La metà del mondo vista da un'automobile/IX

CAPITOLO IX. — Urga

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CAPITOLO IX.


URGA

Alla «Rusky-kitensky Bank» — Uno strano pellegrinaggio — Il governatore cinese in automobile — La partenza da Urga — Affondati nel fango — Una discesa disastrosa.

Delle tre città, la prima che incontrammo arrivando fu la cinese. Vi entrammo perchè vi entrava il telegrafo. Avevamo talmente preso l’abitudine di seguire per tutto quei due fili, con la più completa fiducia, che ci saremmo lasciati condurre da loro ovunque senza discussione. Essi erano cinesi, e facevano una sosta precisamente nella città cinese prima di ripartire direttamente per il nord attraverso a scoscese montagne. Il loro compito di guida finiva. Ci condussero per le strade anguste e sporche della città cinese, e, ad un tratto, saltarono al di sopra d’una palizzata, e ci lasciarono perplessi.

Il nostro arrivo faceva accorrere la popolazione agl’ingressi dei recinti, dai quali potevamo gettare un rapido sguardo sopra cortili ingombri di casse, di cammelli, di bambini, sopra edifici cinesi dalle griglie a complicato disegno geometrico, sopra piccoli templi variopinti e vistosi. Dietro alle barbare difese di travi scorgevamo i segni del benessere e del lavoro. Gli abitanti sono tutti dediti al grande commercio, arricchiti dal thè, dalle lane, dalle pelli, dai cavalli, organizzatori regolari di carovane, proprietari di [p. 188 modifica] centinaia di cammelli e di buoi. Essi sapevano certamente del nostro arrivo; ci guardavano con curiosità ma non con meraviglia; il telegrafo aveva sparso notizia del chi-cho; e il contatto con i russi, le relazioni costanti col mondo occidentale, avevano dato a quegli emigrati dal codino un senso pratico che li faceva considerare l’automobile da un punto di vista assolutamente ragionevole. Qualcuno ci domandava se venivamo direttamente da Tuerin, ed alla risposta affermativa si volgeva agli altri discutendo calorosamente il fatto.

Fu per le vie della città cinese che vedemmo le prime donne mongole del nord, la cui acconciatura era così stravagante e così nuova per noi, che non potemmo trattenerci dal guardarle con un’insistenza perfettamente indiscreta. Certamente le donne maritate della Mongolia Settentrionale riescono a fare della loro capigliatura il più originale capolavoro che possa essere ideato dalla fantasia collettiva di cento generazioni di donne. I capelli scendono loro ai lati dal viso in due bande piatte, larghissime, ingommate, che non hanno più nulla del capello, che sembrano due enormi spatole nere e ricurve incornicianti il volto, tanto ampie da arrivare quasi alla larghezza delle spalle, e terminanti a punta sul petto. Le spatole sono tenute aperte da una quantità di stecche disposte come quelle del ventaglio, le quali formano una singolare raggiera intorno al volto; e sono cariche di monili d’argento e di monetine oscillanti, nelle quali abbiamo riconosciuto con soddisfazione altrettanti pezzi russi da 10 e da 20 kopeki — un altro segno della vicinanza dell’Impero Moscovita. Naturalmente una pettinatura di questa complicazione si fa una volta sola nella vita: all’epoca delle nozze la fanciulla abbandona il capo alle sapienti manipolazioni d’un artista, e poi si limita ad un lavoro di manutenzione, spolvera le sue spatole di tanto in tanto, e le ingomma quando occorra. Non c’è pericolo che l’uso del bagno minacci mai l’integrità di quella fantasia capillare.

Nel momento in cui non sapevamo più dove dirigerci, e domandavamo a tutti dove stava la Rusky-kitensky Bank (ci [p. 189 modifica] aspettavano alla Banca Russo-cinese) arrivò al galoppo un soldato cinese che c’indicò la via. Passammo vicino ad una fila di bianche pagodine di stile tibetano, vagamente simili a dei birilli d’un gigantesco giuoco di boccie, e, sboccando all’aperto, sulla cima di una collina vedemmo un grandioso palazzo europeo. Non so dirvi quale gioia improvvisa c’invase alla vista di quell’atomo d’Europa caduto in piena Mongolia. Fu come se ci si fosse presentata la nostra casa. Non sapevamo ancora cosa fosse quell’edificio, lontano Nelle pianure paludose fra Urga e Kiakhta,
L’Itala risollevata da un affondamento si appresta a rimettersi in marcia.
tre o quattro chilometri, circondato da costruzioni più basse, hangars e scuderie all’apparenza. Ma per noi era una dimora amica: aveva l’impressione dell’amicizia; ci confortava niente altro che con la sua apparenza nostrana. Presto vedemmo scritto a grandi caratteri e in quattro lingue sulla sua facciata: “Banca Russo-cinese„. Arrivammo suonando trionfalmente la cornetta con entusiastica costanza.

Al cancello d’ingresso era fermo un tarantas! due cosacchi passavano per la strada, e si fermarono a guardarci, e noi li [p. 190 modifica] salutammo con effusione; da una porticina si protese una testa di barbuto mujik, subito scomparsa forse per dare l'annunzio dei nostro arrivo.

— Ma siamo già in Siberia! — esclamammo congratulandoci come se il viaggio fosse finito.

Al frastuono, la porta della banca si spalancò, ed un simpatico gentiluomo, il signor Stepanoff, direttore di questa sede, si precipitò ad accoglierci festosamente, non senza nasconderci una certa sorpresa per vederci arrivar primi:

— Ma è la bandiera italiana! — esclamava guardando la nostra bandiera che sventolava allegramente a poppa — Proprio! Bene arrivato Principe! Ben arrivati! Ah.... non vi aspettavo, sinceramente! Conosco il deserto, e la vostra macchina mi pareva troppo pesante. Avrei creduto che rimaneste indietro. Ero convinto che la chance delle macchine leggiere fosse.... Insomma, ben arrivati! Per di qua, per di qua, tutto è pronto!

