La metà del mondo vista da un'automobile/XIV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XIII | XV | ► |
CAPITOLO XIV.
NEL GOVERNATORATO D’IRKUTSK
Il permesso di traversare il lago sopra uno dei ferry-boats dello Stato ci fu concesso telegraficamente. Alle tre pomeridiane del primo luglio, c’imbarcavamo sul grande vapore taglia-ghiaccio “Baikal„. Pioveva sempre. Tankoy scomparve presto nella bruma grigia. Dall’alto ponte del battello guardavamo allontanarsi e impallidire l’alta gettata fatta di travi, i fari bianchi, i grandi macchinari d’ormeggio (creati per fare dei battelli una cosa sola con la riva e riunire i binari dell’ampia stiva alla ferrovia), i tetti nuovi delle caserme e degli uffici sormontati, come da un grand’albero di nave, dall’elevata antenna di un telegrafo senza fili. Ossequienti alla legge, noi avevamo sepolto le macchine fotografiche in fondo al bagaglio. Eravamo stati avvertiti che era proibito severamente ritrarre immagini d’edifici militari, di opere portuarie, di battelli, di ponti e di lavori ferroviari, e di altre cose che tutti possono vedere. Strano paese quello, dove si proibisce la fotografia e si permettono le armi a fuoco. Vi è rimasto dopo la guerra una specie di terrore dello spionaggio. Si raccontano storie strabilianti di spie giapponesi dotate di fantastiche virtù di trasformazione. E ci è avvenuto, a noi, con le nostre stature e le nostre fisionomie, d’esser presi per dei giapponesi da qualche mujik che ce lo diceva con la più grande sincerità.
Il freddo e la pioggia ci scacciarono dal ponte. Il capitano, un gigantesco russo delle provincie baltiche, c’invitò a prendere il thè nel salone. Eravamo i soli passeggeri a bordo. La traversata non durò che due ore. Alle cinque ci trovavamo, sulla riva sinistra dell’Angara, ormeggiati ad un’altra gettata, vicino ad un’altra stazione ferroviaria: eravamo a Baikal. La strada per Irkutsk è alla destra del fiume; si passa da una riva all’altra su delle grandi barche da carico rimorchiate da vaporini. La nostra automobile, scesa dal ferry-boat, attraversò con le sue forze i binari della stazione, passò fra depositi di carbone e di legname, e andò a fermarsi, con abile manovra, a bordo d’una chiatta in partenza, mentre l’inseguiva una folla curiosa di soldati, di facchini, di mujik, di straccioni.
V’erano dei strani tipi fra quella gente, che non si poteva indovinare cosa fossero: degli accattoni con visi da gentiluomini. Uno di questi ci dava cortesemente indicazioni sulla strada:
— Fino a Krasnojarsk, discreta; in qualche punto eccellente, come da qui a Nischne-Udinsk. Vicino a Tomsk, cattiva. Più in là buona. Da Omsk agli Urali, quasi tutta steppa buonissima....
— Come fate a conoscerla così bene? — gli domandammo.
— Lo conosco passo a passo, io, il “Moskowsky Trakt„! — esclamò ridendo. — Passo a passo. L’ho percorso tutto a piedi!
La folla rise rumorosamente. Qualche voce affermò:
— Anche io!
— Per venir qui? — chiedemmo.
— Eh, si.... Ne avrei fatto volentieri a meno!
Le risa si rinnovarono.
— Qual’è il vostro mestiere?
— Il mio mestiere? Adesso? Quel che càpita. Il facchino, il tagliaboschi, il manovale ferroviario.... si mangia.
— E una volta?
— Una volta?... Non me ne ricordo più! Un’occhiata alla Taiga.
E alzò le spalle con quel gesto così comune e caratteristico dei russi, che significa: Nitchevò! — “Che importa!„
Erano le sei e mezza quando approdammo a Listwinitschnoje, dall’altra parte dell’Angara, il grande emissario del lago che porta le sue acque al Jenissei dopo un corso di quasi duemila chilometri. Listwinitschnoje, nell’aria brumosa, stretta fra oscure colline boscose e il lago, distesa sulla sponda, internata in parte in una angusta valletta, con le sue piccole case di legno, ci apparve nell’insieme stranamente simile ad una città giapponese. Eravamo sbarcati, e stavamo per partire alla volta d’Irkutsk — lontana 60 verste — , quando una giovane signora si fece largo fra la folla adunatasi intorno a noi, e ci gridò:
— Ah, Messieurs, Messieurs! Vous n’allez pas repartir tout de suite!
— Mais... oui, Madame!
— È impossibile! Dovete fermarvi un’ora almeno. Un’ora soltanto, voyons!
Alla vista della bandiera essa rimase dubbiosa.
— Non siete francesi? — ci domandò.
— No, signora. Siamo italiani.
— Italiani?.... Ebbene, fermatevi.... un minuto!
