La metà del mondo vista da un'automobile/XI
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CAPITOLO XI.
TRANSBAIKALIA
La protezione ufficiale — Ospitalità siberiana — L’automobile e il thè — Verso Novi-Selenginsk — La traversata della Selenga — Un paese che nasce — Il treno.
Il Commissario di polizia di Kiakhta, ricevendoci nel suo ufficio, ci disse con fisionomia rattristata che egli si trovava nella necessità di parlarci d’affari seri, e di comunicarci alcuni importanti documenti.
Il Principe ed io ci guardammo in aria interrogativa. Il tono del nostro ospite avrebbe quasi lasciato credere all’esistenza d’un mandato d’arresto o d’un decreto d’espulsione. Ma ci accorgemmo presto che egli assumeva sempre un atteggiamento grave e cerimonioso quando parlava di questioni d’ufficio, di qualunque genere esse fossero, e diveniva allegro e spigliato per conversare su tutto il resto. Distingueva le due personalità, del burocrata e del cittadino, con due maniere e due espressioni. Un simpatico tipo di funzionario, del resto, che fu uno dei nostri migliori amici di Kiakhta; un ometto piccolo, grasso, attempato, loquace, espansivo, colto e poliglotta. In quel momento s’era chiuso nella sua serietà professionale come in un’uniforme.
Ritirò i nostri passaporti per la vidimazione. Ci annunciò che la Dogana aveva ricevuto ordini speciali per il nostro libero passaggio, e ci consegnò, dopo regolare ricevuta, dei documenti pervenuti da Pietroburgo, che rappresentavano altrettanti attestati della più benevolente protezione ufficiale. Il Governo russo, quando la Pechino-Parigi fu progettata, declinò, per mezzo del Ministero degli Esteri, di assumere responsabilità sulla sicurezza personale degli automobilisti, specialmente durante la loro traversata della Siberia. Fummo dunque gradevolmente sorpresi ricevendo a Kiakhta una lettera ufficiale del Ministro dell’Interno — un podorojné — la quale invitava tutte le autorità a prestarci il loro aiuto in caso di bisogno, e una lettera del Direttore generale della Polizia dell’Impero che ci assicurava la paterna protezione di tutte le polizie, e tre permessi speciali autorizzanti ciascuno di noi portare due rivoltelle. Finita la consegna il Commissario rise, si stropicciò le mani, e prese l’aria amichevole del cittadino privato.
Raccontò allora le ultime notizie del mondo per metterci al corrente: la Duma era stata sciolta; l’ordine regnava a Pietroburgo; il sud della Francia era in rivolta; vicino a Napoli era avvenuto un disastro automobilistico... Poi ci offrì dello champagne e brindò al successo della nostra spedizione. Fu lui che ci accompagnò alla Dogana e che ci presentò a molti funzionari dell’ufficio, e al signor Sinitzin, agente della Banca Russo-cinese, ed ai personaggi più cospicui della città. Insomma egli fu una preziosa ed amichevole guida.
Alla Dogana dovemmo firmare una dichiarazione con la quale ci impegnavamo in solido, Borghese ed io, di portare l’automobile fuori dei confini dell’Impero: non era che il nostro più vivo desiderio, protocollato, e divenuto argomento d’un solenne atto ufficiale. Alla macchina fu applicata una placca col numero — il N.° 1 — e lo stesso numero fu verniciato sul vetro dei fanali. Dopo ciò fummo dichiarati liberi. Il signor Sinitzin ci volle ospiti nella sua casa, una grande casa di legno dov’era anche l’ufficio della Banca Russo-cinese. Non dimenticheremo mai le accoglienze patriarcali e affettuose che vi ricevemmo.
La vecchia casa era piena di agitazione, tremava e scricchiolava tutta sotto ai passi affrettati delle fantesche dai piedi nudi, vestite dai più caratteristici e tradizionali costumi della Siberia; i fuochi delle cucine ardevano in permanenza, perchè la tavola era in permanenza imbandita. Vi arrivavano piatti degni di banchetti omerici; enormi arrosti di bue, grandi pesci bolliti, quarti di agnello, borsh fumanti in terine larghe come peschiere, cumuli di caviale, di storione, di salmone, di uova, di pirowski, e bottiglie d’ogni vino e d’ogni liquore, frutta preziose perchè arrivate Superando una breve salita nella vecchia strada abbandonata intorno al Baikal. laggiù dall’Italia. In mezzo a tutto, un samovar gigantesco brontolava come un gatto contento. Ma quel che più ci piaceva era la bontà, la premura, l’amabilità spontanea e convinta, dalle quali eravamo circondati. Sentivamo intorno a noi la simpatia, l’amicizia, la familiarità, un desiderio costante di farci dimenticare che eravamo fra stranieri, lontani dalla casa; le nostre preferenze, i nostri gusti, erano studiati, talvolta prevenuti. Un sorriso continuo animava tutti gli sguardi. La buona signora Sinitzin, instancabile, dimentica qualche volta della sua toilette di gala per abbandonarsi alle abituali faccende da massaia, aveva per noi delle attenzioni materne. Essa prodigava a degli estranei i tesori del suo istinto materno, perchè era giunta al limite della vecchiaia senza essere stata madre. Aveva adottato come figlia una fanciulla buriata, Falia, e questa giovane selvaggia allietava la solitudine della sua vita. Falia ci offriva dei fiori, e quando ci vedeva pensierosi e seri, veniva vicino e sorrideva.
Intorno alla mensa si rinnovavano continuamente gli ospiti. Gli amici arrivavano, si sedevano dopo un semplice saluto, entravano nella famiglia con una confidenza che diceva l’abitudine. Si capiva che fra quella gente tutte le porte erano aperte; e parlavano con un tono d’intimità grave e tranquilla che lasciava comprendere come fra loro pure le porte del cuore fossero aperte. Molti degl’intervenuti erano mercanti di thè. Anche il nostro ospite, Sinitzin, era mercante di thè. Tutti quelli uomini, semplici e dimessi, vestiti della camiciola di seta siberiana, calzati di enormi stivali, dal corpo rude, il volto barbuto e l’occhio dolce del mujik, erano milionari. Il passaggio del thè li aveva arricchiti.