Tutto era infatti deliziosamente pronto. Un intero appartamento era messo a nostra disposizione. Bandiere russe, francesi, e italiane pavesavano le scale. In un grande salone scintillava una lunga tavola imbandita, con venti o trenta coperti, trofei colmi di dolciumi, salviette candide artisticamente piegate: un panorama superbo di cristallerie e di porcellane che ci faceva emettere esclamazioni di sorpresa e di benessere.

— Avvertirò subito il Comitato — ci diceva il nostro ospite conducendoci alle camere.

— Il Comitato?

— Sì, il Comitato russo per il ricevimento della Pechino-Parigi. Lo avvertirò del vostro arrivo. Doveva trovarsi qui a ricevervi, ma non immaginavamo giungeste prima di sera. Ci hanno telegrafato da Tuerin che un’automobile era partita stamane alle sei e mezza. Sono più di 250 chilometri! Scusateci, se il ricevimento è mancato.

Dunque c’era un comitato. Eravamo in piena civiltà occidentale. Pensavamo con riconoscenza a tutte quelle brave persone [p. 191 modifica] che si erano messe insieme per festeggiarci, per confortarci delle nostre fatiche, e che avevano affrontato adunanze, discussioni, ordini del giorno.... Il signor Stepanoff era presidente ed anima del comitato. Incominciò ad Urga per noi l’indimenticabile serie delle accoglienze generose e sincere, grandi e piccole, che ci diede lungo tutto il gigantesco viaggio il conforto continuo di simpatie amichevoli, che schiuse avanti a noi porte di palazzi e porte di capanne, che ci fece sentire ovunque la dolce atmosfera della vera ospitalità, di quella ospitalità che dice: Vieni, questa è la tua casa!

Dalle finestre delle nostre camere dominavamo tutta la valle del Tola e le sue città disperse. La Bogda-ola ci era di fronte, alta ed ampia, con la sua imponente vetta nera di pini. La leggenda vuole che su quella vetta sia la tomba di Jingis-khan. Magnifica tomba per un dominatore. Forse è tale leggenda che santifica la montagna. Tagliare gli alberi e cacciare lassù è considerato un sacrilegio. Nessuno vi sale, quasi per non disturbare il sonno del grande imperatore. I mongoli, interrogati del perchè non vadano mai sulla Bogda-ola, rispondono che la montagna fu fatta da dio per il suo divertimento, e che egli solo la frequenta godendovi i piaceri delle passeggiate e della caccia. Nella loro concezione la montagna non sarebbe che un giardino privato della divinità. Come tutti i primitivi abitanti delle vaste pianure, essi hanno per il monte una venerazione religiosa. È sulla sommità delle alture che erigono i loro obo; essi salgono per pregare; ogni elevazione è creata per avvicinare la terra al cielo. La Bogda-ola è la più alta, dunque è la più sacra. E su di lei v’è una foresta: impressionante mistero per l’uomo delle praterie. Esiste una specie di culto per l’albero nella Mongolia, perchè è raro. Chi sa quale oscura reverenza suscita nella semplice mente del nomade quella forma strana che esce dal suolo. Spesso è adorato come un feticcio, e noi abbiamo incontrato sovente, e fin nella Siberia meridionale, di questi alberi deificati ai cui rami si agitavano innumerevoli striscie di carta con preghiere scritte.

L’Itala era oggetto d’un incessante e inverosimile [p. 192 modifica] pellegrinaggio. La notizia del suo arrivo s’era sparsa in tutta la regione. L’avvenimento aveva messo in emozione la vallata del Tola. Veniva gente dalle tre città, e ne veniva dai lontani accampamenti di yurte. I cinesi, gente pratica, avevano organizzato un perfetto servizio di carrette a muli per condurre i curiosi a vedere il chi-cho e ricondurli alle loro palizzate. Si vedevano arrivare a cinque, a sei per volta di quei loro singolari veicoli, che somigliano già un po’ alla telega russa, gremiti di gente vestita a festa per la solenne occasione. Noi li chiamavamo gli omnibus. Non mancavano anche le vere teleghe, che salivano dalla città russa, portando con i vivaci colori dei costumi slavi un’aria di festosità. E una folla di mongoli arrivava a piedi e a cavallo, da tutte le parti: Lama vestiti di seta viola o gialla e dal cappello a pagoda, carovanieri, pastori, e a sciami arrivavano le donne, calzate di grossi stivali, agitanti la mole della loro pettinatura — che dà l’idea di un collare alla Medici applicato alla testa — sorridenti, ciarliere. Di tanto in tanto qualche cosacco si apriva un varco fra la folla e faceva un giro di ricognizione intorno all’automobile.

Tutta quella moltitudine ammirava con rispetto come davanti ad un sacro mistero. La popolazione mongola di Urga era stata da vari giorni informata, per mezzo degli agenti nativi della Banca, del prossimo arrivo di carri che correvano da soli; si era voluto prevenirla per evitare qualche possibile conseguenza del fanatismo e della superstizione che potevano essere risvegliati dall’arrivo improvviso di macchine così strane nella città santa del Lamismo. E tutti i giorni la Banca riceveva visite di mongoli che venivano a domandare notizie su quei tali carri che correvano da soli. Le loro domande erano di una ingenuità divertente. Essi avevano la impressione che i prodigiosi veicoli non dovessero correre sul suolo ma nell’aria; volevano sapere a che distanza si potevano guardare senza pericolo; chiedevano se non sarebbe stato imprudente mettersi davanti a loro anche quando fossero stati fermi. La convinzione più diffusa era che quei carri fossero trascinati da un invisibile cavallo alato. “Ma come fanno gli stranieri a [p. - modifica]Sui terreni paludosi presso al villaggio Shao-huai-huen. [p. 193 modifica] guidare il cavallo invisibile?„ domandavano al signor Stepanoff dopo avere ascoltato imperterriti le più ingegnose spiegazioni atte a convincerli che il cavallo non c’era.