Essa sembrava molto rattristata dalla conoscenza della nostra nazionalità. Era una signorina francese, istitutrice in una ricca famiglia siberiana. Aspettava ansiosamente l’arrivo delle automobili francesi, con quella febbre che conosce chi vive lontano dalla patria. Cercammo di consolarla del disinganno che le avevamo involontariamente procurato — e che pareva l’addolorasse come un disastro nazionale — spiegandole che l’essere noi i primi a sbarcare a Listwinitschnoje non aveva proprio niente di vittorioso. Le dicemmo quanto sapevamo dei nostri colleghi: e cioè che avevano trascorso quella notte a Kabansk, villaggio situato fra Verkhne-Udinsk e Missowaja, che forse a quell’ora si trovavano già sulla riva del lago, e che probabilmente l’indomani essa li avrebbe veduti sbarcare e incamminarsi verso Irkutsk, dove senza dubbio ci avrebbero raggiunti. Noi avevamo infatti perduto quattro giorni nei nostri tentativi di girare il lago, e da Tankoy avevamo creduto bene di avvertire telegraficamente i colleghi dell’inutilità e soprattutto dei pericoli della nostra impresa.
La signorina, rasserenata sorrise, e ci disse:
— Grazie, grazie infinite!.... Aspettate un istante.
Si allontanò di corsa, e comparve con gran mazzo di fiori che ci diede esclamando
— Li ho colti io, nella foresta. Graditeli. Ed ora, buon viaggio! A rivederci!
Un minuto dopo fuggivamo sulla via d’Irkutsk, con l’automobile tutta infiorata. Ma poco lontano dal villaggio trovammo la strada chiusa da una barra, vigilata da un doganiere. A quella barra finisce il regime delle tariffe doganali di favore del quale gode la Siberia orientale. Fummo fermati, interrogati da ufficiali. Essi non avevano ricevuto l’ordine di lasciarci passare; Kiakhta non aveva loro comunicato nulla; noi non possedevamo alcun documento che provasse il nostro diritto d’esenzione. Gentilmente fummo invitati ad aspettare l’indomani per proseguire il viaggio, quando l’ufficio delle Dogane d’Irkutsk avesse fornito spiegazioni. Tutte le nostre insistenze erano inutili. L’esibizione dei passaporti lasciava la dogana di Listwinitschnoje perfettamente indifferente e irremovibile. Tentammo un ultimo mezzo. Meraviglia! La barra sì sollevò, la guardia si mise sull’attenti, gli ufficiali sorrisero cerimoniosamente salutando con la mano alla visiera, e dicendo:
— Passate pure! Buon viaggio!
Che cosa era successo? Silenziosamente Borghese aveva mostrato due carte, le due carte magiche: la lettera del Ministro dell’Interno e quella del Direttore della Polizia. Non ci facemmo ripetere due volte l’invito, per paura d’un pentimento, e filammo a tutta velocità.
La strada era buona. Ce lo aveva detto il comandante del rimorchiatore:
— Su quella strada passano tutti i giorni dei funzionari che vengono da Irkutsk a Listwin per gli affari del porto e della dogana. Dove passano i funzionari la strada è sempre ben tenuta!
Correvamo sulla verde via dell’Angara, le cui acque impetuose hanno in vicinanza del Baikal due virtù insolite nei fiumi siberiani: non gelano mai, e si mantengono estate e inverno ad una temperatura costante di quattro gradi. Andavamo velocemente, ma fummo fermati da un incidente poco piacevole. Durante una discesa, Ettore osservò:
— Sento che la macchina fatica.
— Possibile! — esclamò il Principe — La strada scende e dovremmo andare senza motore.
— Credo che il freno si sia stretto.
— Ferma! Guardiamo.
Altro che stretto! Ci trovammo circondati da una nube di fumo e da una puzza d’olio cotto. Il grasso del freno bruciava e le fiamme investivano il macchinario dei cambi di velocità. Dovevamo forse l’inconveniente a qualche guasto prodotto dalla caduta. Il freno a pedale — che con un sistema analogo al Westinghouse funziona potentemente sul cardàno — non ubbidiva più bene, rimaneva serrato, e per l’attrito sviluppava tanto calore da incendiare le materie lubrificanti. Per fortuna v’era acqua nei fossati e anche nelle pozze della strada, e potemmo spegnere subito il fuoco. Allentato il freno, partimmo. Pioveva sempre, e, come sulla strada di Missowaja, ci andavamo ricoprendo di fango. Il giorno declinava lentamente. Alle nove v’era nel cielo quello strano chiarore delle sere boreali, che sembrano senza fine, crepuscoli lunghi e tristi, vere agonie del giorno. Un’ora dopo potevamo ancora scorgere la strada che si stendeva fra grandi ombre d’alberi. Sopra una ripida salita l’automobile si fermò. Eravamo a sei verste da Irkutsk della quale vedevamo lontano dei lumi, un punteggiamento indistinto nella notte.
Una fangaia profonda ci tratteneva. Tornammo indietro, provammo in più modi a superare quel passo, sforzammo il motore, cercammo di camminare a zig-zag, ma inutilmente. La vettura scivolava, come in quella salita incontrata vicino a Verkhne-Udinsk. Da mezz’ora ci accanivamo in quel lavoro, quando intravvedemmo delle vetture che camminavano sopra l’alta banchina fiancheggiante la strada. Vedevamo le teste dei cavalli e i dunga profilarsi nel cielo. Erano molte vetture, che si fermarono. Fra lo strepito del motore udimmo delle voci chiamare; chiamavano per nome:
— Kniatz Borghese! Kniatz Borghese!