Kiakhta è un villaggio di milionari. Nelle piccole case di legno dipinte di colori vivaci, allineate lungo i marciapiedi fatti di tavole, separate da cortili rustici ingombri di teleghe e di slitte, vivono una vita d’esilio delle famiglie che potrebbero avere un palazzo a Mosca o a Pietroburgo. Il thè non passa quasi più affatto per Kiakhta; la sorgente della loro ricchezza s’è da qualche anno inaridita, ma esse rimangono. Rimangono sulla terra che le ha fatte prospere, rimangono vicino alla loro cattedrale sontuosa che rinchiude più tesori di tutte le chiese della Siberia. Le trattiene l’amore a quei luoghi, l’ignoranza del lusso, l’abitudine, ed anche la speranza. Una speranza vaga che l’antica via del deserto torni a popolarsi di carovane, che la piccola città ora tanto silenziosa, si risvegli al rumore del lavoro.
— Non avete idea — mi diceva un funzionario della Dogana — di che cosa fosse Kiakhta sette od otto anni or sono! Vedete queste vie larghe e deserte? Esse non bastavano a contenere il gran movimento in certi giorni di arrivi e di partenze. Si scaricavano fino a cinquemila casse di thè al giorno. Passavano venticinque milioni di chilogrammi di thè all’anno. Cominciava in ottobre il gran movimento, e a novembre, a dicembre, a gennaio Kiakhta era tutta una gran fiera e una gran festa. Nemmeno alla notte si riposava. Tante volte nevicava, e la gente ne era tutta contenta perchè la neve preparava la strada alle slitte. Sinitzin, e tanti altri, arruolavano nell’estate fino a cinquecento cammelli ognuno per essere i primi a fare arrivare il nuovo thè a Nishnii-Nowgorod, all’epoca della fiera. Vedete quei grandi edifici di mattoni, laggiù, dietro alla chiesa? Là erano i magazzini di deposito, il Gostiny Dvor. Centinaia di operai lavoravano notte e giorno a disfare i carichi della Mongolia, a scartare il thè avariato, a rifare le casse per la Siberia coprendole con pelli di cammello. Laggiù si tenevano le vendite all’asta, e passavano centinaia di migliaia di rubli come fossero stati kopeki. Partivano carovane immense di slitte verso il Baikal. Tutti i cortili erano pieni di cavalli. Alla sera poi, grandi feste da ballo, banchetti continui; a Troizkossawsk, la città vicina, v’era il teatro. Si beveva, si rideva, e si spendeva senza contare. Adesso, dopo due secoli e mezzo di quella vita, Kiakhta è morta.
— È passato poco thè quest’anno?
— Niente.
— Tutto per Wladivostok?
— Si, tutto per la ferrovia. Vi fu una ripresa, due anni or sono, durante la guerra, quando le linee ferroviarie erano impegnate per le truppe. Ma ora è finita. Come lottare con la ferrovia? Le strade sono completamente abbandonate, non ci passa nessuno. Vedrete!
— Ma le comunicazioni con la ferrovia transiberiana? Kiakhta non sarà mica isolata!
— No, ma ora si passa per la via fluviale. Vi sono i battelli a vapore che fanno il servizio fra Verkhne-Udinsk e Ust-Kiakhta, sulla Selenga, e da qui ad Ust-Kiakhta la strada è ancora passabile per le teleghe.
Le informazioni sulla strada, che ricevevamo da tutte le parti non potevano essere più scoraggianti.
— Pessima, orribile, impassabile! — ci aveva detto il Commissario di polizia con la sua impetuosa parola. — Avete trovato dei pantani in Mongolia? Troverete di peggio. Sapete, quel genere di pantano che gl’inglesi chiamano “bog„? Ebbene avrete del bog come non ne avete mai avuto. E discese da rompersi il collo. Salite da andar su con le funi. E sabbie alte un metro. Volete sapere qualche cosa di più? Oggi farò interrogare dai miei agenti gli unici uomini che frequentano quella strada, gli operai del telegrafo che vanno a ripararvi i guasti della linea. Avrete tutti i particolari. Per me credo, fermamente, sinceramente, che la vostra automobile non passerà.
— Possibile! — esclamavamo con la più dolorosa sorpresa, pensando a quelle belle doppie linee della carta geografica. — E pure abbiamo trionfato della strada fra Urga e Kiakhta!
Quelle nostre peripezie attraverso la Mongolia interessavano immensamente tutti i milionari del thè. La notizia della Pechino-Parigi aveva trovato a Kiakhta un pubblico che se n’era commosso. Delle speranze rinascevano. Si aspettava ansiosamente l’automobilismo a quella prova sulla terra mongola. Non sarebbe stato possibile sostituire il cammello con l’automobile, vincere la concorrenza della ferrovia nel trasporto del thè? Il nostro arrivo mise gli antichi mercanti di thè in emozione. Avevamo fatto il viaggio da Kalgan a Kiakhta in sette giorni, e le carovane ve ne impiegano venti. Ci domandavano mille cose, sul costo della benzina, sulla possibilità di portare grandi carichi, sul valore della macchina. Discutevano fra loro gravemente. Dai loro discorsi comprendemmo quale fosse la principale ragione che li aveva indotti a rimanere a Kiakhta: essi aspettavano che il Governo russo o quello cinese costruissero la ferrovia della Mongolia, ferrovia logica e perciò inevitabile. Potrà tardare, ma verrà. Allora Kiakhta legata a Han-kow interamente per strada ferrata, senza interruzioni, avrebbe pompato tutto il thè cinese dai luoghi stessi della produzione. Sulla tranquilla e paziente aspettativa della linea mongola, l’automobile veniva a gettare una febbre di nuove idee e di nuovi progetti. Ma per ora, se l’automobile dimostra di essere un rapido mezzo di comunicazione anche sul deserto, non è certo un pratico mezzo di trasporto. L’Itala non avrebbe potuto portare a Kiakhta più di 200 chili di thè, e con una spesa di 1.50 o 2 lire al chilo....