I popoli primitivi vivono costantemente in un mondo favoloso; spiegato tutto con l’intervento dell’invisibile; la loro ignoranza trova un mistero in ogni cosa, ed una potenza occulta in ogni mistero; il miracoloso è per loro una forza naturale, e non li stupisce. Credono all’esistenza d’un cavallo alato, ma non possono credere ad una complicata creazione dell’ingegno umano. Nella loro mente l’incredibile è verità e la verità è incredibile.

Non sappiamo quanto la vista della nostra macchina abbia modificato le opinioni preventive dei cittadini d’Urga sull’automobilismo. Certo è che la folla in ammirazione intorno all’Itala la stringeva da tutte le parti, ma lasciava avanti a lei strada libera; ed anche i cinesi convenivano pienamente in questa savia misura di prudenza. Il nome dato dai mongoli all’automobile era “la macchina che vola„. È probabile che la sua notizia, portata al passo del cammello, sia arrivata alle tribù lontane sotto forma di una nuova leggenda. Anche il Gran Lama s’era interessato molto del nostro prossimo arrivo. Gli fu subito spedito un corriere a cavallo.

Nel pomeriggio il Governatore cinese venne a farci visita. Una staffetta arrivò al gran galoppo ad annunziarlo. Poco dopo sulla strada soleggiata comparve, avvolto in una nube di polvere, il corteggio dell’alto dignitario. Il palanchino era portato da quattro mongoli a cavallo, con una destrezza meravigliosa; le aste del veicolo erano semplicemente posate sull’arcione, e i quattro portatori galoppavano mantenendo le distanze: se uno di loro si fosse scartato d’un palmo, quel povero governatore, con tutto il palanchino, avrebbe fatto la fine meno dignitosa. Uno stuolo di soldati mongoli e cinesi, di ufficiali, di dignitari, precedeva e seguiva a cavallo l’eminente mandarino. V’era alcunchè di primitiva nobiltà e di fierezza in quel gruppo variopinto che arrivava con irruenza tempestosa. Nulla eguaglia in espressione guerriera il volto del soldato mongolo dai lunghi baffi spioventi. [p. 194 modifica]

Il Governatore però, ad onta del terribile apparato del quale si circondava, era il più fine e il più benigno dei cinesi. Parlò senza dire, da perfetto diplomatico, sorrise a tutti, rise di tutto, prese il thè, e se ne riandò col suo palanchino in equilibrio e la sua scorta galoppante. Ricevemmo anche una visita del Generale tartaro. Egli rimase profondamente impressionato dalla notizia che la nostra automobile aveva la forza di quaranta cavalli. Diamine, avevamo quasi più cavalleria di lui. Un grave problema militare si affacciava alla mente del generale tartaro, un dubbio lo tormentava: esisteva in Europa una cavalleria montata su automobili? Se esisteva, erano perfettamente inutili tutti i generali tartari messi a guardia dei confini dell’Impero celeste. Dieci automobili avrebbero preso la Mongolia in quattro giorni. Lo rassicurammo, la cavalleria montata sui cavalli-vapore non esisteva. Egli ne dimostrò molta soddisfazione.

Alla sera un ufficiale mongolo, conducendo a mano un carretto (gli ufficiali mongoli sono modesti) si fermò alla porta di servizio della Banca, ed esibì un foglio di carta rossa sul quale risaltavano dei caratteri cinesi. Il foglio era un biglietto da visita del Governatore, e accompagnava dei regali. I regali stavano nel carretto e si rifiutavano ostinatamente di scenderne: erano due superbi montoni che l’ufficiale indusse all’obbedienza. Con i montoni, delle bottiglie di vino russo e delle scatole di conserve. Deposta in terra tutta questa roba, l’ufficiale mongolo, che aveva il cappello ornato dal bottone di mandarino di sesta classe, volle che constatassimo che il carretto era vuoto, e che egli non aveva rubato niente. Del che facemmo fede.

Ad Urga trovammo il nostro terzo deposito di benzina e di olio, l’ultimo della Mongolia, trasportato per carovana da Pechino. Il quarto deposito l’avremmo dovuto trovare a Kiakhta, arrivatovi per la via della Siberia. Era giunto a Kiakhta? Tutta la preparazione logistica del viaggio era pronta? Nessun ritardo, nessun disguido ci avrebbe fermati a mezza via per mancanza di combustibile e di lubrificante? Queste domande ci rivolgevamo con [p. 195 modifica] una certa ansietà. Mancavamo assolutamente di notizie in proposito. Il Principe aveva ricevuto a Pechino un telegramma, speditogli da Pietroburgo, nel quale gli si annunziava che a Kiakhta avrebbe trovato una lista delle stazioni di rifornimento e delle quantità di benzina ed olio messe a sua disposizione in ogni stazione. Eravamo preoccupati, ed i fatti ci diedero ragione.

In ogni modo ad Urga tutti i serbatoi furono completamente riempiti, senza curarci del peso eccessivo, immagazzinando così la forza per altri mille chilometri. Nel pomeriggio Ettore venne ad avvertire che la macchina era pronta a riprendere il viaggio. Egli aveva una parola per dire tutto ciò:

— Finito.

— Tutto bene? — gli domandò Borghese.

— Benissimo. Ho visitato tutto. È ancora nuova.