— Chi è? — chiese il Principe.
— Non si passa sulla strada! Ridiscendete fino in fondo, e dirigete la macchina sulla banchina. Nella strada s’affonda!
— Grazie. Chi siete?
— Siamo d’Irkutsk. Veniamo incontro a voi.
Poco dopo stringevamo delle mani, nella penombra, e ascoltavamo le più cordiali espressioni di benvenuto. Un signore s’offrì Nella Siberia. — L’automobile imbarcata per la traversata di un fiume. come pilota, e s’insediò con noi. Il pilota si chiamava Radionoff, era uno dei più ricchi mercanti d’Irkutsk, proprietario di battelli a vapore sul Baikal e sull’Angara, ed uno dei membri più entusiasti del Comitato russo della Pechino-Parigi. Ci condusse ad Irkutsk, e poi attraverso le vie deserte della città, sul fango delle quali tremava il riflesso dei rari fanali, fino ad un recinto bianco con un cancello verde; e chiamò qualcuno. Comparve un colosso che spalancò il cancello. Entrammo in una specie di giardino, intravvedemmo degli alberi, ci fermammo avanti ad una bella casa bianca dalle finestre illuminate che gettavano il loro chiarore sulle fronde. E, come nei romanzi, il signor Radionoff scendendo esclamò:
— È qui.
— Dove siamo?
— In casa mia, cioè in casa vostra. Il bagno è pronto. Le vostre camere sono in ordine. Il pranzo sta cuocendosi.
Ricevemmo in quella casa bianca un’accoglienza sontuosa e cordiale, l’ospitalità piena e franca di chi offre tutto quello che può e l’offre volentieri. A mezzanotte arrivarono degli amici per quel pranzo che stava cuocendosi. L’ora potrà sembrare poco adatta a chi non conosce l’estate russa, implacabile stagione di luce nella quale alle undici di sera non è ancora notte e alle due del mattino è già giorno. Vennero degli ufficiali, dei commercianti, dei funzionari. E ci trovammo fra loro come se ci fossimo conosciuti sempre. Vi è qualche cosa nel carattere slavo che lo fa somigliare al carattere latino: l’affabilità espansiva e la confidenza generosa.
A Irkutsk trascorremmo un incantevole periodo di riposo. Veramente la parola “riposo„ è esagerata; ma riposarsi spesso soltanto vuol dire cambiar lavoro. Correvamo Irkutsk in lungo e largo, per le grandi strade dall’acciottolato gibboso, fiancheggiate da palazzoni malinconici e presuntuosi, per le immense piazze impaludate dal fango, per i quartieri dei mercati, tutti di legno come enormi baraccamenti d’una fiera perpetua; andavamo da una banca a un magazzino, da un magazzino al telegrafo, dal telegrafo ad un ufficio governativo; avevamo informazioni da chiedere, conti da regolare, cento cose da acquistare per rifornire il nostro guardaroba che l’olio della macchina aveva rovinato. Guardavamo con curiosità il movimento di quella città che si dà l’aria d’una capitale, e che lo è un poco. Essa governa un paese grande venti volte la Francia; domina popolazioni di tutte le razze; per le sue vie, nella folla slava s’incontrano buriati che vengono dalla Transbaikalia, kirghisi che vengono dalle steppe, tungusi scesi dalle tundre, e circassi, e tartari, e armeni, e ebrei. È una città occidentale e orientale nello stesso tempo, nella quale gli affari arrivano presto e le mode tardi; in essa si ritrovano intatti dei costumi dell’antica Russia conservati da uomini dalle audacie nuove.
L’associazione dei ciclisti volle riceverci nel suo velodromo, al di là dell’Angara, dove arrivammo dopo aver attraversato uno dei più grandi ponti di barche che esistano al mondo. La pioggia e il freddo guastarono la festa ma non intepidirono l’ospitale entusiasmo. Le bandiere e gli stendardi profusi in nostro onore si affloscivano melanconicamente sotto l’acqua gelida, ma per contrapposto all’acqua esterna scorrevano vini generosi in tutte le gole e gli animi s’illuminavano e si scaldavano del più bel sole spirituale. Dei valorosi trovarono il coraggio per montare in bicicletta e svolgere un programma di corse che seguimmo con intenso interesse, mentre una musica militare faceva echeggiare fino alle lontane rive del fiume le più accese melodie guerresche. E alla notte eravamo ancora per la città. Siamo stati condotti al teatro prima, al café-chantant poi (lo spettacolo dei cafés-chantants in Russia non incomincia che dopo la mezzanotte), e quindi a cena, perchè così vuole l’uso — e “paese che vai usanza che trovi„. E dopo aver gustato dei gamberi venuti da Mosca e del caviale arrivato da Kazan, siamo stati condotti in un altro café-concert ad udire dei cori russi, le famose canzoni dell’Ukrania, che vi si eseguiscono sur commande. Finiti i cori, perchè non comandare anche delle danze della Piccola Russia? Assistemmo alle danze. Il giorno era chiaro quando ci fu offerto il “bicchiere della staffa„, così detto forse perchè è precisamente quello che fa perdere le staffe. Tornammo a casa in iswoshchik, all’alba del 3 Luglio, mentre la città cominciava a svegliarsi. Il nostro “riposo„ d’Irkutsk finiva.
