La metà del mondo vista da un'automobile/X
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CAPITOLO X.
SULLA VIA DI KIAKHTA
La terza disgrazia — Fra mongoli e buriati — Una corsa notturna — Il passaggio dell’Iro — La prima foresta — Kiakhta.
La strada fra Urga e Kiakhta, quella percorsa dalle carovane, valica un gruppo di montagne compreso fra i fiumi Chara-gol e Iro (che scorrono tutti e due da est ad ovest per gettarsi nell’Orchon, il più grande confluente della Selenga). Quelle montagne, che prendono il nome di Chara-gol, ma che, sulla fede della carta geografica, si chiamano anche Monti Argal, sono scoscese e sassose. La strada ci era stata descritta come difficilissima. Per questo avevamo deciso di evitarla.
Volevamo girare intorno ai monti malfamati, avvicinandoci alla valle dell’Orchon. E per ore ed ore, dirigendoci col semplice aiuto del buon senso, passando per una rete di viottoli e di sentieri, lasciandoli volta a volta a seconda del loro orientamento, correndo spesso fuori d’ogni sentiero, valicammo colline, traversammo pianure, percorremmo vallate. Non era raro il caso che una parvenza di strada ci conducesse per luoghi impossibili, ci mettesse di fronte a passaggi da capre, e allora tornavamo indietro, pazientemente, fino al primo bivio. Quando potevamo domandavamo indicazioni ai pastori, ai carovanieri, ma le loro risposte erano sempre vaghe. I più c’indicavano il nord: Kiakhta era al nord, e loro non conoscevano modo migliore di andarvi che dirigendosi da quella parte.
Diffidavamo dei sentieri abbandonati; scendevamo spesso dalla vettura ad osservare se le traccie d’un transito erano recenti o antiche; preferivamo il terreno vergine ad un sentiero abbandonato, perchè l’abbandono era sempre giustificato da qualche grave ragione. L’abbandono significava pericolo. Esplorando a piedi trovavamo infatti che più avanti il terreno si era allagato, o impantanato, oppure che l’acqua aveva scavato qualche largo crepaccio. Avveniva talvolta che trovavamo improvvisamente i segni freschi del transito interrotti, e allora investigando scorgevamo sull’erba che essi deviavano, e deviavamo anche noi. Profittavamo così dell’esperienza dei nomadi e dei conduttori di carovane. Della gente passata da giorni, e che si trovava allora chi sa quanto lontano, da noi, ci serviva da guida come se fosse lì e ci precedesse.
Alle due del pomeriggio sboccavamo in una pianura verde di cespugli e di alte erbe; non osservammo al primo momento che era tutta una vegetazione palustre. Calcolavamo che il fiume Chara-gol non dovesse essere lontano. Avanti a noi si levavano le prime vette degli Argal. Ad un certo punto ci accorgemmo che la strada sembrava abbandonata. Avevamo avuto appena il tempo di scambiarci una rapida parola, che l’automobile affondava e si fermava di colpo. Era entrata velocemente in un pantano torboso, la cui crosta, essiccata dal sole, aveva tutte le apparenze della solidità. Questa volta la macchina s’era inclinata a destra.
Saltati a terra, constatammo uno strano fenomeno, che ci tolse immediatamente tutto il nostro coraggio. Il suolo ondeggiava sotto i nostri passi. Era come se camminassimo sopra una distesa di pezzi di sughero galleggianti nell’acqua. La crosta cedeva senza rompersi; si abbassava alla pressione del piede, per rialzarsi appena il piede la lasciava. Ad ogni passo sentivamo un propagarsi d’onde. Il terreno faceva l’effetto d’una vasta distesa di caucciù. Era evidente che sotto a quella debole superfice vi erano delle profondità liquide. Vi pensammo come ad un abisso di fango. Volemmo sondare il suolo, e v’immergemmo il manico della pala: il lungo bastone scivolò giù come in una guaina. Ne provammo un senso di terrore. Comprendemmo che quella massa di mota avrebbe inghiottito l’automobile se non riuscivamo a salvarla sùbito.
Ci guardammo intorno. Eravamo soli. La pianura, silenziosa Fra le alte sabbie della Mongolia settentrionale in vicinanza di Kiakhta. e calda, era deserta. Cominciammo a lavorare, ma con l’angoscia di fare cosa inutile. Compivamo un dovere; non volevamo cedere senza lotta; ci preparavamo a contendere con tutte le forze la nostra macchina alla voragine di melma, ma senza speranza di vincere, con l’animo di chi contende alla morte la vita d’una persona cara e condannata. Lavoravamo per ingannare noi stessi, per darci l’illusione di essere utili. Sapevamo bene che non avremmo potuto far nulla, noi tre soli. Non v’erano città vicine, dove correre a domandare aiuto, a cercare operai, macchine, argani.
— Se si trovasse un cavallo! — disse Borghese. — Se si trovasse un cavallo correrei ad Urga, arriverei nella notte, e domani a sera sarei di ritorno con degli uomini....
Troppo tardi! L’indomani a sera la macchina sarebbe stata già forse sepolta.
— Questa volta è finita! — esclamava il Principe di tanto in tanto, lui che non si scoraggiava mai di nulla. — Adesso è finita! Stamani, quando abbiamo incagliato la prima volta, ero sicuro che ce la saremmo cavata, ma ora...!