Percorrendo la ferrovia della Transbaikalia per attraversare i ponti ferroviari sui fiumi intransitabili.
Come il telegramma giunto al Principe a Pechino lo aveva annunziato, ricevemmo a Kiakhta una esatta lista dei nostri depositi di rifornimento, con i quantitativi di ciascuno, e le distanze in verste da un deposito all’altro. A capolista era Kiakhta. Ma a Kiakhta non era giunta nemmeno una goccia della nostra benzina. Il combustibile che avevamo ancora nei serbatoi sarebbe bastato forse a portarci al Baikal, ma non ne eravamo sicuri. La strada molto difficile da Urga aveva spesso obbligato il motore a degli sforzi intensi, moltiplicando il consumo della benzina; e se la strada futura fosse stata altrettanto cattiva, tutte le nostre riserve sarebbero state esaurite prima di giungere al prossimo deposito. Il prossimo deposito! Lo avremmo poi trovato, fuori della carta? Non saremmo dovuti rimanere in panna chi sa dove, per delle settimane forse?
La fortuna ci aiutò. Uno dei più ricchi mercanti di Kiakhta aveva avuto anni or sono l’idea di farsi venire una vetturetta automobile, e con la vetturetta una grande quantità di benzina. La piccola automobile ebbe la buona ispirazione di rifiutarsi improvvisamente al lavoro, per un guasto che il fabbro del paese non ha saputo ancora diagnosticare, e la benzina era rimasta in fondo ad un magazzino, quasi aspettando l’incredibile occasione di un passaggio di automobili. Fu il signor Sinitzin, il quale come agente della Banca Russo-cinese avrebbe dovuto ricevere il nostro deposito, che ricordò la vetturetta dell’amico e ci scovò il prezioso combustibile, proprio quando avevamo inutilmente tempestato di telegrammi urgenti mezzo impero, e ci rassegnavamo a tentare la sorte. E così completammo le nostre provviste.
Alla sera del 24 seppi dall’ufficio telegrafico di Maimachen che la Spyker era giunta quel giorno ad Urga. Ai 25 lo stesso ufficio m’informò che le De Dion-Bouton e la Spyker avevano lasciato Urga alla mattina all’alba. Nei pomeriggio cominciò a piovere.
— Ahi, i bogs del Commissario! — ci dicevamo sorridendo.
E pensavamo a quelle famose paludi, a quei pantani che ci minacciavano, e fra i quali la pioggia avrebbe distrutto presto ogni passaggio. Un po’ di pioggia è utile perchè rafferma le sabbie: troppa le cambia in mota. E il cattivo tempo aveva l’aria di stabilirsi con una certa costanza. Si stabilì tanto che ci accompagnò per cinquemila chilometri. Cadeva quel giorno una di quelle pioggie fitte, eguali e noiose che fanno pensare all’inverno anche quando si ha caldo. Alla sera vennero a dirci che alcuni mongoli avevano visto dall’alto delle dune dei lumi sulla strada d’Urga, e si supponeva dovessero essere le altre automobili. La supposizione ci parve assurda. Esse avevano lasciato Urga alla mattina e non potevano trovarsi la sera a Kiakhta. Infatti, sorprese forse dal cattivo tempo, impiegarono tre giorni a compire quel tragitto. Noi decidemmo di partire l’indomani. La signora Sinitzin era atterrita dall’audacia del nostro progetto.
— Poveretti! — ripeteva guardandoci con intensa pietà, e sospirando. — Con questa pioggia, ed una vettura tutta scoperta! Penserò io a darvi qualche cosa per riconfortarvi.
E alla mattina presto, quando ci alzammo, trovammo l’ottima signora in grandi faccende, circondata e coadiuvata dalle domestiche. La cucina era in pieno funzionamento.
— Qua, le bottiglie del vino! — gridava la signora Sinitzin curva sull’orlo d’un enorme cesto di vimini. Arrivava una serva colle braccia cariche di bottiglie, che sparivano nella cesta. — Svelti, i polli arrosto! — ed ecco sei polli seguire le bottiglie — È cotto l’agnello? Portate qua. — Un quarto d’agnello fumante prendeva posto nel cestone. E poi degli aranci, del pane fresco, ogni cosa debitamente incartata, impacchettata. — Dio mio! — esclamò la signora quando il carico sembrava completo — ho dimenticato la birra e il cognac! — E non tardarono delle altre bottiglie a penetrare nei vuoti rimasti.
— Per chi è questa roba? — domandò il Principe preoccupato.
— Per voi Kniatz Borghese!
— Ah ma è impossibile! Grazie, ma qui vi sono viveri per un reggimento! No, no. Ho già troppo peso sulla macchina. Col fango che troveremo! È impossibile signora.
Un dolore sincero e comico si dipinse sul volto della povera signora a questo rifiuto. Giunse le mani e ci guardò in silenzio. Poi timidamente, per paura di contrariarci troppo, osservò:
— Non prendete niente.... per un così gran viaggio? Almeno qualche cosa!
Per non darle dispiacere prendemmo due polli e due bottiglie di vino che la signora Sinitzin c’involse in un sacchetto scuotendo la testa con l’aria di dire fra sè: Moriranno di fame e di sete, poveretti!