Poche ore dopo, alle undici del mattino, lasciavamo Irkutsk circondati da una scorta d’onore di ciclisti. L’automobile s’era rifornita di benzina e di lubrificanti, e s’era trasformata con una minuziosa toilette esterna. Ettore l’aveva lavata al potente getto d’una pompa da incendi, e tutti i fanghi della Cina, della Mongolia e della Transbaikalia erano caduti sotto a quell’impetuoso torrente d’acqua. Ma l’automobile anche lavata, non aveva riacquistato il suo colore primitivo; le intemperie le avevano dato una fosca tinta; come noi essa aveva mutato di pelle; si era fatta opaca, rozza, mostrava a nudo le ammaccature e le screpolature; era più brutta, ma sembrava più forte. Per abbellirla Borghese fece chiamare un pittore da insegne e gli ordinò di dipingere sui fianchi della macchina due grandi scritte bianche: PECHINO-PARIGI. L’iscrizione sfortunatamente aveva l’aria d’una ditta da bottega: era meglio l’automobile sporca. A Irkutsk ci disfacemmo d’una parte del bagaglio, e fu sgombrato e reso abitabile il terzo sedile, quello posteriore, destinato a me. Ma fu occupato dal signor Radionoff che desiderava accompagnarci per un pezzo di strada. Egli vi penetrò (la manovra non era facile poiché bisognava scavalcare i serbatoi) stringendosi al fianco un grosso pacco incartato che scoprimmo poi contenere dei viveri. Il nostro amico aveva visto avvicinarsi il mezzogiorno, e non aveva come noi l’abitudine di dimenticare la colazione.
Prima della partenza un telegramma da Missowaja ci portò le ultime notizie delle altre automobili. Esse erano giunte a Missowaja il giorno prima, e a quella stazione avevano preso il treno direttamente per Irkutsk.
Attraversammo il gran ponte di barche, superammo un paio di verste per terreni vaghi nei quali l’automobile minacciò più volte di affondare — in vicinanza delle città siberiane la viabilità è sempre orribile — e verso mezzogiorno arrivavamo al principio della strada buona nella quale tutti i ciclisti, e tutte le istvoshchik che portavano i nostri compagni di “riposo„ ci avevano vergognosamente preceduto. Ci scambiammo dei saluti, scoppiarono degli hurrah!, e tutti i berretti si agitarono in aria mentre la nostra macchina si slanciava velocemente lontano.
Se il freddo non fosse stato troppo pungente, un freddo straordinario anche per la Siberia in estate, avremmo trovato deliziosa quella nuova fase del nostro viaggio. La strada ci permetteva di mantenere una velocità media di trenta chilometri all’ora. Costeggiavamo la riva sinistra dell’Angara, maestoso, dalle acque purissime e veloci. Irkutsk spariva a poco a poco nell’ampia vallata ubertosa, e finimmo per non vederne più che le chiese, grandi e numerose: una folla di cupole, di cuspidi, di pinnacoli, che rimanevano ancora a biancheggiare nella verde lontananza quando le abitazioni cittadine erano già scomparse. In Siberia — Come s’imbarcava l’automobile per attraversare un fiume.
Il paesaggio acquistava al nostro sguardo una linea più dolce. La campagna scendeva piano piano con il discendere dell’Angara. Le brusche montuosità che circondano il lago Baikal declinavano in ondeggiamenti sempre più lievi; si sentiva che andavano a spegnersi nelle pianure sconfinate della Siberia centrale. Lasciavamo dietro di noi le ripide montagne che si accavallano all’orizzonte simili a grandi marosi immobili, ed avevamo — come quando ci avvicinavamo alla Mongolia — l’impressione d’una tempesta che si andasse calmando. La strada cominciava ad avere lunghi tratti piani e dritti, nei quali potevamo fuggire alla velocità di 40 e anche di 50 chilometri, fra praterie verdi e folte, screziate e striate da fioriture gialle e bianche, costellate dagli stessi vividi fiori delle Alpi, e popolate da mandrie di buoi e di cavalli vigilate da mandriani dalla tunica asiatica e dal berretto di pelo da cosacco. La pastorizia è laggiù ancora l’occupazione esclusiva dei semibarbari, di meticci che hanno un po’ dello slavo e un po’ del mongolo.
Il signor Radionoff, che per la prima volta s’iniziava alle vertiginose delizie della velocità, mandava gridi di meraviglia, d’entusiasmo e di piacere. Ad ogni volata ripeteva ferventemente il proposito di acquistare un’automobile. La voleva subito; l’avrebbe ordinata appena tornato a casa; avrebbe telegrafato; intendeva averla come la nostra, precisa. Dopo un po’ il suo entusiasmo si calmò; il nostro ottimo compagno s’era fatto taciturno: aveva aperto il pacco della colazione. Senza dir niente ci passava dei cibi; vedevamo comparirci vicino al viso la sua mano con un enorme sandwich, che afferravamo facendo un cenno di ringraziamento e divoravamo; appena il sandwich era sparito, ricompariva la mano con una nuova porzione. Pareva la mano della Provvidenza. Le sue provviste dovevano essere inesauribili, poichè finì prima il nostro appetito di loro.
