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290 capitolo xiii.


Erano le nove e un quarto.

Questa stazione non ha un nome: ha un numero. Sorge in mezzo a luoghi completamente disabitati; non è stata costruita per comodità di passeggeri. È una stazione di “servizio„ fabbricata all’epoca della guerra col Giappone, come tante altre, per accrescere la potenzialità della linea aumentando il numero degli incroci. Si chiama “Sedicesima stazione di smistamento„. Non dimenticheremo facilmente la Sedicesima stazione di smistamento della Transbaikalia.

Il capostazione, un giovane biondo, aitante, gentile, ci avvertì che era prossimo il passaggio del treno da Missowaja, e che perciò non potevamo più continuare la nostra corsa sulla linea. In verità all’arrivo del treno mancava più di mezz’ora; ma l’avviso era prudente, e perciò saggio. Ci tirammo in disparte ad aspettare. Il capostazione ci consigliò di riprendere il cammino sull’antica strada maestra, ancora praticabile, e di seguirla fino a qualche passaggio a livello, dove avremmo potuto tornare sulla ferrovia. Il fatto è che egli, in mancanza d’ordini, non voleva permetterci di rientrare sulla linea nella stazione, e ci mandava gentilmente lontano dalla sua giurisdizione. Noi accettammo il suo consiglio. Si trattava, in fondo, di pochi chilometri, e ne avevamo percorsi delle centinaia su quella via della desolazione. Seguimmo fedelmente un viottolo che ci era stato indicato, e un minuto dopo correvamo sull’erba folta della strada condannata.

Anche lì, come in quei tratti che conoscevamo già, non un segno di transito recente, non un’orma. La fiancheggiavano folte boscaglie. Perdemmo subito di vista la stazione, e ci ritrovammo nella solitudine verde e fiorita. Avevamo appena percorso un mezzo chilometro, quando ci si presentò un vecchio ponte di legno.

Era lungo un venticinque passi, largo quattro. Non arrivava alla larghezza degli altri ponti, ed appariva diverso per la disposizione delle tavole, per una certa rozzezza di costruzione. I ponti stradali, ordinariamente, anche se infradiciti, scalzati, mezzo demoliti, conservavano i segni d’una grande accuratezza di lavoro.