Pioveva, pioveva sempre. Nel cortile l’automobile aspettava, pronta. Salutammo effusamente i nostri ospiti che in piedi, a capo scoperto, fuori della porta di casa ci auguravano buon viaggio, e partimmo. Le loro voci ci raggiunsero sulla strada, e volgendoci li vedemmo ancora agitare le mani in segno di addio. Noi pensammo con un senso di melanconia che molto probabilmente non avremmo mai più visto quegli amici disinteressati e buoni.
Kiakhta dormiva ancora nell’alba livida e fredda. Pochi minuti dopo traversavamo la vicina Troizkossawsk, col suo piccolo cimitero erboso disseminato di croci e di lapidi lavate dalla pioggia, col suo parco di betulle nel centro della città, le grandi caserme all’estremità dell’abitato, e le scuole grandiose — scuole private che dimostrano la ricchezza del paese — allineate con le casette di legno dipinte di bianco e di azzurro lungo la via principale sterrata e fangosa. Qualche imposta cominciava a schiudersi e delle faccie di donna scapigliata e assonnata si sporgevano a guardarci stupite. Un bottegaio mattiniero era intento ad aprire il suo negozio; sospese l’operazione, vedendoci arrivare, e s’incastrò nel vano della porta, quasi per nascondersi, tutto sorpreso e intimorito. I gendarmi, di fazione ai crocicchi, ci salutarono militarmente. Nel fiumicello dalle rive scoscese e folte d’erba che divide la città, nel quale d’inverno tutti i ragazzi di Troizkossawsk e di Kiakhta s’adunano a pattinare, alcuni cosacchi conducevano ad abbeverare i cavalli che scalpitavano impauriti dal nostro passaggio. Un plotone di soldati, di ritorno da qualche perlustrazione, rientrava alla caserma, gli uomini tutti chiusi nei loro grevi cappotti grigi, infangati fino alle ginocchia. Si fermarono, e scomposero i ranghi per osservarci meglio, provocando sulle loro teste un’agitazione di baionette. Appena fuori della città la strada, subitamente divenuta sentiero, ci conduceva per silenziosi ed oscuri boschi di abeti e di betulle, nei quali non udivamo che il fruscio continuo e vasto della pioggia. Noi rabbrividivamo di freddo sotto gl’impermeabili zuppi, nelle cui pieghe scorreva l’acqua.
Era possibile che la Mongolia fosse tanto vicina? che Maimachen con la sua folla di cinesi del Jang-Tsze vestiti d’azzurro si trovasse a pochi chilometri da noi? I deserti ardenti, le praterie selvagge dove vivono liberamente cammelli e antilopi, ci parevano L’automobile travolta dal crollo d’un ponte in Transbaikalia. cose sognate. Il cambiamento era stato così repentino da essere violento; tutto era mutato; paesaggio, popolazione, clima. Ci sentivamo, come per incanto, trasportati fuori dall’Asia. Era la Russia — la stessa sulla Selenga come sul Dnieper, come sul Volga, come sulla Neva, la Russia eguale entro tutti i suoi confini, che non è asiatica e non è europea, così diversa dalla Cina come lo è dalla Francia — era la Russia che ci afferrava. Alessandro II, mi pare, diceva che la Russia era la sesta parte del mondo; ed è vero. La meravigliosa uniformità di questo impero ne fa una cosa a sè.
Quel cambiamento ci estasiava. Ci trovammo improvvisamente in un mondo più simile al nostro. Usciti dai boschi vedemmo dei campi cinti da rozze staccionate fatte con giovani tronchi di pino: era la prima divisione della proprietà, il primo segno di possesso della terra che ritrovavamo dopo migliaia di chilometri. Fra i campi, delle isbe nere ed antiche. La pioggia rendeva tenui i colori lontani della campagna stendendovi una bruma sottile, e rinvigoriva i colori vicini; le piante lavate acquistano una non so quale vivacità. Anche questi effetti della pioggia ci piacevano, queste colorazioni intense, questi veli di vapore, perchè l’occhio nostro ne aveva perduto l’abitudine; e vi ritrovavamo delle espressioni di paese noto. Incontravamo delle teleghe condotte da mujiks dalla camiciola rossa e il berretto di pelo; alcuni avevano sui calzoni una larga banda gialla e portavano un berretto militare: erano cosacchi fuori servizio. Qualche tarantas ogni tanto, simile ad una barchetta di cuoio fra quattro ruote — una delle più solide ed incomode vetture del mondo nella quale si viaggia sdraiati su della paglia — passava al trotto di vecchie rozze frustate con larghi giri di braccio da cocchieri buriati. Ogni tanto un gruppo di rustiche casette presso alla strada, e sulla più grande di esse uno stemma con l’aquila bicipide: era una stazione di posta. Ecco la diligenza postale, bassa come una slitta, attaccato a troika, lanciata al galoppo sopra una salita. Viene da Ust-Kiakhta. I passeggieri incappottati, coi berretti di pelo calzati fino alle orecchia, si sporgono curiosamente ad osservarci.
La strada era stata terribilmente calunniata dai nostri amici di Kiakhta. Ce ne avevano detto tanto male, che quasi finivamo col trovarla eccellente. Essi erano stati d’accordo nel dichiararla peggiore della strada per Urga. In fondo ciò è naturale: non conoscevano la strada per Urga e conoscevano invece quella per Verkhne-Udinsk; si è sempre disposti a sparlare delle proprie conoscenze. Quel che s’ignora è migliore. Traversavamo pianure fangose, superavamo salite non sempre facili e scendevamo declivi non sempre comodi, ma niente bogs, e nessuno di quei precipizi così vividamente descrittici. Correvamo tranquillamente i nostri venti chilometri all’ora senza interruzioni. Alle sette eravamo ad Ust-Kiakhta, sulla Selenga. Poche isbe scurite dalle intemperie, una chiesuola, una grande strada piena di mota, e sulla strada un ufficiale di polizia, elegante, decorato, dalla tunica bianca immacolata, che ci aspettava. Intravvedevamo fra le case l’acqua del fiume.