Non rimaneva che aspettare gli altri. Urga del resto ci rendeva l’aspettativa piacevole. Il Comitato ci teneva la più amabile compagnia. V’erano degli ufficiali cosacchi, un capitano medico reduce dalla guerra in Manciuria, dei commercianti, delle signore che rimpiangevano la vita di Pietroburgo e di Mosca, e vi era anche un corretto inglese, dall’aria fine, che avrei scambiato per un diplomatico se non mi avessero assicurato che egli era invece un abile pioniere del commercio delle lane e delle pelli.

Ogni tanto mi facevo sellare un cavallo (le scuderie erano a nostra disposizione), e troneggiando sull’alta sella cosacca mi recavo all’ufficio telegrafico nella città cinese a spedire i miei dispacci e a chiedere notizie dei nostri colleghi. Alla sera seppi che le De Dion-Bouton erano arrivate a Tuerin alle cinque del pomeriggio: esse sarebbero state ad Urga all’indomani. Nessuna notizia della Spyker. Nè Pong-Kiong nè Udde potevano dirne niente. Da tre giorni e due notti la Spyker era dunque in panna nel deserto; il mongolo dal telegramma impacchettato di stracci, col suo cammello carico di benzina, non l’aveva ancora raggiunta. Sulla Spyker, erano il conducente Godard e il mio buon collega Du Taillis. Avevamo del deserto una troppo recente esperienza [p. 196 modifica] per non pensare a loro ad ogni istante con un senso di rammarico profondo.

All’immaginazione costante delle loro sofferenze si aggiunse l’idea d’un’altra tortura: noi sapevamo che stavano per essere liberati, che fin dalla mattina del 19 il soccorso era partito da Udde alla loro volta, e si avvicinava da ora in ora; ma — ci chiedevamo — lo sapevano essi? Avevano la coscienza, la certezza, della liberazione vicina? Il dubbio, quali ansie e quali angoscie non poteva aggiungere alle sofferenze fisiche? Si è forti quando si è sicuri. Chi poteva rassicurarli? Quanto avrei dato per poter far giunger loro una parola sola su quei fili che passavano a pochi metri dalle loro teste, e che portavano migliaia di parole mie ad un giornale! Fummo ben lieti il giorno dopo quando ricevetti da Udde la comunicazione: “Spyker arrivata tutto bene„.

Il 22 giugno fu da noi consacrato alla restituzione delle visite. Entrammo nella fortezza dove il generale tartaro trincera la sua autorità, e sorbimmo alcune tazze di thè davanti all’eminente guerriero vestito di gala e circondato dal suo stato maggiore di mongoli impennacchiati. Il Governatore ci ricevè nella sua residenza ufficiale, e chiese al Principe un grande favore. Non ci aspettavamo da un perfetto mandarino, dal Governatore generale della Mongolia, una richiesta come quella che fece. Essa rovesciava tutte le nostre idee sulla Cina, tutte le opinioni più diffuse sul mandarinato. Era la riabilitazione del Wai-wu-pu. Apriva nuovi orizzonti sull’avvenire dell’Impero Celeste. Sua Eccellenza chiedeva di essere condotto in automobile.

— Ma ben volentieri! — esclamò Borghese con entusiasmo. — E dove?

Non importava dove. Il Governatore voleva soltanto andare in automobile, fare un giro per le vie di Urga. Mi sbaglierò ma credo che egli tenesse soprattutto a farsi vedere sul carro magico. Questo poteva giovare al suo prestigio.

L’automobile era alla porta. Il mandarino, vestito in gran pompa, con le esorbitanti maniche di seta che gli coprivano le [p. 197 modifica] mani, sormontato dal bottone di corallo, segno del più alto grado, adorno il cappello da una doppia penna di pavone, fece un completo giro d’ispezione intorno alla macchina. Poi vi salì, mentre il Principe prendeva il volante, ed Ettore si sedeva sul “posto del montatoio„. La notizia s’era sparsa. Della gente accorreva. Tutti i baffuti ufficiali e soldati mongoli guardavano esterrefatti il loro duce, e guardavano a noi con una certa diffidenza.

L’Itala partì. Fece un ampio giro avanti al Fu per attraversare Sulle rive dell’Iro in Mongolia - Nè ponti nè battelli. Come si passa? un ponticello, e prese il largo. Il Governatore della Mongolia s’era afferrato fortemente ai bracciali del sedile, ma pareva estasiato. Il suo codino oscillava nell’aria. Gli uomini del sèguito ebbero forse l’impressione che si volesse rapire il loro signore, poichè si precipitarono sui cavalli legati alla palizzata, balzarono in sella, e via, dietro alla macchina diabolica, urlando. Appresso a loro si precipitò chiunque aveva un cavallo a portata di mano, e i cavalli laggiù sono per tutto. Sbucavano cavalieri d’ogni parte, erano lama, erano soldati, erano uomini della prateria; arrivavano tardi, l’automobile era scomparsa ed essi non rincorrevano più [p. 198 modifica] che degli altri uomini a cavallo, ma andavano egualmente, aizzando le bestie col grido. Soltanto pochi ufficiali, meglio montati, riuscivano a mantenersi vicini alla vettura. Come una gran caccia, seguiva la cavalcata indescrivibile, orda selvaggia lanciata a galoppo. Scompariva nella polvere, s’ingolfava tumultuosamente nelle strade. Molti cavalli portavano due cavalieri. S’udivano grida festose: quella corsa non era che un giuoco; ma la scena conservava tutta l’apparenza d’un furore. Pareva che Urga fosse invasa da un barbaro esercito vittorioso. Era una visione d’altri tempi, alla quale le difese a palizzata davano veramente uno sfondo guerresco. Si sarebbe detto che tutta un’antichità inseguisse ferocemente quella piccola cosa moderna che fuggiva avanti senza cavalli.