E pensavamo già, senza dirci nulla, al lungo viaggio a piedi, per le montagne di Chara-gol, con un sacco sulle spalle, verso Kiakhta, taciturni come dei prigionieri di guerra pieni della visione d’una battaglia perduta.
Il lavoro delle martinette non aveva prodotto altro risultato che di immergere le martinette stesse nel suolo, e di rompere di più la piccola crosta solida che sorreggeva ancora l’automobile. L’affondamento continuava lento, inesorabile.
Il mozzo della ruota posteriore destra era scomparso per il primo. Le assi, il cassone della benzina, il differenziale, s’incastravano sempre più nel fango. I montatoi, che al primo momento stavano a venti centimetri dal suolo, dopo alcuni minuti s’erano piantati a fondo nella terra. La macchina insensibilmente scompariva. Provavamo l’angoscia del naufrago che assiste all’agonia della sua nave. Ci ponemmo alacremente ad alleggerirla. Scaricammo il bagaglio, gli attrezzi, le pneumatiche di ricambio, gettando tutto alla rinfusa sull’erba. E poi non potevamo fare altro, e rimanemmo immobili, cercando ostinatamente un rimedio.
— Prepariamoci un bicchiere di thè — disse Borghese dopo un lungo silenzio.
Quelle poche parole erano quasi un segnale d’abbandono. Fare il thè voleva dire lasciare la macchina, smettere di prodigarle il nostro lavoro inutile.
Un ruscello vicino ci fornì l’acqua, che facemmo bollire con la fiamma della lampada da saldare, e ci facemmo una pentola di thè, alla quale attingevamo con i bicchieri. Sdraiati in terra, scamiciati, sudati, sporchi di fango, bevevamo a piccoli sorsi rosicchiando distrattamente dei pezzi di biscotto. Avevamo perduto l’abitudine alla colazione; in viaggio non sapevamo mai deciderci a fermarci per mangiare; non provavamo che un desiderio, quello di arrivare alla tappa, e l’appetito insoddisfatto non era che un incentivo di più a non perdere tempo. Ma allora potevamo sfamarci.
Decidemmo sul da farsi. Uno di noi sarebbe rimasto accampato vicino all’automobile, gli altri avrebbero ripreso la strada di Urga, avrebbero cercato uomini, legname, cavalli, per ritornare al più presto. Non speravamo nell’arrivo di qualche carovana: la strada era abbandonata.
Ma ecco, invece, che una carovana si mostra, lontano, fra le alte giuncaglie. È una fila di carri a cavallo, e sui cavalli riconosciamo il dugà, quel caratteristico arco di legno dell’“attacco„ russo. Era una fila di teleghe.
— Dei russi, sono dei russi! — gridai slanciandomi di gran corsa verso di loro, saltando sui cespugli, affondando nella mota, chiamandoli e facendo dei gran gesti per farmi scorgere.
Dei russi ci sembravano quasi dei compatrioti in quel momento. Sentivamo un’affinità e una solidarietà di razza con loro, in mezzo alla Mongolia. La loro presenza era la salvezza. Quando fui vicino mi accorsi che le teleghe erano piene di gente che vestiva, è vero, in una foggia quasi russa, ma che aveva una faccia mongola: erano buriati. Mi trovavo di fronte ad una tribù buriata che emigrava con le sue donne e i suoi bambini. Il capo cavalcava avanti, vestito d’una camiciola rossa, coperto da un berretto alla foggia tartara. Non aveva una fisionomia troppo rassicurante. Lo invitai a seguirmi, ed egli, ordinato alla sua tribù di fermarsi, mi seguì.
Parlava un po’ di russo. Osservò l’automobile e domandò:
— Quanto pesa?
— Centoventi pud. Vi è una buona ricompensa per te se riesci a portare questo carro fuori di qui. Accetti?
Il capo buriato meditò qualche momento, poi rispose:
— Sì, accetto.
— Sta bene. Conduci qui i tuoi uomini e i tuoi cavalli.
Egli tornò alle teleghe e le fece avvicinare di alcune centinaia di metri a noi. Le donne ne discesero, cercarono del combustibile, accesero i fuochi. Ma i cavalli non furono staccati, e gli uomini non vennero. Noi ardevamo d’impazienza. Dopo una mezz’ora il capo ritornò, solo.
— Ebbene? gli chiese il Principe — Che fai? Quando ti metti al lavoro?
Il buriato non dimostrava alcuna premura. Domandò:
— Sei pronto a darmi cinquanta rubli?
— Tu porta questo carro fuori di qui, e io ti do cinquanta rubli.
L’uomo se ne riandò fra la sua gente. I cavalli continuarono a rimanere attaccati alle teleghe, e gli uomini a stare vicini ai carri. Questo contegno cominciava ad essere strano.
Intanto dei mongoli arrivavano al galoppo dei loro piccoli cavalli. Scendevano chi sa da dove. Il loro occhio da avvoltoio aveva scorto da lontano un insolito oggetto nella pianura, e venivano a vedere. Ci trovammo presto circondati da una fiera moltitudine che osservava discutendo. Il buriato, incuriosito forse da quel movimento, si avvicinò per la terza volta, sempre solo. Borghese gli domandò ancora:
— Quando ti metti al lavoro? Hai chiesto cinquanta rubli, e ti do cinquanta rubli, ma sbrigati. Conduci qui i tuoi uomini.
Il capo tribù scosse la testa.
— Non vuoi più? — gli chiese il Principe.
— No.
— E perchè?
— Non si può. È impossibile.
E si allontanò.