— In che cosa posso rendermi utile? — domandò gentilmente l’ufficiale salutando mentre l’automobile si fermava vicino a lui.
— V’è pericolo di perdere la strada per Verkhne-Udinsk? — gli chiese il Principe.
— No — rispose l’ufficiale — se seguite la linea telegrafica. Ma a Novi-Selengisk, ad un settanta verste da qui, abbandonate il telegrafo e prendete il sentiero di sinistra per passare all’altra riva della Selenga; il telegrafo continua alla destra del fiume.
— Grazie. E v’è una buona barca per traghettare, credo?
— Si, ma ho paura che sia piccola per la vostra automobile.
— Vedremo!
— Quando contate d’essere a Verkhne-Udinsk?
— Questa sera.
— Questa sera? — domandò stupito — Ma sono duecento trenta o duecentoquaranta verste da Kiakhta! È meraviglioso!
— Se la strada fosse buona arriveremmo a mezzogiorno. A rivederci, e grazie.
— Non volete prendere un po’ di thè?
— No, grazie.
— Buon viaggio!
Dopo un istante ci gridò:
— Volete una guida? un uomo a cavallo?
— No, no. Non occorre!
— Seguite il telegrafo!
E lo seguimmo attraverso una serie di viottoli erbosi, per una vasta pianura. E poi su per delle colline. Spesseggiavano i terreni coltivati, coperti di stoppie, ed i villaggi, rifugiati ai piedi delle alture boscose — agglomerazioni di casette di legno nere ed eguali, dominate dalla chiesa bianca dalle alte cuspidi aguzze e dal tetto verde. Vicino all’abitato i mulini a vento giravano lentamente la croce grigia delle loro ali. La pioggia era cessata.
I primi villaggi siberiani che si attraversano sembrano deliziosi. Hanno tutta la seduzione della quiete, tutto l’incanto della vita rustica; appaiono estremamente pittoreschi con le loro piccole case fatte di tronchi d’albero, contornate da recinti di legno, unite fra loro da tavolati, necessari per camminare all’aperto quando piove e la strada è fangosa. Noi, cittadini occidentali, amiamo tutto questo legno rudemente lavorato, tutte queste travi rozze tagliate a gran colpi d’ascia e divenute pareti domestiche, perchè sono alberi abbattuti che ci parlano vividamente della foresta, delle sue ombre, della sua vita. Il legno è per tutto in Siberia, sostituisce il ferro, sostituisce il muro, fornisce gli utensili domestici e spesso gli attrezzi del lavoro: si direbbe che, come esisterono le epoche della pietra e del bronzo, esista una civiltà del legno. È la civiltà slava. Tutto questo ci piace perchè è semplice, e perchè sembra risvegli in noi oscuri e lontani ricordi e desideri d’una vita primitiva e libera. Quelle case, dal tetto sporgente, colla porta protetta da una breve tettoia che avanza sulla strada quasi invitando ad entrare, con le finestre piccole, le cui imposte ed i cui sportelli dipinti di bianco risaltano gaiamente sull’oscurità della parete, quelle case hanno un’aria raccolta ed intima; mostrano dei fiori ai davanzali e delle cortine ai vetri; dànno l’idea d’un benessere chiuso che si difenda. Ma presto vi accorgete d’una cosa opprimente, ed è che il primo
villaggio è eguale al secondo, il secondo al terzo, il novantesimo al centesimo, e così via all’infinito. Le case sono d’un modello unico, le chiese sono identiche. Tutto è disposto allo stesso modo: una strada ampia, per scongiurare i pericoli della propagazione degl’incendi, e ai suoi fianchi le abitazioni; dietro alle abitazioni le stalle; all’ingresso del villaggio, in mezzo ad un prato, la chiesa. Nulla che faccia distinguere un villaggio dall’altro, fuori del nome.
L’automobile travolta dal crollo d’un ponticello della Transbaikalia.
Quel che si vedeva della macchina sul livello della strada.
Ad ogni campanile che si scorge da lontano, la speranza dà l’illusione d’un cambiamento. La chiesa pare più grande di tutte quelle che si sono viste prima, il villaggio più bello, e si desidera arrivarvi presto, pieni di una curiosità ravvivata, spinti da un bisogno di vedere delle cose diverse. Ma il villaggio somiglia ai suoi vicini, ed anche ai suoi lontani, come un soldato somiglia all’altro. Presto l’uniformità produce la monotonia, e la monotonia la melanconia. E si pensa ai bianchi villaggi delle nostre campagne, ognuno dei quali ha una fisionomia sua, una espressione, una personalità, che gridano da lontano: Sono io!
Per alcune ore la strada ci ha discostati dalla Selenga conducendoci nella valle nuda del suo confluente il Tschiko, di cui seguimmo da lontano il corso, segnato da un infoltirsi di vegetazione lungo le rive. Non lontano dalla foce del Tschiko ritrovammo la Selenga, ampia, dalle acque bianche e lattiginose, fiancheggiata da un rigoglio di cespugli curvi sull’acqua. Sulla riva un piccolo gruppo d’isbe aveva l’aria di prepararsi al guado per raggiungere Novi-Selenginsk, della quale vedevamo la chiesa bianca levare il suo campanile al di sopra degli alberi, a poche verste da noi. Lì era il luogo d’imbarco. Sul fiume avanzava una piccola impalcatura fatta con tavole schiodate. Mettemmo piede a terra. La barca era dall’altra parte del fiume, ove aveva trasportato una telega che in quel momento si allontanava fra gli arbusti. Due vecchi dalla barba e le sopracciglia folte e arruffate, si avvicinarono, seguiti da alcune bambine scalze che ci guardavano timorose e fuggivano al nostro appressarsi. Uno dei vecchi ci chiese:
— Volete attraversare?
— Sì. La barca può portarci?
— Quanto pesa il vostro carro?