Il Governatore volle essere condotto fino alla Banca Russo-cinese, dove il suo palanchino venne a riprenderlo. La passeggiata ebbe una inattesa conseguenza politica. Alla sera il Buddha vivente mandò a dirci che ci avrebbe fatto sapere soltanto fra alcuni giorni se ci avrebbe o no concesso il gaudio di vederlo.

— Ma come — esclamammo — se aveva tanta premura per noi!

— Ah, capisco! — ci mormorò qualcuno — s’è impermalito.

— Chi, il Buddha vivente? E perchè?

— Per la corsa del Governatore.

— Possibile?

— Certissimo. Egli tiene alla priorità, ed è ostile al Governatore.

— Sicchè siamo fuori delle sue simpatie?

— Irrimediabilmente.

— Peccato! Volevamo portare anche lui in automobile!

Ma ci rassegnammo facilmente alla nostra disgrazia. Nel pomeriggio di quel giorno giunsero ad Urga le De Dion-Bouton. Anche Cormier, Colignon, Longoni e Bizac avevano subito nel deserto quel radicale mutamento di colore che trasformava [p. 199 modifica] le nostre faccie, benchè essi fossero protetti in marcia da una comoda tenda. Le loro macchine si trovavano in perfetto ordine. La Spyker, che era giunta quel pomeriggio ad Udde, avrebbe tardato ancora due giorni ad arrivare. Noi avevamo una preoccupazione che ci spronava alla partenza; il passaggio del fiume Iro — a circa 60 chilometri al sud di Kiakhta. L’Iro è guadabile soltanto in epoche di siccità; basta una pioggia per trasformarlo in un ostacolo insormontabile. Nell’Iro esiste un battello, ma non sulla strada che avremmo dovuto percorrere. Un commerciante russo che veniva da Kiakhta ci diceva che l’altezza dell’acqua del fiume era allora di circa un metro e venti centimetri; molta per un’automobile; e non era certo desiderabile che aumentasse. Ci pareva già un grave problema la traversata in quelle condizioni. Ora, il tempo accennava a guastarsi. Le nuvole che ci avevano tanto rallegrato il giorno prima, crescevano smisuratamente. Il Principe decise di partire al mattino dopo, 23 Giugno. Le De Dion-Bouton aspettavano ad Urga ancora un giorno. L’Itala avrebbe atteso alla sua volta un giorno intero a Kiakhta.

Gli appartamenti privati della Banca Russo-cinese erano tutti illuminati quella sera. La grande tavola apparecchiata nel salone, inondata dalla luce dei doppieri, entrava solennemente in funzione. Il Comitato, in seduta plenaria, ci offriva un banchetto di gala. Avremmo giurato di essere ben lontani dalla capitale della Mongolia, di avere sorpassato i confini europei, se la presenza dei boys cinesi, intenti al servizio della mensa, non avesse risvegliato ogni tanto in noi la memoria dei luoghi. Le conversazioni, in francese, in russo, in tedesco, s’incrociavano creando quella piacevole babilonia dei banchetti nella quale le persone che parlano sono sempre in enorme maggioranza sulle persone che ascoltano. Ma io ero della minoranza. Ascoltavo la signora del capitano medico, mia vicina, la quale mi descriveva il suo viaggio da Kiakhta ad Urga, e concludeva col dirmi:

— Non so come farete a passare con la vostra automobile!

— Ma... siamo passati nel Gobi! [p. 200 modifica]

— Non conosco il Gobi, grazie a Dio, ma vi ripeto che il cammino per Kiakhta è quanto di più orribile io abbia veduto in fatto di strade, e sono stata in Manciuria. Pensate, quattro ore intere, quattro ore, presi dal fango, senza poter liberare il tarantas affondato, con la prospettiva di continuare la strada a piedi. Vi ho già descritto questo episodio. Saremo stati a dieci verste da Urga, ed era la quarta volta che affondavamo...

— La stagione era cattiva?

— Eccellente. Come ora. Vedrete con i vostri occhi che cos’è di spaventoso quel tragitto.

— Speriamo di no, signora!

Sorridevo con condiscendenza. Il racconto di quelle terribili avventure di viaggio mi lasciava abbastanza tranquillo. La sensibilità femminile porta alle volte alla più spontanea esagerazione. Non potevo immaginare allora quanto la mia vicina di tavola avesse ragione. Non avrei mai creduto in quel momento che la strada fra Urga e Kiakhta ci avrebbe fatto rimpiangere il deserto e che poche ore dopo quel colloquio noi avremmo tremato per la salvezza della nostra macchina.


Lasciammo la Banca all’alba, con tutte le precauzioni atte a non risvegliare nessuno a quell’ora così dolce al sonno, ed avevamo veramente l’aria d’aver svaligiato la cassa forte e di fuggircene col bottino. Come tutte le Banche russe, anche quella d’Urga doveva temere qualche colpo di mano degli “espropriatori„ rivoluzionari, poichè alla notte essa era vigilata all’esterno dai cosacchi del Consolato. E quei bravi giovanotti in sentinella ci osservavano alla partenza con una evidente incertezza; pareva non sapessero se salutarci o dare l’allarme. Si decisero per il saluto. E noi filammo verso la città mongola, dalla quale si diparte la strada per Kiakhta.