Perchè non tentava? O perchè, riconosciuto che l’impresa era impossibile, non se ne andava via con le sue teleghe, invece di rimanere accampato vicino a noi? E perchè accampandosi lasciava i cavalli attaccati, quasi volesse tenerli pronti a prendere il largo? Mi si affacciava alla mente il sospetto che quei buriati meditassero qualche progetto poco piacevole per noi. Eravamo inchiodati al suolo, ed essi lo sapevano; non potevamo sfuggire. La domanda dei cinquanta rubli non era stata fatta forse per sapere se avevamo denari, molti denari, e per giudicare la nostra ricchezza dalla nostra generosità? Essi erano tanti, e noi in tre.Attraverso un villaggio della Siberia. Le steppe mongole offrono impunità ed asilo. Su di esse non regnano altre leggi che quelle della tradizione e della forza.
I mongoli che ci stavano intorno avevano compreso una cosa: che offrivamo del denaro per essere aiutati. La parola rublo ha una circolazione molto più vasta della moneta. Essi si misero subito al lavoro tentando di risollevare l’automobile a braccia. Ci sentimmo rianimare da quelle buone disposizioni. Occorrevano delle travi. Non so quale invincibile eloquenza mettemmo nei nostri gesti; il fatto è che fummo capaci di descrivere delle travi con una mimica prodigiosa. E fummo perfettamente compresi. Tre dei nostri nuovi amici salirono in arcione e si allontanarono di carriera, per ricomparire una mezz’ora dopo trascinando dalla sella alcune travi lunghe e sottili. Li avremmo abbracciati.
Ed eccoci all’opera con entusiasmo. Per alleggerire di più la macchina smontammo la carrozzeria, che con l’aiuto dei mongoli deponemmo sull’erba. E con le travi costruimmo il nostro semplice apparecchio di sollevamento. Dovevamo andar cauti perchè il terreno minacciava di cedere sotto alle leve, e le travi, troppo vecchie, scricchiolavano e temevamo si spezzassero. Ma l’automobile, a poco a poco, risorgeva; sotto alle ruote incastravamo grossi pezzi di legno, tagliati da una trave a colpi d’accetta. Era un lavoro lento e paziente. Ci vollero tre ore per mettere la macchina in condizione da poter essere strappata dai suoi solchi profondi. Attaccammo le corde alla parte posteriore del telaio, e tutti uniti tentammo di trascinarla. Ma ogni sforzo fu inutile.
Dei buoi, c’erano dei buoi? Dopo aver descritto col gesto delle travi ci fu facile domandare dei buoi. E fu condotta una mandria, che doveva pascolare qualche chilometro lontano. La lunghezza delle corde non ci permise di aggiogare che quattro buoi. Le povere bestie tirarono e tirarono, ma non riuscirono più di noi a smuovere l’automobile. Comprendemmo però che se i buoi avessero potuto fare uno sforzo simultaneo, sarebbero riusciti. Essi, incitati, tiravano ad intervalli, uno dopo l’altro. Come fare a persuaderli dei vantaggi d’una perfetta unione? Ci venne un’idea geniale: mettere in azione il motore.
Il successo fu completo. Al frastuono improvviso, i quattro buoi spaventati puntarono i piedi con una sincronia perfetta, e abbassarono il grosso capo cornuto muggendo in un resoluto movimento di fuga. L’automobile oscillò. Ettore, salito sulla macchina, spinse il pedale dell’acceleratore e il rumore divenne assordante, scoppiò con l’impeto d’un urlo mostruoso. Le quattro bestie atterrite fremerono tirando disperatamente; e tutto ad un tratto la macchina uscì dai solchi, d’impeto. Fu un momento di gioia profonda.
La carrozzeria tornò al posto in pochi minuti. Il bagaglio, le gomme di ricambio, le provviste e gli attrezzi, furono caricati con una rapidità festosa. Mezz’ora dopo eravamo pronti a ripartire. I mongoli ebbero una generosa distribuzione di rubli, salutata con esclamazioni d’entusiasmo e con gesti della più espansiva amicizia. In quel mentre il capo buriato s’appressò e stese anche lui la mano. Borghese gli disse sorridendo:
— Niente lavoro, niente denaro!
Il buriato ritirò la mano, e con una torva occhiata rispose:
— Non ho bisogno del tuo denaro!
Ed aggiunse parole che non comprendemmo. Poi lo vedemmo montare a cavallo e far cenno alla sua tribù di rimettersi in marcia. La lunga fila di teleghe si allontanò.
Domandammo ai mongoli una guida. Uno di loro si offrì. Montò a cavallo e noi lo seguimmo. Tutti gli altri ci scortarono. Erano pieni d’ingenua contentezza, facevano delle gran galoppate intorno a noi, gridando e ridendo. Alcuni cavalli portavano due cavalieri, come laggiù ad Urga nel sèguito del governatore. La guida eseguiva il suo compito con molta dignità. Percorrevamo un vero labirinto, rasentando ogni tanto delle paludi, serpeggiando fra gli alti giunchi e i ciuffi d’iris nella vasta e desolata pianura acquitrinosa. Il sole tramontava, e sulla terra si spandeva una bruma che dava al paesaggio un indicibile colore di tristezza.