— Centoventi pud.
— È molto. Ma vi porta; purchè il vostro carro entri nella barca.
E si mise a chiamare i battellieri a gran voce. La barca si mosse sospinta da due lunghi remi maneggiati ognuno da due vogatori, attraversò il fiume a diagonale, e accostò il fianco all’impalcatura. Era una chiatta senza parapetti, una specie di piattaforma galleggiante. Ne misurammo la larghezza col passo: l’automobile non vi sarebbe potuta entrare che di traverso. Come condurvela? A braccia o col motore? L’impalcatura avrebbe resistito al peso? Allora questi problemi ci apparivano molto gravi: eravamo alla nostra prima manovra navale.
Possedendo un occhio sicuro e una perfetta conoscenza della macchina, si poteva imbarcare a forza di motore. Ettore prese il volante, fece retrocedere l’automobile e si preparò a far passare le ruote nei punti che il Principe gli aveva segnato sulle tavole — i punti di massima resistenza.
— Pronto? Avanti! — disse Borghese.
L’automobile partì, salì sull’impalcatura, che si scosse tutta. Le tavole si piegarono, e, passate le ruote, scattarono come molle. Le ruote anteriori s’inoltrarono nella chiatta. Ma in questo momento il grave peso della macchina sostenuto tutto da un solo bordo dell’imbarcazione, la fece inclinare improvvisamente fino all’acqua. L’automobile si trovò con le ruote anteriori più basse di mezzo metro di quelle posteriori, che erano ancora sull’imbarcatoio. Ettore frenò. Le corde che ormeggiavano la barca — delle sottili funicelle — scricchiolarono: se esse si fossero spezzate la chiatta si sarebbe scostata dalla riva facendo cadere l’automobile nel fiume. Furono subito raddoppiate e i battellieri le tennero tese. La macchina era in una tale posizione da non poter retrocedere. E andò risolutamente avanti, sterzando a destra per poter entrare di traverso sulla piattaforma. Anche le ruote posteriori si imbarcarono, e il battello ritornò orizzontale, un po’ più basso sull’acqua ma in perfetto equilibrio. Al momento in cui l’automobile entrava tutta a bordo, i russi mandarono un grido di spavento. Vedendola avanzare di sbalzo avevano creduto che non potesse più trattenere il suo impeto e precipitasse dall’altra parte. Ma la macchina intelligente s’era fermata di colpo nella giusta posizione, come se fosse stata deposta lì dal lento ed esatto braccio di una gru. Nel seguito del viaggio gl’incidenti di questo genere non c’impressionarono più; ci abituammo ai pontili malfermi, alle vecchie barche sconnesse, alle audacie esatte dell’automobile.
I battellieri impugnarono i remi, e cominciarono energicamente a vogare; alle loro spalle il vecchio, con una corta pipa fra i denti, si appoggiò alla stanga del timone. Da una svolta del fiume vedemmo improvvisamente emergere un battello a vapore.
Ci sfuggì una esclamazione di sorpresa e di contentezza. Guardavamo con un’ammirazione affettuosa quel piccolo e vecchio piroscafo, che risaliva la corrente, verso Ust-Kiakhta, ansimando affannosamente dall’alta ciminiera, spinto da una larga ruota poppiera a palette che lo faceva assomigliare ad un mulino ad acqua girovago. Esso era il primo vapore che rivedevamo. Salutavamo in lui un modesto pioniere della civiltà, una lontana avanguardia della grande forza che conquista i continenti, un amico al quale avremmo potuto chiedere soccorso. Esso ci rappresentava un ineffabile legame con quell’occidente verso il quale correvamo. La sua sirena urlava per avvertirci di sgombrare il passo, e quella voce da officina echeggiò stranamente nella vallata selvaggia. Il vapore si allontanò faticosamente, e noi, cullati dalle ondate della sua scia, prendemmo terra.
Uno dei barcaioli c’indicò la strada: presso al fiume v’erano delle paludi. Ce ne liberammo facilmente. Attraversammo Novi-Selengisk, un villaggio un po’ più grande degli altri, che ha una scuola, una farmacia, e qualche piccola bottega dalla vetrinuccia polverosa. Passammo quasi inavvertiti per la sua gran strada deserta invasa dall’erba, e soltanto dopo, quando stavamo per sboccare di nuovo nella campagna, si sparse la notizia da casa a casa; udimmo dietro di noi voci concitate chiamarsi e rispondersi, delle imposte schiudersi con violenza, e vedemmo della gente uscire di corsa dalle porte per fermarsi sulla via a guardarci sparire. Valicammo una serie di colline nude, di brulle ondulazioni ancora libere dal dominio umano, lasciando a levante il corso della Selenga. Una vasta distesa di acque tranquille ci apparve in una vallata: il lago Hussin. Non un villaggio sulle sue rive. Nessun battello lo ha mai solcato; esso dorme gli ultimi anni della sua solitudine. L’emigrazione slava lentamente lo avvicina.
Non incontravamo più che delle rare stazioni di posta, rifugiate fra una collina e l’altra quasi spaurite di trovarsi sole. Ma non tardammo a scendere in una valle invasa da un nuovo popolo. Per novanta verste, fino a Verkhne-Udinsk, noi traversammo un paese che nasce. Tutta la regione della bassa Selenga è verde di coltivazioni recenti e di pascoli, piena di greggi e di mandrie, disseminata di villaggi, conquistata dal lavoro: sette anni or sono era soltanto abitata da qualche famiglia di buriati. È la ferrovia che ha compiuto il miracolo. La messa in valore della Siberia è cominciata.
Poche regioni della stessa Russia Europea hanno l’aspetto popoloso e ricco di quella remota valle della Transbaikalia che, non è molto, distava da Mosca un anno di viaggio. Ora ne è Nella Transbaikalia. — Salvataggio dell’automobile travolta dal crollo di un ponte.