Ma non fu facile trovarla. Ci mancava la linea del telegrafo ora, quel comodo filo d’Arianna che ci aveva condotti per mille e duecento chilometri, e i mongoli mattinieri che incontravamo [p. 201 modifica] fuggivano appena fermavamo l’automobile per interrogarli. Fortunatamente alla Banca ci eravamo forniti d’un sacchetto di piccole monete russe, e mostrando venti copeki d’argento fra il pollice e l’indice riuscimmo, come per incanto, ad arrestare la fuga dei Donne della Mongolia settentrionale in vicinanza dell’Iro. viandanti. E un po’ Borghese col suo russo, ed io col mio cinese, domandando lui la via per Kiakhta, io quella per Maimachen, potemmo farci comprendere. Voltammo al nord, lasciammo Urga alle spalle, e c’internammo in una vasta vallata verde, per sentieri incerti che s’intrecciavano capricciosamente fra ciuffi d’erba e sparivano volta a volta. [p. 202 modifica]

Non eravamo in cammino da un quarto d’ora che l’automobile si fermò di colpo, e s’abbassò tutta a sinistra.

Il motore continuava ad agire, palpitando tumultuosamente, scoppiettando, emettendo nubi di fumo bianco ed acre; pareva che sentisse un pericolo e impegnasse con risoluta violenza tutta la sua forza poderosa per fuggire. Ma eravamo inchiodati. Sporgendoci vedemmo le ruote di sinistra affondate nel terreno. Quella posteriore continuava a girare, vorticosamente, quasi tentando di uscire dall’alveolo con l’impulso d’una rapidità disperata. Vi era dell’esasperazione in quel furioso e raccolto sforzo della gran macchina.

— Ferma, ferma! — gridò Ettore vedendo che il turbinare della ruota scavava il fango. — Affondiamo di più!

Il motore tacque, e per qualche minuto osservammo in silenzio la posizione dell’automobile, studiando il modo di salvarla. Aveva talmente affondato a sinistra, che l’asse delle ruote e il cassone della benzina toccavano da quel lato il suolo. Che cosa fare? Come sollevare noi tre duemila chilogrammi di peso e trasportarli altrove? Provammo a rimettere in movimento il motore ed aiutarlo spingendo con tutte le nostre forze l’automobile. Inutile tentativo. Non sarebbero forse nemmeno bastati tutti i coolies che avevamo lasciato a Kalgan. Urgeva soprattutto rialzare la parte affondata perchè l’automobile piegandosi tutta da un lato sforzava la molla e la ruota posteriore di destra, e minacciava di spezzare o l’una o l’altra. Ettore si mise al lavoro con le martinette, ma queste affondavano nella terra molle. Per sostenerle occorrevano delle tavole, e ne togliemmo dal pavimento della carrozzeria; le tavole scricchiolarono, si ruppero, affondarono. Allora ci venne un’idea: scavare il terreno tutto intorno alle ruote e sotto l’automobile in modo da formare un piano inclinato sul quale la macchina sarebbe facilmente risalita con le sue forze. E ci mettemmo alacremente al lavoro, a gran colpi di pala, dandoci il cambio a mano a mano che eravamo stanchi.

Dopo alcuni minuti di fatica concitata e muta, ci accorgemmo [p. 203 modifica] con una specie di spavento che noi scavavamo la tomba alla nostra macchina. Più allargavamo lo spazio intorno alle ruote, e più esse affondavano. Era la pressione laterale della terra che le sorreggeva — e noi la toglievamo — e non un fondo duro. Non v’era fondo. La melma diveniva molle e acquosa nella profondità. Era tutto un lago di melma con una crosta, e due ruote avevano sfondato la crosta: questa la situazione. Intanto la ruota dalla parte sollevata s’era talmente inclinata da finire con l’appoggiarsi alla carrozzeria, e mandava ogni tanto uno scricchiolio minaccioso. Io inviavo delle scuse mentali alla signora del capitano medico i cui racconti avevo accolto con tanto scetticismo. Dovevamo trovarci presso a poco nei paraggi dove s’era affondato il suo tarantas — e un tarantas non pesa la decima parte di un’automobile.

Ci dicevamo che Urga era vicina, a poco più d’un’ora di cammino, che in tre ore si poteva essere di ritorno con una buona squadra d’uomini, con un carico di tavole e di travi, con dei cavalli.... Ma non sapevamo deciderci ad andare a chiedere quell’aiuto. Era una questione d’amor proprio, una onesta debolezza. Ci figuravamo il ritorno d’uno di noi, a piedi, trafelato, infangato, alla Banca, le meraviglie degli ospiti, il racconto dell’arenamento e la confessione della nostra impotenza, le generose offerte di soccorso, la gente che veniva a vedere l’automobile vinta — quell’automobile che aveva percorso con tanta baldanza le vie di Urga —; ci figuravamo tutto questo, e ci pareva di doverne subire una non so quale umiliazione. No, no, bisognava uscire da quell’imbarazzo con mezzi trovati sul posto. Un capitano la cui nave incaglia fa tutto quanto gli è possibile per disimpegnarla prima di rassegnarsi ad inalberare il segnale di soccorso. Sentivamo quella specie di orgoglio.

— Se avessimo delle travi! — esclamavamo guardandoci intorno come se le travi potessero spuntare dal suolo.

— O i nostri parafanghi!

Una carovana di carri tirati da buoi, diretta ad Urga, [p. 204 modifica] passava a poche centinaia di metri da noi sul declivio d’una collinetta, condotta da mongoli. Si era avvicinata lentamente, e noi, tutti intenti all’inutile lavoro, non vi avevamo fatto caso. Ma appena l’osservammo, senza scambiarci nemmeno una parola, comprendendoci al solo sguardo, ci precipitammo di corsa verso quella lunga fila di carri. I carri erano carichi di travi. Erano dei tronchi sottili di pino, destinati senza dubbio alle palizzate tradizionali della città santa.

Qualche moneta convinse i mongoli delle nostre buone intenzioni. Del resto loro avevano senza dubbio capito, per la pratica di quella sorta d’incidenti. Ci caricammo ognuno una trave sulle spalle, i mongoli fecero altrettanto, e giù di corsa, verso l’automobile. In quella circostanza, provando e riprovando, adoperando i tronchi di pino in tutti i modi possibili ed immaginabili, riuscimmo a trovare un sistema di leve destinato a salvarci in quella e in tutte le altre simili occasioni dell’avvenire.