Al limite del piano la strana cavalcata ci abbandonò e si disperse. La guida consentì ad indicarci una strada che evitasse le montagne. Quando ci lasciò era quasi notte. Il suo cavallo tremava di stanchezza. Dopo averci salutati, e ringraziati per il compenso che gli avevamo dato, l’uomo si sdraiò sull’erba. Noi continuammo il cammino. Avevamo bisogno di acqua per la macchina e per noi; non potevamo fermarci senza averla trovata. Ci aspettavamo da un momento all’altro la comparsa del fiume Chara-gol. Guardavamo ansiosamente avanti a noi, e ad ogni vallata, ad ogni folto di vegetazione, dicevamo: Il fiume deve esser là! — ma il fiume non si vedeva, e noi andavamo a cercarlo più avanti, con nuova fiducia.
V’era la luna. Non avevamo fanali; cioè li avevamo, ma non erano preparati per essere accesi. Ci trovavamo in mezzo ad una quantità di alture, e il sentiero s’insinuava in strette valli, saliva, scendeva, reso appena visibile per l’erba dei bordi. Lo guardavamo intensamente nella paura di perderlo. E al nostro occhio stanco, sotto alla luce spettrale della luna, tutto prendeva un aspetto pauroso, incerto e fantastico. I profili delle colline, le ombre cupe dei valloni, gli arbusti, ci facevano sussultare alle volte perchè non li riconoscevamo; assumevano apparenze misteriose e indefinibili. Ci pareva di sorprendere un lento moto nelle cose, uno strisciare silenzioso d’ignote forme intorno a noi. Chi ha viaggiato di notte per regioni sconosciute e deserte ha visto queste trasformazioni bizzarre, e tornato di giorno negli stessi luoghi si sarà sorpreso di trovarli tanto diversi. Si direbbe che la terra profitti dell’oscurità della notte per vivere una sua vita mostruosa. È che nella notte tutto quello che c’è di favoloso, di stravagante, di assurdo nella nostra fantasia, esce e prende posto nell’ombra. Non vi sono due persone che vedano allo stesso modo un paesaggio notturno: ognuna vede il suo paesaggio.
Infatti ciascuno di noi, in quella indimenticabile sera, scorgeva qualche cosa che gli altri non riuscivano a vedere. Erano fiumi, erano case, erano uomini immobili, visioni che svanivano avvicinandosi. Il terreno sembrava buono per la corsa, ma di quando in quando sentivamo stridere la sabbia sotto le pneumatiche che affondavano, e il motore si “affaticava„. Allora la macchina era messa a tutta forza per non arenare. Ad un certo punto vedemmo realmente degli esseri che si muovevano: erano cammelli. Passammo vicino ad una carovana accampata. Due uomini erano in piedi presso al sentiero. Si volsero con moto repentino, e non si mossero più. Avremmo voluto poter scorgere l’espressione dei loro visi all’apparizione subitanea di quell’enorme massa nera che fuggiva rombando per le solitudini del Daturbada.
— Che ora è? — chiese il Principe, il cui orologio si era spezzato. Accesi cautamente un fiammifero, e guardai il mio:
— Le nove.
Eravamo in cammino dalle quattro della mattina: diciassette ore di continuo lavoro e di accasciante tensione nervosa. Ci sentivamo stanchi. E il Chara-gol non si trovava ancora. Non potevamo mancarlo, poiché il suo corso ci avrebbe attraversato la strada.
La luna declinava. La notte si popolava di stelle. Io non vedevo più il sentiero, affatto, ed ammiravo la sicurezza di Ettore che guidava come fosse stato sulla migliore delle strade maestre.
— Un lume! un lume! — esclamammo ad un tratto scorgendo una luce lontana.
— Deve essere il fuoco d’un accampamento sulla riva del fiume — osservò il Principe.
Riprendemmo coraggio. Ma pochi momenti dopo la luce era sparita. Però avevamo ben fissato in mente il punto ove essa era apparsa, e frugavamo avidamente con gli occhi quell’angolo di tenebre. Quando giungemmo là, dopo alcuni minuti, intravedemmo alcune yurte, e ci fermammo. Un branco di cani ci attorniò abbaiando. Comparve un uomo nel vano d’una porta illuminata. Gli domandammo dell’acqua, ed egli ci offrì tutta quella che aveva, in un recipiente di coccio. Era calda, grassa e terrosa. Gli chiedemmo dove fosse la sorgente, e c’indicò la strada con un gesto che voleva dire: vicino! Lo invitammo a guidarci, e rifiutò. Aveva paura di noi.
Proseguimmo fino ad un prato dove decidemmo di accamparci. Mentre Ettore piantava la tenda, il Principe ed io ci mettemmo alla ricerca della famosa sorgente. Egli portava il secchio ed io la pala; il secchio per l’acqua, e la pala per i cani. Rappresentavo la difesa, e una difesa necessaria perchè i cani mongoli sono di una ferocia famosa. La luna era tramontata e la terre dormiva eguagliata dal lieve pallore sidereo. Dopo molte ricerche riuscimmo a trovare un rivoletto di acqua melmosa e vagamente putrida. Non ci fu possibile, con tutta la sete che avevamo, di berne un solo sorso. Tornati alla tenda ne facemmo del thè, che riuscì il thè più perfido che si possa immaginare. Divorammo in silenzio qualche scatola di conserva, sorseggiammo quella perfidia bollente (con molto zucchero) ed entrammo carponi sotto la tenda. La notte era divinamente calma.
Avemmo la precauzione di non lasciare nulla fuori della tenda, ed Ettore, fedele alla consegna, si mise la pistola a portata di mano. Sdraiati sull’erba, avvolti nel tepore dolce delle pellicce, non tardammo a prender sonno profondamente.