Passavamo per numerosi villaggi, cinti dalle loro staccionate, con i cancelli che barravano la strada. Al di sopra dei tetti di legno si levavano le sottili aste dei pozzi, tutte eguali, alte, inclinate; si sarebbero dette delle lunghe lance lasciate fuori dagli usci troppo piccoli. Alcuni di quei villaggi erano cosacchi: sulle case sventolavano piccole bandiere rosse o bianche con dei numeri. Ogni finestra aveva i suoi fiori: le nere isbe se ne erano ornate per festeggiare la breve primavera. Il siberiano adora i fiori, e, per quanto povera, la sua casa ha sempre dei vasi di gerani, di garofani, di oleandri, che prosperano al calore della stufa. Il fiore rallegra la nudità dell’isba. È amato perchè raro, ed anche perchè quelle piante che bisogna curare tengono compagnia nei lunghi, silenziosi e bianchi mesi dell’inverno, quando il freddo e la neve interrompono ogni lavoro e bloccano gli abitanti nelle loro case. Il mujik pone una cura costante all’abbellimento della sua abitazione; distende rozzi tappeti sul pavimento, riempie le pareti di vivaci immagini, d’iconi, di ritratti imperiali, dispone tutto con ordine; il samovar lucido è posto sopra un tavolo vicino ad una finestra perchè sia veduto dalla strada; intorno al samovar i bicchieri e i piattini; sopra un mobile d’onore tutte le cose preziose della famiglia, tazze di porcellana, piatti dipinti che servirono alle nozze, una lampada votiva sempre accesa: alle finestre cortine di percalle. Vi è in quelle case un senso d’intimità raccolta e contenta, che non esiste in paesi ove nella casa non si vive molto perchè il sole è caldo anche nell’inverno, l’aria è dolce, e si sta bene all’aperto.
Siamo arrivati sulla riva destra d’un fiume, il Suchuja. È un fiume doppio, diviso da una lista di terra nel mezzo: una metà si passa a guado, l’altra metà in battello. Molti fiumi siberiani hanno così una parte profonda e una parte bassa; sono insidiosi da un lato e benigni dall’altro. Alcuni di questi hanno un ponte per traversare la zona migliore e una barca per traversare il resto, nel quale si adunano tutte le furie e tutti i pericoli della corrente. Un ponte intero non resisterebbe alle piene. Un grande battello ci ha tragittato. Non è stato facile portarvi l’automobile; abbiamo dovuto rinforzare la passerella sulla quale Ettore ha spinto la macchina velocemente con la sicurezza e l’esattezza dimostrata già sulla Selenga. Poi abbiamo finito col far pratica di questi imbarchi. Traversammo su battelli, qualcuno vecchio e sbilenco, una quantità d’altri fiumi, grandi e piccoli, l’Ospin, il Bjelaja, il Salarin, l’Oka, portanti le loro acque ad ingrossare l’Angara nel suo cammino verso il Jenissei.
Sui barconi, insieme all’automobile, tragittavano teleghe provenienti dai mercati vicini, e ci trovavamo in mezzo alla caratteristica folla dei campagnoli siberiani, che ci salutavano rispettosamente e scambiavano fra loro strane osservazioni. Fu sopra uno di quei battelli che ci sentimmo domandare se eravamo giapponesi. L’uomo che aveva espresso questo sospetto sulla nostra origine, spiegò:
— Credevo foste giapponesi, perchè queste macchine in Russia non ci sono, e voi venite da quella parte. — E accennò l’oriente; poi aggiunse: — Dicono che i giapponesi abbiano tutte le macchine che sono state inventate.
Sull’Oka, un vecchio mujik mormorò al barcaiuolo:
— Riavremo presto la guerra!
— Perchè, padrino?
— Ecco che ispezionano il paese! — e accennava a noi, scuotendo il capo pensosamente.
Che cosa avrà mai egli imaginato del nostro essere e del nostro viaggio? E chi sa che opinione si facevano dell’automobile tutti i pacifici abitanti dei villaggi. Alcuni esprimevano una meraviglia intensa, rimanevano storditi, si lasciavano cadere gli attrezzi del lavoro dalle mani. Altri accorrevano lietamente come al passaggio d’un innocuo fenomeno o d’una troupe di giocolieri ambulanti sulla loro roulotte. Qualcuno fuggiva. Le donne spesso ridevano da tenersi i fianchi, come avevano riso i mongoli presso Urga — il che potrebbe dimostrare che la donna è vagamente più barbara dell’uomo, che essa ha un’anima ancora un po’ selvaggia. Ma quando ci fermavamo, tutti si avvicinavano rassicurati, e un minuto dopo trattavano noi e l’automobile con la più amichevole familiarità. I giovani ammiravano e facevano sensate domande sulla velocità e sulla forza della macchina. Più volte trovammo la strada interrotta dai lavori della ferrovia. Si sta facendo un secondo binario della transiberiana: meglio ancora, si sta facendo una seconda linea transiberiana, della quale, probabilmente, chi viaggia in treno non si accorge. Perchè è una linea che ha un tracciato a sè, che si svolge indipendentemente dall’altra, che funzionerà per suo conto, raddoppiando i vantaggi della transiberiana ed evitando gl’inconvenienti di un doppio binario. Se un ponte crollerà, rimarrà intatto un altro ponte; nulla potrà interrompere interamente il servizio. La nuova linea avrà le sue stazioni, il suo telegrafo, le sue cantoniere. Ad un certo punto abbiamo veduto uno spettacolo che ci lasciò una impressione sinistra. Un vecchio Starosta siberiano.