Il sistema era molto semplice: immaginate una leva di secondo grado il cui punto di resistenza, alla sua estremità, serva da fulcro ad un’altra leva di secondo grado, la quale agisca definitivamente sul mozzo della ruota affondata; basta la forza di due uomini, se le travi sono lunghe, a sollevare un’automobile. E disponendo dell’aiuto di quattro o cinque persone, una sola leva è sufficiente allo scopo. A mano a mano che rialzavamo così la macchina, con la cooperazione volonterosa di quei buoni carovanieri, riempivamo l’alveolo scavato dalle ruote con delle pietre, che andavamo a raccogliere in un fosso poco lontano. L’automobile, ad ogni sosta del lavoro, col suo peso affondava le pietre nella melma, ma ne affondò tante che finì col farsi una base solida, una vera massicciata.

Dopo due ore e mezza di assidua fatica, avevamo portato tutte e quattro le ruote al livello del suolo. Non rimaneva che trascinar via la macchina a ritroso, fuori dal terreno incerto. Ricomparvero le corde, che attaccammo solidamente allo chassis — ripensavamo alla Grande Muraglia — ci mettemmo a tirare, noi [p. 205 modifica] e i mongoli, con tutta l’energia, ma non ci fu possibile di smuovere d’un pollice la pesante vettura ancora un po’ incastrata fra i sassi e la terra; e non ardivamo di fare agire il motore nella paura, che il suo impulso subitaneo potesse produrre un nuovo affondamento.

— Ma, ci sono i buoi, i buoi dei carri! — esclamò Borghese.

Le grandi idee sono le più semplici. Cinque minuti dopo tre Tipi di donne Mongole nella regione dell’Iro. buoi erano aggiogati all’automobile. Intanto s’era adunata della gente: qualche mandriano venuto trotterellando a vedere quel che avveniva di straordinario nei suoi prati, alcuni lama d’un santuario — che vedevamo biancheggiare sopra un’altura vicina — delle donne arrivate da un lontano gruppo di yurte. I buoi, frustati, incitati, tiravano docilmente, ma senza visibile resultato; e allora noi ci attaccammo alle corde con i buoi, e i carovanieri con noi, e poi tutti gli altri, mandriani, lama e donne; dove era un pezzo di corda libera vi compariva una mano; e la vettura finalmente si decise a seguirci sulla via della salvezza. Tutte [p. 206 modifica] quelle mani subito ci ricomparvero davanti aperte e tese, ed ebbero il meritato compenso delle loro fatiche. Uno di quelli uomini parlava un po’ di russo.

— Quale è la strada per Kiakhta? — gli domandò Borghese.

— Vi sono due strade per Kiakhta; una passa per la montagna, e l’altra per la pianura. Quella della pianura è la migliore.

— Da che parte è la migliore?

— È questa qui dove siamo.

— Allora mostraci dove è la peggiore.

Ce l’indicò e, finiti i nostri preparativi, rimesse al posto corde, tavole e attrezzi, ci dirigemmo da quella parte. La nostra partenza cagionò la più ragionevole sorpresa a tutta quella gente che ci aveva aiutati a disincagliarci. Non ci aveva visti arrivare, e probabilmente supponeva si trattasse di uno strano furgone i cui cavalli fossero stati condotti lontano. Il frastuono del motore messo in azione la fece arretrare con un movimento di paura; il movimento dell’automobile la fece ridere. Erano tutti ilari e soddisfatti come quei due mongoli che avevamo incontrato arrivando ad Urga. Del resto questo effetto esilarante dell’automobile lo abbiamo riscontrato su tutte le popolazioni più ingenue e più semplici. L’ammirazione è il sentimento esclusivo di chi sa.

Il sentiero serpeggiava per valloni, valicava colline, era un po’ sassoso, un po’ ripido talvolta, sarebbe stato pessimo se non impossibile per dei carri a cavalli, ci costringeva a procedere pianissimo, con ogni cautela, ma ne eravamo soddisfatti. “Almeno qui non si affonda!„ — esclamavamo ogni momento. E poi era venuto il sereno, la mattinata era incantevole, passavamo sul bordo di prati pieni di fiori, costeggiavamo boschetti di betulle — le prime betulle — respiravamo a pieni polmoni la frescura odorosa della primavera, e non ci saziavamo mai di godere tutte queste cose così nuove. Le ore passavano senza noia. Dopo l’incidente del fango trovavamo tutto facile, tutto semplice; eravamo diventati pazienti. Se smarrivamo la strada e dovevamo [p. 207 modifica] orizzontarci giudicando da i punti cardinali e ricercando le imperfette indicazioni della carta, ci rassegnavamo con buona grazia. «Meglio questo che affondare!» — ci ripetevamo a guisa di consolazione. Il pericolo corso nel pantano ci aveva conferito delle virtù nuove.

La macchina si arrampicava con facilità sulle salite più scoscese. Alle dieci ci trovammo sulla vetta d’un’alta collina, e ci fermammo per ammirare un paesaggio meraviglioso. Dietro a noi un digradare agitato di verdi colline andava a spegnersi nella gran valle del Tola, azzurra, luminosa. Non si scorgeva più Urga, nascosta nel rovescio delle ultime alture lontane, ma, quasi per segnare la sua posizione, per indicare al devoto viaggiatore lamista ove rivolgere il suo sguardo ansioso di scoprire la sacra residenza del vivo Buddha, una pagoda bianca si affacciava da una vetta e pareva scintillare al sole. Dei cavalieri mongoli, dall’aspetto di soldati, avevano messo piede a terra, e guardavano anch’essi verso Urga. Noi li distogliemmo dalla contemplazione col nostro moto che rendeva irrequieti i loro cavalli. Riprendemmo la corsa velocemente.