A metà della notte fui risvegliato bruscamente dalla voce di Ettore che gridava:
— Chi è?
Egli si era sollevato, e sentii che cercava la Mauser. Mi misi in ascolto. Dopo alcuni istanti udii all’esterno un rumore sommesso e breve ma distinto nel grave silenzio notturno.
— Chi è? — gridò ancora Ettore in tono più reciso.
Nessuno rispose. Passò un alito di vento, e il rumore si ripetè. Era un battere rapido, leggero, incomprensibile, vicino. Piano piano sollevammo un lembo della tenda, e guardammo....
— A momenti sparavo! — esclamò Ettore sorridendo — Chi immaginava che facesse tutto questo rumore di notte. Mi ha svegliato!
Era la bandiera. La nostra bandiera, issata sull’automobile, che ad ogni soffio d’aria sventolava, si agitava, e sbatteva lievemente.
Pareva che essa vivesse e vegliasse.
Eravamo stati accampati soltanto a pochi chilometri dal fiume, che passammo, a guado veloce, alla mattina del 24 Giugno, di buon’ora. Avevamo lasciato le montagne alla nostra destra, e ci avvicinavamo, verso ponente, al corso dell’Orchon, attraverso una serie di pianure acquitrinose. Ma stavamo bene in guardia contro le insidie del terreno. Avevamo avuto una lezione dura, ma utile. Non spingevamo avanti l’automobile se prima il suolo non era stato accuratamente esplorato, studiato, discusso, il pericolo ci circondava da tutte le parti; spesso sentivamo improvvisamente sotto il nostro piede la mobilità ondeggiante del pantano nascosto e ci ritiravamo con un senso di ribrezzo, come se avessimo calpestato un rettile, gridando ad Ettore, che guidava cautamente la macchina dietro ai nostri passi:
— Indietro! Indietro subito!
E cercavamo nuovi passaggi. Qualche volta non trovavamo via d’uscita, e dovevamo retrocedere per tentare altrove. Piano piano, con pazienza riuscimmo a districarci dagli acquitrini, ed a raggiungere le colline che si allungano, nude e sabbiose, fra l’Orchon e l’Iro.
Fino dalla sera precedente avevamo scorto sul suolo dei segni che ci avevano interessato. Erano le traccie d’un carro, e le impronte dei passi di due europei. Quando per migliaia di chilometri non si sono viste che delle orme di scarpe cinesi e di stivali mongoli, il calco d’una suola europea fa l’effetto del ritratto d’un conoscente. Quelle vestigia camminavano nella nostra stessa direzione, ed erano recenti. Sparivano alle volte; nel piano le avevamo perdute; poi le ritrovammo e ne avemmo uno strano piacere. Parlavamo di loro. Da quanto tempo erano state impresse: Da un’ora, forse da meno. Segnavano il passo sicuro e lungo di due uomini giovani. Non erano carrettieri, perchè un carrettiere siberiano guida molte teleghe in fila, e lì invece due uomini scortavano un solo carro. Il carro sembrava poco carico, i suoi solchi erano leggeri; doveva portare qualche mercanzia preziosa che pesava poco ed esigeva buona guardia. Non s’immagina quali piccole cose bastino, nella monotonia infinita d’un viaggio come il nostro, a risvegliare la curiosità e a fornire un inesauribile argomento di conversazione. Un indizio, una traccia, un rumore, trasportano l’immaginazione nel bel mondo inesplorato delle congetture. È l’unico divertimento.
Per un declivio raggiungemmo i nostri europei. Erano due giovani russi, biondi e aitanti, dall’aria di operai. Dal carro protetto da una tenda, si affacciò una donna, giovane anch’essa, con un bambino al seno. Scambiammo un saluto: Do svidania! E fu il primo nostro saluto russo.
L’Orchon ci apparve, fiancheggiato da una sitibonda folla di piante rigogliose, serpeggiante nella sua immensa valle verde sulla quale pascolavano mandrie di buoi. Lo vedevamo dall’alto. Per un momento lo credemmo l’Iro. Poi il sentiero volse al nord, discese le alture, ci condusse per altri piani dove fummo costretti a ricominciare le esplorazioni. Passammo dei fiumiciattoli, confluenti dell’Iro, entrandovi prima a piedi per tastarne il fondo e cercare i punti meglio guadabili per l’automobile. Dei sabbioni pesanti e difficili annunziarono la vicinanza d’un gran fiume. E finalmente l’Iro, limpido, largo, veloce.
L’avevamo raggiunto. Ma come attraversarlo? Era possibile passare con la forza del motore? Ettore entrò nell’acqua; non aveva fatto cento passi che lo vedemmo andar giù fino all’anca. Tornò indietro dicendo:
— Bisogna trovare un altro modo. Il fondo è buono, ma l’acqua coprirebbe il magnete; l’accensione non funzionerebbe più, e ci fermeremmo subito, in mezzo alla corrente. La corrente è fortissima; a momenti mi rovesciava.
Pensammo alla costruzione d’una zattera. Per sorreggere il peso dell’automobile ci sarebbe voluta una zattera molto ampia, ed almeno a due strati di travi: dove trovare tanto legname? Guardandoci intorno scoprimmo, vicino ad un gruppo di arbusti, Una via di Missowaya. una vecchia capanna — che somigliava già ad un’isba — circondata da una piccola palizzata.