Sopra una banchina della nuova ferrovia lavoravano centinaia d’uomini in uniforme grigia. Li scambiammo per soldati. Credevamo di riconoscere nella loro la nuova uniforme di guerra. Ma appressandoci ci siamo accorti che ognuno aveva una catena dalla cintura al piede. Delle sentinelle, armate di fucile con la baionetta in canna, il cappotto gettato sulle spalle, una sigaretta alle labbra, vigilavano intorno. Quando passammo vicino, gli uomini grigi sospesero il lavoro, e si sollevarono tutti per guardarci, silenziosamente; poi salutarono togliendosi il berretto. Avevano la testa rasata a metà, come una parrucca da clown, orrenda e grottesca. Provammo un senso di gelo nell’anima come ad una rivelazione triste, e mormorammo:
— I forzati!
Essi ci guardavano sempre. Eravamo lontani e ci guardavano ancora. Ci sentivamo inseguiti dalla loro attenzione fervida e silenziosa. Nelle loro immaginazioni noi rappresentavamo la fuga. Ricordavamo le terribili pagine di Dostoïewsky sulla “Casa dei morti„. Chi sa quale grande avvenimento rappresentava il nostro passaggio nella vita atrocemente eguale di quell’armento d’uomini cancellati dalla società, e che si chiamano con dei numeri.
Arrivammo alle sette della sera a Zima, con un tempo piovoso. Avevamo percorso 225 chilometri. Nel buffet della vicina stazione ferroviaria riuscimmo ad ottenere un borsh condito con panna acida e delle cotolette che dichiarammo insuperabili. Trovammo il nostro deposito di benzina e d’olio nella casa d’un mercante ebreo — agente della ditta Nobel — presso il quale passammo la notte.
Zima in russo significa inverno. Per conto nostro trovammo il nome deplorevolmente bene appropriato. A Zima il freddo era quasi insopportabile, e ci dicevamo scherzando:
— Verrà il mese di luglio!
Il curioso è che il mercante nostro ospite ci assicurava che fino a due giorni prima aveva fatto un caldo soffocante. Pareva proprio che il freddo volesse accompagnarci apposta attraverso la Siberia, per fare gli onori di casa.
Alle quattro del mattino eravamo già in marcia. Naturalmente il cielo era coperto, l’aria umida e gelida. Le pellicce non bastavano a ripararci, e ad esse avevamo aggiunto cappotti e impermeabili; eravamo gonfi come eschimesi. Da qualche giorno si verificava questo dispettoso fenomeno meteorologico: alla notte il tempo si rasserenava completamente; partivamo con la più bella alba del mondo; al levar del sole un po’ di nebbia si mostrava a ponente, sorgeva, si faceva nuvola, ingigantiva, invadeva tutto, e incominciava a piovere. La trasformazione si operava in mezz’ora. Il cielo si spogliava di notte e si copriva di giorno, con una costumatezza eccessiva. Regolarmente l’occidente ci mandava incontro un temporale quotidiano. Era così che ci accoglieva. Ettore, il quale all’alba era sempre il più convinto che avremmo avuto “una splendida giornata„, non sapeva darsi pace del cambiamento; esclamava ogni tanto, indicando il ponente:
— Ma che è, la miniera delle nuvole? Non finiranno mai? — e concludeva melanconicamente: — Che paesi!
Incontravamo molti villaggi, e le strade erano abbastanza frequentate. Dovevamo star molto attenti ai capricci dei cavalli per non provocare disgrazie. La meraviglia paralizzava i loro guidatori. Avvenivano delle scene d’una comicità irresistibile. Un cavallo attaccato ad una telega, atterrito dalla presenza dell’automobile — che pure andava a passo d’uomo, come sempre quando incontravamo dei cavalli — s’impennò, rovesciò la telega, riversò in terra il carico e il mujik che guidava, e si diede alla fuga. Il brav’uomo, trovatosi involontariamente seduto al suolo, continuò a guardarci sorridendo come ci guardava prima della caduta, senza un pensiero per il suo carro e per la sua bestia, con l’aria di non essersi nullamente accorto del repentino mutamento di posizione, assorto, affascinato, e ci salutò quando gli fummo vicino:
— Salute! Da dove venite?
— Da Pechino.
Giunse le mani ed ammirò con la bocca aperta. Un contadino a cavallo fu preso dal ridere alla nostra vista; improvvisamente la sua cavalcatura atterrita, fece un voltafaccia, lo sbalzò di sella; egli si rialzò ridendo sempre e ci disse, tutto contento:
— Ah, va meglio un carro senza cavallo, che un cavallo senza carro! Ah, ah, ah!
