte. La macchina rimase muta. Ettore, tentò ancora, inutilmente, a più riprese. Vi mise tutta la forza, vi mise dell’ira. Il motore restò inerte. Ettore esclamò:
— Forse dell’olio è entrato nei cilindri, l’accensione non funziona. Vediamo!
Aprì il cofano, smontò le chiusure dei cilindri, le asciugò con lo straccio, asciugò i “martelletti„ perchè l’olio, isolatore, non interrompesse la corrente elettrica, rimise ogni cosa al posto, strinse le viti, tornò alla manovella.
Al secondo giro la macchina ruggì. Il suo rombo consueto scoppiò improvviso, alto, trionfante, facendola fremere tutta come per una poderosa impazienza. Era la risposta dell’interrogazione muta che stava in ogni pensiero. L’automobile aveva parlato. Hurrah! — gridarono i siberiani agitando i berretti.
I preparativi della partenza furono lunghi. Per rimettere la macchina in ordine Ettore ebbe bisogno di due ore. Volle esaminare minuziosamente. Intanto il capostazione offrì al Principe e a me ospitalità nella sua casa — ove mi condusse passo a passo fraternamente sorreggendomi, a ragione di quelle benedette gambe disobbedienti. Ci diede del thè, del latte, dello shi fumante — la ricca zuppa nazionale — ci offrì dei letti. Alle due l’automobile era pronta.
Aspettammo il passaggio d’una locomotiva, segnalato telegraficamente da Missowaja. La locomotiva passò come un fulmine. Rientrammo sulla linea. Il capostazione volle accompagnarci, e lasciammo a terra il gendarme, che non sembrò molto dispiacente di abbandonare l’automobilismo dopo averne conosciuto da vicino i pericoli. Il capostazione prese il posto del montatoio, il Principe si sedè sulla spalliera dei sedili. Ettore guidava, io fui caricato nel seggio vicino a lui, e due dei più forti operai si attaccarono dietro, con i piedi sulle sporgenze delle molle, afferrati alle corde del bagaglio come staffieri ai cordoni d’una carrozza di gala. Sei persone e un carico di roba sulle spalle della macchina, che non pareva accorgersene troppo. Correvamo, come al mattino, lungo i binari. Il capostazione consultava ad ogni momento l’orologio: aspettava due treni, uno da Tankoy, uno da Missowaja. Ad un passaggio al livello ci fece lasciare la ferrovia per riprendere la strada maestra. Forse voleva dimostrare la sua perfetta buona fede nel consiglio che ci aveva dato al mattino. Ai ponti gli operai scendevano e correvano a ispezionarli. Quando il loro giudizio era dubbioso, il capostazione gridava:
— Avanti! Alla massima velocità!
E ci slanciavamo con tutta la forza. Per i ponti in piano, quelli che non avevano “schiena d’asino„, il consiglio era eccellente. In due, tre secondi ci trovavamo dall’altra parte, e la resistenza d’una tavola o d’una trave è in ragione inversa del tempo. Ogni parte del ponte non sopportava che per un attimo quasi incalcolabile il peso dell’automobile, e non aveva il tempo di spezzarsi. Ad ogni ponte superato, il nostro pilota esternava rumorosamente la sua soddisfazione, batteva le mani, gridava comandi entusiastici come un ufficiale sul campo di battaglia:
— Avanti! Coraggio! Forza!
Sopra un rivoletto dovemmo costruirci una passerella. Fu l’affare di cinque minuti. Udimmo passare il treno di Missowaja, e poco dopo arrivammo ad un altro incrocio a livello. Il capostazione voleva continuare a comandare la sua battaglia sulla vecchia strada, ma i due operai, mandati in esplorazione, tornarono dicendo che su quel tratto tutti i ponti più grandi erano crollati. E ci rimettemmo a galloppare sulle traverse della linea. Tankoy si avvicinava. Ad un nuovo passaggio a livello un guardiano ci corse incontro facendo dei segnali. Raggiuntici, tutto ansante, ci gridò:
— Uscite! Viene il treno! È partito da Tankoy!