— Compriamo la capanna — suggerii — demoliamola, costruiamo la zattera....
— Ci vorrebbe un tempo enorme — osservò il Principe. — Vediamo prima se non si può far nulla di più sbrigativo.
Alcuni mongoli, usciti dalla capanna, si avvicinavano. Vi erano delle donne, col viso circondato dalla buffa acconciatura ad orecchia d’elefante. Altri arrivavano a cavallo, lungo la riva soleggiata.
Forse avremmo potuto raggiungere la barca che serve a traghettare i carri sulla strada della montagna. Doveva esservi qualche sentiero che vi conducesse. Interrogammo i mongoli, alcuni dei quali comprendevano un po’ di russo.
No, non v’erano sentieri; più a monte la riva si faceva rocciosa. Avremmo dovuto retrocedere fino alla strada percorsa da noi nella vigilia, e passare la montagna, ammesso che la montagna fosse passabile.
Vi era un altro mezzo: togliere all’automobile il magnete, e trascinarla all’altra riva. Il motore, coperto da uno strato di grasso, non ne avrebbe sofferto, a meno che l’acqua non fosse penetrata nei cilindri. Decidemmo di tentare immediatamente. Facemmo capire ai mongoli il nostro progetto. Ci occorrevano dei buoi; avremmo pagato bene, ma ci occorrevano subito. Essi accettarono. E dopo poco, volgendoci, vedemmo un gruppo di buoi arrivati, chi sa da quale parte, sotto la guida di due mandriani agitanti il lungo pungolo. A quella vista convenimmo solennemente che il mongolo è il popolo più civile e più cortese dell’universo.
Ettore, sdraiato nella sabbia calda sotto all’automobile, supino, lavorò lungo tempo. Tolse quella lamiera (noi la chiamiamo sottopancia per una certa analogia alla ventriera del cavallo) che protegge dal basso il motore e il volano, svitò accuratamente il magnete, poi coprì le parti più delicate della macchina con stracci intrisi d’olio, involse accuratamente il magnete nella sua giubba, ed alla fine si dichiarò pronto. Le funi furono attaccate all’automobile, ed i buoi alle funi. E incominciò una singolare navigazione al rimorchio su quei trecento metri d’acqua.
Con i buoi e l’automobile entrarono nell’Iro tutti i mongoli; alcuni a piedi, altri a cavallo, a due, a tre per groppa. Anche le donne inforcarono le selle per seguire il corteggio nautico. Il Principe ebbe una cavalcatura a sua completa disposizione. Io, sopra un altro cavallo, stavo per iniziare tranquillamente il guado, ed ero tutto intento a sollevare la macchina fotografica al di sopra della probabile portata degli spruzzi, quando qualcuno piombò dietro a me sulla mia sella. Era un mongolo, il quale trovava la cosa naturalissima: egli si afferrò con serena confidenza alle mie spalle, ridendo, ed arrivammo così insieme all’altra riva, fraternamente.
In mezzo al fiume le ruote dell’automobile scomparvero, e l’acqua gorgogliando passò sul piano della carrozzeria. I buoi ebbero un istante d’incertezza sentendosi spingere dalla corrente vorticosa che li faceva deviare; ma i gridi e il pungolo li piegarono di nuovo allo sforzo, ed un minuto dopo assistevamo allo spettacolo poco comune d’un’automobile uscente dal bagno, tutta rorida e gocciolante, lasciando dietro a sè una larga traccia di acqua. Dal momento in cui eravamo arrivati sulla riva sinistra a quello nel quale raggiungevamo la destra erano trascorse due ore e mezza. È molto per fare trecento metri di strada.
Un’ora dopo eravamo pronti a superare l’ultimo lembo della Mongolia. Avvertimmo quella brava gente dell’arrivo di altri carri come il nostro, e partimmo. In quel momento fra la brava gente si accese una disputa dall’apparenza più feroce, causata dalla divisione del danaro guadagnato. Si sarebbe detto che stessero per metter mano ai coltelli, se non si sapesse che i mongoli rifuggono con orrore dal versare sangue; la loro religione lo vieta, ed essi ubbidiscono alla lettera. Quando vogliono vendicarsi d’un nemico, lo strangolano.
Correvamo veloci. Avevamo fretta di passare la frontiera russa. Non so perchè, ma avevamo l’impressione che al di là della frontiera russa le difficoltà del viaggio fossero finite. Nutrivamo la incoraggiante illusione che oramai tutto si riducesse ad una gran serie di passeggiate. Sulle carte le strade da Kiakhta cominciavano ad essere segnate con due linee invece che con una sola: non era la prova di un gran cambiamento? Quelle due linee ci sembravano deliziose a vedersi. Aprivamo ogni tanto la carta niente altro che per percorrerla con l’occhio, pregustando la gioia d’un ininterrotto “sessanta all’ora„.
Ad una quarantina di chilometri dall’Iro entrammo nell’ombra di maestose pinete. Fu un passaggio repentino dalla terra riarsa e nuda al bosco. In pochi minuti ci sentimmo infinitamente allontanati dall’Impero Cinese, del quale pure calpestavamo ancora il suolo. Ci scambiavamo parole di ammirazione e d’entusiasmo, come se non fossimo mai entrati in un bosco nella nostra vita. Ai piedi dei grandi tronchi eretti si stendeva mollemente il tappeto dell’erba. Respiravamo gli effluvi della resina. Vi erano delle verdi rasure che facevano venir voglia di fermarsi e di godere l’ombra, assisi su qualche vecchio albero caduto.