Dobbiamo confessare che, con tutte le nostre cautele, la quantità di teleghe rovesciate era esorbitante. I cavalli avevano paura anche se l’automobile stava ferma; vedevano in essa chi sa quale belva divoratrice. E le teleghe, vetture strette per passare per tutto, alte per guadare, e leggiere per non affondare nel fango, hanno tutti i requisiti necessari per rovesciarsi con la massima facilità. Per di più i cavalli di contadini in Siberia non hanno morso; portano soltanto una sottile capezza. Aggiungete a tutto questo la stupefazione degli uomini. Essi si preoccupavano di una cosa sola: di capire che diamine fosse quel grosso mostro grigio oscillante e sobbalzante sulla strada. Non udivano niente, nè avvertimenti, nè consigli, e molto spesso dovevamo fermare, scendere, prendere i loro cavalli per la capezza, e condurli lontano.
Incontrammo una diligenza postale — un grosso tarantas — nella quale tutti, passeggeri e cocchiere, dormivano profondamente. I tre cavalli, spaventati, si trovarono d’accordo in una decisione prudente: quella di tornare indietro. Nessuno si svegliò. Sorpassammo il tarantas senza inconvenienti, e dopo vari chilometri, dalla vetta d’una collina, lo rivedemmo lontano, dietro a noi, che continuava a rifare tranquillamente trotterellando la strada già fatta; e non potemmo trattenerci dal ridere pensando alla sorpresa dei passeggieri e di quel cocchiere risvegliandosi dopo tanto cammino alla stessa stazione di posta dalla quale erano probabilmente partiti.
Spesso delle grandi mandrie di buoi o di cavalli riempivano la strada, e dovevamo aspettare che tutti gli animali passassero uno per uno, diffidenti, paurosi, restii, spinti dal pungolo dei mandriani galoppanti qua e là per rimbrancare le bestie che fuggivano. Non mancava varietà al nostro cammino. Per molti chilometri ci trovavamo fra boscaglie deserte, odoranti di resina. Ci sembrava di passare nel viale d’un immenso parco; tutto era in fiore, e i prati e le radure avevano ombre silenziose e invitanti. Quando vedevamo da lungi una valletta eravamo sicuri di trovarvi un villaggio.
I villaggi si rifugiano nelle valli per ripararsi dai venti impetuosi che soffiano dalle glaciali pianure del tundre al nord, e per avere dell’acqua. Le isbe si adunano in riva a limpidi ruscelli, sui cui bordi schiamazzano enormi branchi d’oche, destinate ad essere spedite gelate ai grandi mercati invernali della Russia. All’ingresso e all’uscita dell’abitato si leva un palo dipinto a striscie bianche e nere, e sul palo è inchiodata una tabella che porta scritto il nome del villaggio, la distanza del villaggioL’automobile affondata in un villaggio siberiano. — La popolazione si affretta al salvataggio. vicino, il numero dei focolari e degli abitanti: insomma un vero estratto di statistica per comodo dei funzionari che passano a raccogliere tasse o soldati. Una tabella indica la casa dello Starosta, un’altra la Zemstwoskaya Dom, cioè l’abitazione dove i funzionari in viaggio hanno diritto di alloggio. Vi è un’aria di militarizzazione in tutto ciò; pare che le case stesse siano arreggimentate, contate, messe in rango, e che, come le tende d’un accampamento, debbano trovarsi pronte a spostarsi e andare altrove al primo comando superiore. Si direbbe che non la necessità le abbia fatte sorgere, ma un ordine. I villaggi si trovano a distanze quasi eguali — da venti a venti verste — e dànno l’idea di grandi corpi di guardia disposti sul Moskowsky Trakt. Prima di essere villaggi sono stati infatti delle tappe.
Fino a pochi anni fa, fino a che la ferrovia non ha attraversato la Siberia, essi segnavano le giornate di marcia dei convogli d’esiliati e di deportati, che ora il treno trasporta in vagoni carcerari dai finestrini ferriati. E ad una estremità d’ogni villaggio v’è ancora la stazione di tappa degli espatriati. È un grande edificio di legno, basso, quadrato, dalle finestre inaccessibili munite di solide inferriate, adiacente ad una corte chiusa da un recinto: nel recinto pochi edifici comuni, una scuderia forse, un ufficio, un dormitorio per i soldati; intorno delle garitte per le sentinelle. Ma ora le porte sono barrate con tavole; nessuno può varcarle, tutto decade, i tetti si sfondano, le garitte pencolano, le pareti si piegano infradiciando. Questi edifici vuoti e sfasciati fanno un effetto lugubre, come case hantées. Sembrano non soltanto abbandonati, ma fuggiti. Non è possibile guardarli con indifferenza. Sono sorti per albergare il dolore, e si pensa se di tutte le sofferenze e le angoscie che per tanti anni sono passate fra quelle pareti non sia rimasto niente, se quel senso di tristezza e di ripugnanza che si prova passandovi vicino non venga da qualche cosa di vivo e di accorato che è nell’aria, da una misteriosa emanazione di pianto, da un’eco indefinibile di voci disperate che le cose ripetono e l’anima sente.