L’automobile fa per uscire, presso alla casella cantoniera, Quel che vedevamo attraversando la Taiga ma in quel punto le traverse sono scoperte, le ruote incastrano e tutti gli sforzi del motore sono impotenti a smuovere la pesante vettura. Gli uomini spingono, ma inutilmente. Bisognerebbe sollevare la macchina. Udiamo il fischio del convoglio che si avvicina, nascosto a noi da una voltata. Non c’è tempo da perdere. Con delle vecchie traverse, che erano ammucchiate lì a fianco della linea, si cerca febbrilmente di creare alle ruote dei piccoli piani inclinati che le aiutino a saltar fuori dai loro incastri. Il motore palpita violentemente. Intanto udiamo il rombo del convoglio e ne vediamo lontano il fumo fra gli alberi. Borghese mi grida:
— Scenda adesso, lei che non può saltare, scenda!
Ma le gambe mi rifiutavano per il momento il loro modesto e necessario aiuto. Fortunatamente un’ultima spinta concorde e poderosa trasse l’automobile fuori dai suoi alveoli, e fuori dal pericolo. Lasciammo passare il treno — era un vilissimo treno merci, assolutamente indegno dell’onore di schiacciarci — e proseguimmo il viaggio sulla linea. Un’ora dopo giungevamo a Tankoy, tutta nuova, che offriva un panorama di tetti fiammanti. Era tardi. Il cielo s’era fatto grigio, nuvoloso ed oscuro. Faceva freddo.
La popolazione conosceva già la nostra avventura del ponte, ed era venuta a vederci arrivare. Tutti ci salutavano gravemente. Alcuni giovani arrivarono fino all’applauso. La strada era tenuta sgombra da soldati armati di fucile. Un ufficiale di polizia si appressò salutando, e consegnò al Principe una carta; era il permesso formale del Governatore generale della Siberia di percorrere tutta la linea ferroviaria fino ad Irkutsk, permesso che era stato mandato telegraficamente a Missowaja per risparmiarci di aspettare la posta.
Stabilimmo il nostro quartier generale nel buffet della stazione, e avanti ad una buona e meritata bottiglia di champagne discutemmo i nostri piani. Dovevamo continuare a percorrere la strada ferrata? Ne avevamo percorsi sessanta chilometri. Il viaggio non presentava nessuna difficoltà; era d’una semplicità banale. Da Tankoy non avremmo avuto più nemmeno l’emozione del sopraggiungere dei treni, perchè l’automobile sarebbe entrata ufficialmente in servizio come un convoglio facoltativo. C’informammo se fosse stato possibile riprendere da Tankoy l’antica strada maestra. Le notizie che raccogliemmo subito non ci lasciarono alcuna speranza: la strada praticamente non esisteva più. Tutti i ponti erano distrutti. Ora, la pista ferroviaria era una facilitazione: il ferry-boat ne era un’altra. Non potendo seguire la strada maestra dovevamo ricorrere ad una delle due. Perchè la linea ferroviaria piuttosto del battello? Noi eravamo arrivati all’estremo lembo dei lago. Non v’erano più avanti a noi che 40 chilometri d’acqua. Potevamo certo senza rammarico traghettare quello stretto, come avremmo traghettato un fiume. Decidemmo d’imbarcarci. Ma per prendere il battello su quel breve braccio di lago ci si presentava una grave difficoltà: il porto di Tankoy è unicamente porto militare.
Da quando fu compiuta la ferrovia intorno alla riva sud del lago, i passeggeri non possono più imbarcarsi sui grandi ferry-boats dello Stato. Sono obbligati a servirsi del treno, o di battelli privati fuori dei porti di Baikal e di Tankoy. Quella linea di navigazione, con i suoi immensi vapori taglia-ghiaccio, rimase al servizio esclusivo dell’esercito. La legge non soffre eccezioni. Navi e approdi divennero di colpo “segreto militare„. Persino ai funzionari ed alle loro famiglie è negato il permesso di avvicinarli. Potevamo sperare di esserne autorizzati noi, stranieri? Tentammo: telegrafammo ancora ad Irkutsk. Avevamo un vago timore di riuscire alquanto importuni alle autorità, ma la colpa, dopo tutto, era dei ponti.