Ogni medaglia ha il suo rovescio. Quella collina, che ci aveva offerto uno spettacolo così pittoresco, ci presentò un rovescio disastroso. Il sentiero scendeva precipitosamente in linea retta dalla sommità alla base; era ingombro di pietre, di ciottoli, di sassi, e s’inclinava tutto a sinistra bordeggiando un burrone. Ettore, che guidava, strinse di colpo i due potentissimi freni della macchina e levò la trasmissione. La vettura strisciò per alcuni metri, con le ruote motrici quasi immobili, sobbalzando su ciottoli, finchè impuntò su delle grosse pietre e si fermò. I freni furono gradatamente allentati, ma la macchina non si mosse.

— Bisogna togliere i sassi avanti alle ruote — osservò Ettore.

Il Principe ed io scendemmo per compire questo lavoro. Ma i sassi erano fortemente piantati nel suolo e non riuscivamo a smuoverli. [p. 208 modifica]

— Non fa niente — esclamò Ettore — con una piccola spinta del motore passo sopra alle pietre e vado avanti.

E, detto fatto, abbassò la leva della trasmissione. Per poco quella manovra non condusse ad una catastrofe. La pendenza della strada era così forte, che l’automobile, sorpassato l’ostacolo, si precipitò per la discesa, insensibile al freno a pedale; e, nel breve tempo che Ettore impiegò a stringere anche il freno a mano — il più potente — già la velocità era divenuta troppo grande per poterla dominare. La macchina aveva preso la mano.

Balzava sulle pietre con tale impeto che ad ogni urto la vedevo sollevata in aria. Pareva che scendesse a salti. Si rizzava, a momenti, sulle ruote posteriori come impennandosi, e ricadeva di scoppio; aveva oscillazioni violente che la facevano inclinare sui fianchi; il bagaglio si sfaceva; si udiva un sinistro rumore di ferraglie, un risuonare metallico. Borghese era rimasto aggrampato a quel mostro in furore, e ne era trascinato violentemente e scosso.

Egli si trovava al fianco della macchina quando Ettore fece agire il motore, e vedendola fuggire aveva fatto un rapido tentativo di trattenerla. Per qualche istante, spinto da un irriflessivo e disperato desiderio di salvarla, egli oppose una resistenza accanita ed inutile alla sua discesa. Aveva visto il pericolo, ed istintivamente lottò contro l’inevitabile, mettendovi tutte le sue forze e tutta la sua volontà.

— Frena! Frena! Frena! — gridava intanto.

Non potendo trattenerla, volle accompagnarla. Non si decise a lasciar presa. Attaccato fortemente alla carozzeria, subiva tutti gli sbalzi e tutte le oscillazioni. Ettore taceva. Curvo sul volante raccoglieva tutta l’energia nell’attenzione. Spiava il momento di riprendere il dominio sulla sua macchina. La sua presenza di spirito vinse. Ho già detto che la strada era inclinata verso sinistra; in un punto ove questa inclinazione era molto sensibile, egli virò bruscamente a destra e condusse l’automobile su delle grosse pietre. Essa fece un gran salto, ma rallentò. Pochi [p. - modifica]L’Itala passa ai piedi di un antico tempio cinese vicino a Kalgan [p. 209 modifica] momenti dopo era domata, e finiva la discesa docilmente, ubbidiente alla volontà del guidatore.

La fuga non era durata più di venti secondi, ma ci era sembrata senza fine. Io l’avevo seguita a piedi, correndo e gridando senza sapere bene perchè: Ferma! Ferma! — come se la migliore volontà di tutti non fosse quella di fermare. Raggiunsi l’automobile in fondo alla strada. La macchina ferma spandeva un tanfo d’olio bruciato, e un sommesso rumore di frittura.

— Questa volta l’abbiamo scampata bella! — esclamò Ettore scendendo dal suo sedile e asciugandosi il sudore. — Io non so come sono arrivato qui. Un miracolo! — e volgendosi a me sorridendo: — Ha veduto che salti?

— Altro che! Pareva che volesse sfasciarsi ogni cosa.

— E io lo credevo. C’è stato un momento che ho visto tutto perduto. Pensavo: qui andiamo a finire a pezzi!

— Quale momento?

— Ha osservato che a mezza costa ho voltato un po’ a destra?

— Sì.

— Allora. Ho detto: O va o spacca!

— È andata! Ma i freni non agivano?

— Agiscono, sì, ma per mantenerli bene bisogna metterci molto olio, e non fanno presa subito; scivolano. Per la strada vanno benissimo; ma queste sono strade? Abbiamo “fatto„ tutte le strade delle Alpi, è vero Eccellenza?, e non c’è mai successo niente di simile.

Il Principe sorrideva, guardando la via percorsa in modo così insolito, e pareva tutto assorto a fissarne i ricordi. Vi è sempre una specie di letizia dopo il pericolo. Poi si scosse esclamando:

— Andiamo. È tardi. Stasera vorrei accampare in riva all’Iro.

La macchina fu accuratamente esaminata. Non presentava alcun danno. Ricomponemmo e rilegammo il carico, e, ripresi i nostri posti, partimmo velocemente. [p. 210 modifica]

— Dicono — mi osservò Borghese scherzando — che quando si sono avute due disgrazie in un giorno viene anche la terza.

E avevamo l’aria di sfidarla, quella terza. Che venisse pure. Noi ci sentivamo forti di nuova esperienza; conoscevamo adesso i pericoli della pianura e della montagna. Che cosa potevamo temere? Avevamo torto. Dovemmo accorgercene anche troppo presto.

La terza arrivò.