Ogni villaggio, avendo un fiumicello, ci offriva un ponte da passare, e naturalmente un ponte di legno. Dopo la nostra caduta, avevamo per i ponti in genere una diffidenza rispettosa. Cercavamo di passarli alla maggiore velocità possibile, non tanto per il timore di vederceli crollare, quanto per evitare lo scricchiolìo delle tavole. Ci era rimasta una invincibile antipatia per il rumore del legno che si rompe; era un senso tutto fisico, un vivido richiamo alla memoria istintiva. Lo scricchiolare di un pezzo di legno sotto alle ruote aveva la potenza d’un segnale d’allarme; il pensiero poteva essere altrove, e continuare anche ad essere altrove, ma il corpo trasaliva e si metteva in guardia. E sui ponti, specialmente sui grandi ponti — quelli alti, scavalcanti burroni profondi, fiumi rapidi, precipizi — provavamo una curiosa soddisfazione, un piacere negativo, per dir così, che non mancavamo mai di constatare con qualche osservazione quasi involontaria: il piacere di non precipitare. Ci dicevamo:
— Se si sfasciasse questo ponte!
— Non la racconteremmo più.
— Ci troverebbero a pezzi.
E sembravamo tutti contenti di non essere laggiù, nel fondo che vedevamo sporgendoci a guardare al di sopra del parapetto per una invincibile attrazione, contenti soprattutto di non esservi a pezzi.
Verso le due e mezza del pomeriggio del 4 Luglio arrivavamo a Nischne-Udinsk, a circa 500 chilometri da Irkutsk. Fummo ricevuti dalla Polizia che ci aveva preparato un alloggio nel suo stesso ufficio. È inutile, certi onori non toccano che ai grandi uomini e ai delinquenti. Un gendarme ci fece il thè, un gendarme ci preparò i letti, un gendarme ci cucinò il pranzo. Era la forza addomesticata. Pensate, comandare un menu ad un gorodovoi sull’attenti! Lo straordinario è che il pranzo riuscì eccellente.
Mentre il Principe riceveva il comandante della Polizia e gli ufficiali, mentre Ettore, che aveva trovato pronto il deposito di combustibile e di lubrificante, nettava e nutriva la macchina, io sostenevo una lotta epica con l’ufficio telegrafico di Nischne-Udinsk, per riuscire a trasmettere il mio resoconto. Dopo i telegrafisti fumatori d’oppio di Hsin-wa-fu, non avevo più trovato un ufficio più singolare. Alla presentazione del dispaccio l’impiegato mi chiese:
— Che lingua è questa?
— Italiano — risposi.
— Non trasmettiamo l’italiano.
— Dovete trasmetterlo in forza delle convenzioni internazionali.
— Ma chi ci assicura che è italiano?
— Io.
— Non basta.
La pazienza stava per isfuggirmi, ma riuscii a riacciuffarla, e osservai con calma:
— Fate leggere il dispaccio a chi può capirlo.
— Nessuno può capirlo qui.
— Insomma! — gridai — volete o no trasmetterlo?
— Lo trasmettiamo come dispaccio scritto in codice.
— E sia.
— Le parole che hanno più di dieci lettere sono tassate doppie.
— E sia.
— Favoriteci il cifrario e la traduzione in lingua russa. Così vuole la legge per i telegrammi cifrati e in codice.
Era troppo. Andai in cerca di aiuti, e trovai il signor Radionoff, il nostro buon compagno di viaggio, che partito con noi per accompagnarci fuori d’Irkutsk mostrava un’apparente intenzione di non abbandonarci più. Lo trascinai al telegrafo, lo infiammai della mia esasperazione, perorammo in due, ma inutilmente. Allora ebbi una buona idea; presi un modulo, lo riempii di una protesta indignata e la feci telegrafare d’urgenza al Direttore generale dei telegrafi della Siberia a Irkutsk. Un’ora dopo la lingua italiana era ufficialmente riconosciuta a Nischne-Udinsk. Ma rimpiangevo di cuore, come giornalista, quei piccoli cinesi isolati nei lontani uffici di fango del deserto di Gobi, quei bravi telegrafisti dal codino i quali dovevano mettere in testa al mio dispaccio il N. 1, e lo spedivano senza un errore e senza un ritardo attraverso a tutti i cavi dell’Oriente.
Alla sera tardi l’amico Radionoff prese la risoluzione di abbandonarci. Il vento e gli spruzzi di fango gli avevano procurato una improvvisa flussione d’occhi, la quale non gli permetteva più di apprezzare i piaceri d’un prolungato automobilismo. Ci accomiatammo con un certo rimpianto da questo ospite squisito. Voleva prendere un treno della notte per Irkutsk. Nel salutarmi mi disse con aria di confidenza e di soddisfazione:
— Sapete, anche io sono un po’ giornalista!
— Davvero? L’Itala affondata in un villaggio siberiano e risollevata con un sistema di leve fatte di travi.
— Sì. Oggi ho mandato un dispaccio ai giornali d’Irkutsk. Eccolo: “Sopra automobile Borghese giungemmo Nischne-Udinsk ore 2.35 viaggio splendido„.
— E basta?
— Oh, no! C’era anche la firma.