Ricevevamo molte visite di piccoli funzionari nel nostro quartier generale, gentili, servizievoli, pronti a correre per noi al telegrafo, a cercarci delle informazioni. Ci domandavano anche loro se eravamo stati mai assaliti, e alla risposta negativa mostravano una soddisfazione non esente da sorpresa. Questa domanda ci fu rinnovata ovunque, attraverso la Siberia, anche da ufficiali di polizia, anche da governatori, e tutti si stupivano che per lo meno non fossimo stati derubati dai mujik. Io credo che le classi dirigenti russe non conoscano il mujik, che ne siano così separate da non sapere come esso vive e che cosa pensi; che abbiano di lui un concetto tradizionale, e falso. Esse ne parlano come d’un essere temibile e stupido, d’una bestia che bisogni spaventare per non esserne spaventati. Noi abbiamo avuto più contatto col mujik di tanti funzionari che lo governano, e perciò sentiamo per lui simpatia e stima. Credo anche un’altra cosa: che la Siberia sia misconosciuta nel mondo ufficiale; che se ne sappiano le cifre ma non le idee; che se ne conoscano le ricchezze inerti ma non le energie; che si confonda il siberiano di ieri con quello d’oggi, e non si preveda il siberiano del domani. La Siberia riserba delle grandi sorprese. L’asserzione dei siberiani colti che “la Siberia è la parte più progredita dell’Impero russo„ potrà diventare una verità. È quello un paese che s’è popolato di esiliati, cioè d’intelligenti, d’emigrati, cioè di gente d’iniziativa, e di cosacchi, cioè di audaci. Vi sono gli elementi d’un popolo scelto. Esso accoglie macchine e idee moderne. La ferrovia transiberiana, costruita unicamente per la conquista, ideata come una strada militare, produce sul suo passaggio una lenta e inaspettata rivoluzione. Ma io divago.... torniamo nel buffet della stazione di Tankoy.
In quel buffet, ad un certo punto entrò un gruppo d’una quindicina d’uomini, i quali, ad onta dei grossi cappotti del paese, degli stivali alla cosacca, dei berretti di pelo, avrebbero rivelato ad un miglio di distanza che non erano russi. Come non riconoscerne di colpo la nazionalità guardando i loro occhi neri e vivaci, le loro fisionomie espressive, le loro gesticolazioni impetuose? Ci rivolgemmo a loro con lieta meraviglia:
— Come mai qui? — chiedemmo salutandoli — Tanti italiani in quest’angolo della Transbaikalia?
— Lavoriamo in una miniera di carbone, vicino; abbiamo saputo del vostro passaggio, e siamo venuti a salutarvi. Bravi! Viva l’Italia!
Le domande e le risposte incominciarono ad incrociarsi:
— Un duro viaggio, eh?
— Venite dunque da Pechino? Io ci sono stato quando lavoravo sulla ferrovia di Pao-ting-fu.
— Conosciamo le strade cinesi! Siamo stati un anno a far ponti sulla linea della Manciuria.
— A far ponti?
— Sì. Ponti ferroviari.
— Ma non lavorate in una miniera?
— Vi lavoriamo aspettando la costruzione della ferrovia dell’Amur. Pare imminente.
— La miniera è povera. Un aspetto della Taiga.
— Abbiamo lavorato anche su queste linee. Lavori in muratura.
— E tunnels.
— Ma come siete venuti a finire quaggiù, nell’estrema Siberia?
— Lavorammo alla costruzione delle ferrovie rumene, poi in quelle del Caucaso, poi in quella del Turkestan, poi in Siberia, in Manciuria, nella Cina centrale. A proposito, sapete nulla su quella dell’Amur?
— E non tornate in Italia?
— Certo, diamine!
— Lavoriamo per questo!
— Non ci mancherebbe altro, rimanere in Siberia!
— A farci gelare il naso.
Ci attardammo con quella moderna compagnia di franchi muratori, che gira il mondo costruendo ferrovie come sei secoli fa le sue consorelle giravano l’Europa costruendo cattedrali. Poi c’incamminammo verso il teatro per dormire.
Dormire al teatro è un’abitudine abbastanza diffusa, ma durante lo spettacolo. Per noi era un’altra cosa. Il piccolo teatro di legno di Tankoy si trovava in un periodo di riposo, e la polizia, mancando un albergo, aveva fatto mettere tre letti sul palcoscenico, destinandoli al nostro sonno. Il teatro era illuminato ad elettricità, tutto addobbato per una prossima recita di ferrovieri dilettanti. Il telone era sollevato, le batterie della ribalta c’inondavano di luce (impazzimmo poi per un’ora a cercare l’interruttore) e in mezzo a tutto quello splendore, noi tre che ci spogliavamo e ci coricavamo, sospirando e gemendo per le nostre ammaccature che doloravano ad ogni gesto, pareva che recitassimo qualche scena da pochade.
Fuori passavano e ripassavano sentinelle armate di fucile. Tankoy vigilava, come se aspettasse per quella notte un assalto di “quei di Sakhalin„.