— Che bellezza! — ripetevamo.
— Pare un parco!
Ripensandoci, la bellezza non era eccessiva, ma era grande la novità. La Bogda-Ula ci aveva fatto rivedere delle foreste, ma da lontano. E lì la foresta ci accoglieva. La differenza è grande quando si viene dal deserto. La strada era un po’ sabbiosa, e ingombra qua e là di radici sollevate, ma relativamente facile. Sopravvenne però, dopo qualche ora, un cambiamento che ci rese la foresta intollerabile; e fu l’annuvolarsi del cielo. Quando manca il sole la compagnia degli alberi diviene troppo triste: essa mette ombra su ombra; l’oscurità si fa opprimente perchè eguale, ed offre tutte le melanconie del crepuscolo.
Allorché uscimmo dalle pinete, e l’orizzonte si aprì, vedemmo verso il nord un nero di tempesta. Sotto all’ammasso di nubi più fosche, basse e livide, lontano, correva sulla terra come una striscia di nebbia. Correva simile al fumo d’un incendio rapidamente propagato. L’aria era calma. Scendemmo in una pianura sabbiosa. Una piccola carovana di carrette s’era accampata. Ci fermammo perchè la benzina nel cassone era finita, e bisognava travasarne dai serbatoi. Improvvisamente la calma grave dell’aria s’interruppe, e un colpo impetuoso di vento passò ululando. Era l’avanguardia d’un uragano, che dopo alcuni minuti si abbattè con furore sulla pianura, sollevando nubi acciecanti di polvere. La direzione del vento mutava turbinosamente. Si fece un’oscurità sinistra.
Era l’addio della Mongolia. Assistevamo ad un fenomeno abbastanza frequente in quelle regioni: ad una tempesta di sabbia. Ci trovavamo in un vortice d’aria. L’automobile ne era tutta scossa; noi ci tenevamo sottovento, vicino alla macchina. La sabbia scorreva al suolo, come un fluido, formava delle correnti gialle, si accumulava, si innalzava a mulinelli. La massima violenza non durò che pochi minuti; e dopo mezz’ora il vento cadde del tutto, A Missowaya. — L’automobile nella casa dello Staresta. con la stessa rapidità con la quale era venuto. Vedemmo l’uragano allontanarsi, come si vede fuggire sulla terra l’ombra delle nubi.
Kiakhta non doveva trovarsi lontana. Erano le quattro e mezza del pomeriggio. Volevamo arrivarvi in tempo per compire prima di sera le operazioni di dogana e dormire sul suolo russo. Cercavamo di affrettare la marcia, ma la strada ci condusse su delle dune nelle quali le ruote affondavano. La sabbia era smossa ed alta, ed offriva una resistenza sempre più grande. Le ruote motrici cominciarono a girare senza procedere, scivolando. Il motore si affaticava e si riscaldava, e il vapore usciva sibilando dal radiatore. Ci mancava l’acqua, e per timore d’“ingranare„, cioè di provocare la fusione di qualche pezzo della macchina, concedevamo al motore dei lunghi riposi. Esso tramandava un calore che si sentiva da lontano, e aspettavamo volta a volta che si freddasse. Intanto, durante i suoi riposi, lavoravamo noi; preparavamo la strada avanti le ruote a colpi di pala, e toglievamo così della sabbia fino a raggiungere uno strato umidiccio più duro. E poi avanti di nuovo; aiutavamo gli sforzi della macchina con le nostre spinte. Avanzavamo centimetro a centimetro. Ci volle un’ora a percorrere mezzo chilometro, ed arrivammo in cima ad una ripida discesa.
A mezza costa ci apparve Kiakhta. Era a due chilometri da noi, affondata in una valle per ripararsi dai venti. Perciò non l’avevamo vista prima. Si nascondeva, la superba!
Ne ricevemmo veramente l’impressione d’una grandiosità superba. Le immagini s’ingigantivano nella nostra fantasia. La prima visione di quella cittadina siberiana aveva la potenza d’un sogno di bellezza. Vedevamo dei campanili aguzzi, delle case bianche che avevano finestre, dei tetti con dei comignoli, degli opifici dalle alte ciminiere, tutte cose mirabili, quasi incredibili. Quelle forme ci stupivano, perchè ci erano familiari. Pareva che l’Europa ci fosse venuta ad incontrare fino alla Mongolia.
Eravamo arrivati dunque! Ne provavamo una gioia e una fierezza. Guardavamo quella città che biancheggiava fra il verde degli alberi, e che ci pareva tanto grande, con una specie di orgoglio, come se l’avessimo conquistata. L’aspettavamo ansiosamente, e pure la sua apparizione fu una sorpresa, e il suo aspetto una rivelazione.
Da quel momento la parola Kiakhta s’impresse indelebilmente nella mente d’Ettore, e vi divise con Kalgan l’onore di designare tutte le città dell’Oriente russo.
Al di qua di Kiakhta si stende una bassa e disordinata moltitudine di casette; è Maimachen, l’ultima città cinese. Urga è tripla, e Kiakhta è doppia. Le casette di Maimachen si affollano, sul confine dei due imperi, contro agli edifici slavi, quasi per opporsi all’invasione. La città russa e quella cinese non sono qui lontane, come ad Urga, ma si toccano. Hanno l’aria di urtarsi, di sospingersi, di disputarsi il terreno palmo a palmo. La zona neutra è di pochi passi — una piccola radura erbosa sulla quale s’erge, simile ad una sentinella, l’alto pilastro che segna la frontiera. La vicinanza non ha prodotto intimità. Da una parte, quel che v’è di più cinese; dall’altra, quel che v’è di più russo. Una città che potrebbe esistere sul Volga, è unita ad una città che potrebbe esistere sul Jang-Tsze-Kiang.