L’Itala viene legata con lunghe funi agli alberi vicini. lontana quindici giorni. In questa differenza sta il segreto della prodigiosa trasformazione. Le distanze scompaiono. Le immense terre vergini dell’Asia slava si sono ravvicinate al popolo, si sono offerte alle sue braccia. La ferrovia agisce come una grande seminatrice di energie; sulle fertilità getta il lavoro. Masse di contadini vanno laggiù a crearsi una nuova patria nella patria. Tutta la Siberia sorge alla vita. Dei territori quasi ignoti, che non erano altro che delle parole geografiche, diventeranno a poco a poco degl’imperi che si aggiungeranno all’Impero.
Passavamo attraverso a villaggi completamente nuovi, color legno fresco, che tramandavano l’odore di resina dei tronchi tagliati da poco alla foresta. Molti contadini, gli ultimi arrivati, erano ancora intenti a costruirsi la casa, e lavoravano alacremente per averla pronta ai primi freddi. Anche lontano dalla strada, qua e là per la valle, e sul fianco delle colline, in mezzo al verde, scorgevamo altri paeselli dai quali s’innalzava lo snello campanile bianco della piccola chiesa. Si lavorava sui campi. Incontravamo teleghe cariche di foraggi. Branchi di cavalli e di buoi pascolavano nell’interno stesso dei villaggi; noi portavamo in quelle mandrie uno scompiglio tumultuoso. Cavalli e buoi fuggivano scalpitando avanti all’automobile; i bambini, dei cui giuochi la strada era lieta, rientravano nelle case atterriti; le donne, il capo avvolto in fazzoletti rossi e i piedi nudi, si precipitavano a mettere in salvo le galline, le oche e i maiali, tutti quei loro tesori viventi, senza nemmeno spender tempo a guardare quale pericolo li minacciasse. Erano gridi, starnazzamenti, nitriti, abbaiamenti di cani, tutti i rumori d’un villaggio in allarme. Solo gli uomini rimanevano immobili e silenziosi; storditi dalla strana e fugace apparizione ristavano dal lavoro, e ci salutavano rispettosamente scoprendo la lunga chioma bionda, ed inchinandosi. Essi non comprendevano, e si facevano umili avanti a quell’ignota potenza. Chi è potente può nuocere: salutarlo è un dichiararsi alleato....
In certi momenti il paesaggio acquistava aspetti pittoreschi: ora dei piccoli stagni, solcati da battelli pescherecci, rompevano con le rive sinuose la distesa dei campi e mettevano sulla pianura luminose macchie di cielo; ora dei limpidi corsi d’acqua si internavano in quei meandri ombrati da salici grigi, per muovere le ruote dei solitari mulini. Su quella strada incontrammo ancora delle traccia dell’Asia, gli ultimi segni della sua ritirata avanti all’invasione bianca. Incontrammo degli obo, come nel deserto.
Non erano obo mongoli, ma buriati. La differenza è minima. Il buriato non è che un mongolo russificato a metà. Parla russo, veste da mujik, porta berretto e stivali mongoli, abita l’isba, crede a Buddha, è devoto allo Zar, fuma in una pipa cinese, e beve la vodka: ecco il buriato. La differenza principale fra lui e il suo fratello della prateria è questa: che egli talvolta lavora la terra, e il mongolo mai. Il buriato ha realmente fatto il primo passo verso la civilizzazione: fermandosi. Il nomade sarà sempre barbaro. La civiltà non comincia che quando la tenda si trasforma in casa. E noi vedemmo fra tanti villaggi slavi, anche dei villaggi buriati. Sulle loro casette di legno sventolavano piccole bandiere bianche, forse quelle bandiere della preghiera che agitandosi abbandonano all’aria le preci scritte di cui sono coperte. Anche sugli obo erano infissi i sacri stendardi, e spesso un albero sorgeva in mezzo all’obo, con i rami adorni di nastri di carta che fremevano al vento. Ad una cinquantina di verste da Verkhne-Udinsk scorgemmo anche, lontano alla nostra destra, una Lamaseria: un gruppo di edifici dai tetti cinesi dipinti di verde come quelli delle chiese ortodosse. Verkhne-Udinsk è il centro, la capitale del disseminato popolo dei buriati, come Kazan è il centro del disseminato popolo tartaro. La vicinanza della città ci venne annunziata più che altro dall’incontro di numerosi buriati che tornavano dal mercato, a cavallo, riuniti a gruppi per potersi difendere all’occasione. Essi non ci salutarono.
Alle sei della sera, giunti all’alto d’una collina, la cerchia dell’orizzonte montuoso si aprì avanti a noi, e il nostro sguardo spaziò sull’ampia valle dell’Uda. Nelle profondità azzurre e velate della lontananza indovinavamo il corso dell’Uda, che viene dall’est per unirsi alla Selenga e morire insieme nel vicino Baikal. Ai piedi delle alture più remote, oscure di boschi folti, scorgemmo un biancheggiare confuso di edifici dal quale s’ergevano linee sottili di campanili e di cuspidi: era Verkhne-Udinsk, fondata alla confluenza dei due fiumi. La guardammo lungamente, prima di discendere al piano e perderla di vista, pensando all’importanza che essa assumeva per noi.
Verkhne-Udinsk non era soltanto una tappa: era la fine d’una grande fase del viaggio. Era un point tournant. Da Pechino non avevamo fatto che salire al nord-ovest, e l’Europa è a ponente. Tutta la strada percorsa non ci aveva avvicinati che ben poco alla mèta. A Verkhne-Udinsk avremmo finalmente, ad un tratto, voltato la faccia all’occidente. Cominciava da lì la corsa diretta verso quei tramonti che ci mostravano la via del ritorno in un’apoteosi di luce.