Quel che ci sorprese in Maimachen fu appunto di ritrovarvi le caratteristiche più vivaci della Cina. Somigliava meno ad un paese del Chi-li che ad un paese dell’Hu-pe; era più del sud che del nord dell’Impero. Infatti i suoi abitanti vengono tutti dalle vicinanze di Han-Kow, dal cuore stesso della Cina. Vengono dalle regioni del thè, e per il thè. Kiakhta e Maimachen debbono unicamente al thè, che giunge (o meglio che giungeva) su lunghe file di cammelli attraverso il deserto, la loro esistenza. Kiakhta è venuta a prenderlo, e Maimachen a consegnarlo. Quel luogo è stato per secoli il centro d’uno dei più grandi mercati del mondo. Il commercio del thè ha creato ricchezze favolose da Han-Kow a Mosca; il suo passaggio ha lasciato un solco di prosperità su due continenti; è una delle più vive sorgenti di lucro di due popoli. Questi due popoli si sono dati un perenne convegno d’affari in quelle solitudini. Maimachen e Kiakhta sono la Cina e la Russia che contrattano.
Gli abitanti di Maimachen hanno portato lì tutti i loro costumi, i loro usi, i loro gusti. I muri esterni delle loro case sono rozzi, eguali, nudi, grigi, perchè il cinese non mostra il suo lusso ai passanti, ma ad ogni porta aperta vedevamo l’interno di grandi corti variopinte, e sulle imposte, sugli schermi a paravento messi a fermare gli sguardi degli estranei, sui pilastri, era un attorcersi di draghi e di chimere di colori vivaci, un gestire di immagini bizzarre, un volare di fenici in mezzo ad un intreccio di ornamenti tradizionali, un risplendere di grandi caratteri cinesi dorati significanti la “lunga vita„ e la “buona fortuna„, tutta la vistosa raffigurazione delle cose che in Cina hanno l’incarico di respingere il male e di accogliere il bene. Tale esuberanza ornamentale e simbolica è propria dei paesi più cinesi della Cina, di quelli al di là del Fiume Giallo, ove non giunse l’influenza tartara.
La popolazione di Maimachen fu messa in agitazione dal nostro arrivo. Ci avevano visto discendere dalle colline sabbiose, e uscirono per le strade, ci vennero incontro, si affollarono sul nostro passaggio tutti quei cinesi dalle vesti azzurre e il ventaglio in moto. Non una donna fra loro. È una singolarità di Maimachen, la più strana che si possa immaginare in una città di migliaia d’abitanti: non vi esistono donne. Non so se si debba a qualche clausola dei trattati con la Russia — che teme su tutto il suo confine orientale le conquiste della prolificazione gialla — oppure ad una spontanea determinazione dei cinesi che rifuggono dallo stabilirsi lontano dai loro paesi per non soffrire dopo la morte — secondo le loro convinzioni — il più doloroso esilio dell’anima; il fatto è che Maimachen è una città di maschi.
Questa bizzarria ha un riscontro che forse non le è assolutamente estraneo: a tre li da Maimachen, nella campagna, esiste un villaggio di yurte abitato unicamente da donne mongole, niente altro che donne....
Un giovane cinese ci fece cenno di fermarci, parlandoci in inglese. Voleva avere l’onore di ospitarci, sia pure per pochi minuti, come l’avevano avuto tutti i suoi colleghi da Kalgan ad Urga: egli era il direttore dell’ufficio telegrafico.
— Ho mandato ad avvertire del vostro arrivo il Commissario di polizia di Kiakhta — ci disse accogliendoci nella sua casa privata — e intanto potete rinfrescarvi, lavarvi; bere qualche cosa....
Eravamo ridotti in uno stato indescrivibile. I nostri volti erano letteralmente neri di polvere, ed avevamo sui vestiti tutta una incrostazione dei diversi fanghi con i quali avevamo fatto intima conoscenza lungo il percorso: fango nero dei pantani, giallo del Chara-gol, bianco dell’Iro. Ci portarono acqua calda, acqua fredda, sapone, pettini, asciugamani, spazzole, e poi sigarette, vino, latte, biscotti, frutta in conserva; adoperammo ed assaggiammo di tutto; ci trasformammo di fuori e di dentro; finchè ci rimettemmo in cammino, all’annunzio che il Commissario ci aspettava, riconoscenti e confortati.
Un minuto dopo uscivamo dall’Impero Celeste.
Vicino al pilastro della frontiera era piantato sull’attenti il primo gorodovoi, in tunica bianca, col berretto a piatto, la sciabola Per le strade abbandonate della Transbaikalia. — Attraversando un vecchio ponte di legno. appesa alla tracolla, il petto armato di brandeburghi rossi. Alzò la mano, ordinando:
— Stoi! — “Fermatevi!„
Salutò rigidamente, appoggiando due dita alla visiera e battendo i calcagni, e salì sull’automobile. In piedi sopra al montatoio indicò la direzione da prendersi e comandò:
— Avanti, a destra!
L’automobile si mosse, ubbediente come una recluta.
Entravamo nell’Impero russo.