La strada si faceva cattiva. Sobbalzavamo in buche profonde e guazzavamo nel fango. Traversavamo delle pozze, che dovevamo sondare prima con i piedi per assicurarci della solidità del fondo. Sapevamo di dover passare ancora la Selenga sopra un battello, e cercavamo la buona direzione per il traghetto fra un intreccio di sentieri solcati da profonde rotaie. La pianura ara acquitrinosa, incolta, invasa da salici nani, da giuncaglie, da tutta la vegetazione delle paludi. Dei fiumicelli la percorrevano serpeggiando, e li passavamo su piccoli ponti di legno che avevano l’apparenza di essere stati fatti provvisoriamente molti anni fa, e poi dimenticati. Eravamo alle prese con tutte queste piccole difficoltà, quando ci giunse alle orecchia un fischio lungo, alto, sonoro, che riconoscemmo subito, e che ci fece volgere il viso illuminato di gioia dalla parte dove esso era venuto.
— Il treno! — esclamammo. — Il treno!
Distinguemmo la linea della ferrovia transiberiana, al di là della Selenga, con le casette rosse dei suoi guardiani, e i pali del telegrafo, tagliata alla base di colline coperte di pini. Fra gli alberi un pennacchio di vapore bianco fuggiva, disperdendosi su per la pineta, inseguito da un rombare alto, continuo, crescente. E il treno comparve, sbuffante, veloce. Il vincitore, il trionfatore, il conquistatore dell’Asia, passava. Correva verso Irkutsk, verso l’Europa. Esso ci univa all’Europa. Non so quale effetto avesse prodotto su noi il viaggio, la lunga sensazione della solitudine e della lontananza, il fatto è che la semplice e comune vista d’un treno ferroviario ci sembrò cosa nuova, piena di significato profondo ed ineffabile, e in un impeto d’entusiamo lo salutammo con un caloroso evviva.
L’imbarcazione che ci traghettò poco dopo dalla riva sinistra alla destra della Selenga, era ben diversa da quella che ci aveva trasportato al mattino. Era formata da una piattaforma vasta come una sala da ballo, sostenuta da due grandi chiatte da ponte; portava una decina di teleghe per volta, con i loro cavalli, ma avrebbe portato facilmente anche una locomotiva. Andava per la forza stessa della corrente. La trovammo occupata a traghettare i carri che tornavano dal mercato di Verkhne-Udinsk, e che si ammassavano Salvataggio dell’automobile travolta dal crollo di un ponte. alla riva destra aspettando con pazienza il loro turno. Fu un giuoco per la nostra macchina imbarcarsi, sbarcare, superare di corsa la ripida scarpata del fiume, e arrivare poco dopo alla città, che scende fra l’Uda e la Selenga, tutta bianca, vivace, pittoresca, con quel profilo orientale che hanno quasi tutte le città russe per l’abbondanza di cupole nelle loro chiese e di campanili acuminati arieggianti i minareti.
Attraversammo l’arco di trionfo, e penetrati nella via principale ci mettemmo alla ricerca del nostro deposito di benzina. L’arco di trionfo non manca in nessuna di quelle città siberiane che sono sull’antica strada del Pacifico. Naturalmente, come le case, le caserme, le chiese, anche l’arco di trionfo è sempre di legno, per quanto talvolta simuli ingenuamente d’esser di marmo o di pietra. Tutti questi archi furono eretti in occasione del passaggio dell’attuale Imperatore Nicola II (allora era Zarevich) di ritorno da Wladivostok ove aveva inaugurato i lavori della ferrovia transiberiana. Egli è forse l’unico Imperatore di Russia che abbia attraversato tutto il suo Impero. L’avvenimento meritava bene di essere ricordato con archi di trionfo — siano pure vegetali.
Non trovammo nessuna traccia del nostro deposito. Ma il principale droghiere consentì a venderci tutta la sua benzina — una cinquantina di litri — che rappresentava presso a poco quella dell’intero paese e territori circostanti. Laggiù la benzina si adopera diffusamente ma a gocce, perchè non è uscita ancora dal primo periodo della sua esistenza sociale: quello dello smacchiamento.
Verkhne-Udinsk è una città di soldati, il gran centro militare della Transbaikalia. Laggiù vedemmo le nuove uniformi di guerra dell’esercito russo, ideate purtroppo a guerra finita, quando la visibilità delle monture aveva già fatto strage di soldati ed era stata una non piccola causa dei rovesci in Manciuria. Ma adesso, su tutte le frontiere vigila il cosacco in khaki; è una grande tradizione che tramonta. Nella sera squillavano dei segnali di tromba dalle caserme bianche dell’alta città; delle pattuglie passavano per le vie con il fucile in spalla; un tintinnare di sciabole e di speroni risuonava sui marciapiedi di legno; numerose sentinelle si mettevano in fazione alle soglie degli edifici pubblici e delle banche. Persino il telegrafo era occupato militarmente: soldati alla porta, soldati con fucile e baionetta inastata nella piccola sala del pubblico, negli uffici, avanti la cassaforte. Mi pareva di scrivere i miei dispacci nell’anticamera di qualche prigione.
Alloggiammo nella migliore Gostinitza, un vecchio albergo di legno pieno di enormi stufe e di letti senza lenzuola, tramandante un greve odore di umanità rinchiusa come se vi fosse rimasto l’alito di tutti quelli che vi avevano abitato. Da Hsin-wa-fu non avevamo più dormito in un albergo. Dormire è veramente una espressione esagerata, perchè pareva che un’armata di animaletti si fosse perfettamente abituata alla polvere insetticida; quegl’insetti avevano acquistato la virtù di Mitridate. L’automobile riposò nel piccolo cortile, circondato da hangars cadenti e ingombro di barili vuoti, di carri, di casse e di galline.
Alle tre del mattino eravamo in piedi e sorbivamo silenziosamente un bicchiere di thè. Il giorno era già chiaro. Ci trovavamo alle altitudini della notte bianca.
Pioveva.