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214 capitolo X.


— Se si trovasse un cavallo! — disse Borghese. — Se si trovasse un cavallo correrei ad Urga, arriverei nella notte, e domani a sera sarei di ritorno con degli uomini....

Troppo tardi! L’indomani a sera la macchina sarebbe stata già forse sepolta.

— Questa volta è finita! — esclamava il Principe di tanto in tanto, lui che non si scoraggiava mai di nulla. — Adesso è finita! Stamani, quando abbiamo incagliato la prima volta, ero sicuro che ce la saremmo cavata, ma ora...!

E pensavamo già, senza dirci nulla, al lungo viaggio a piedi, per le montagne di Chara-gol, con un sacco sulle spalle, verso Kiakhta, taciturni come dei prigionieri di guerra pieni della visione d’una battaglia perduta.

Il lavoro delle martinette non aveva prodotto altro risultato che di immergere le martinette stesse nel suolo, e di rompere di più la piccola crosta solida che sorreggeva ancora l’automobile. L’affondamento continuava lento, inesorabile.

Il mozzo della ruota posteriore destra era scomparso per il primo. Le assi, il cassone della benzina, il differenziale, s’incastravano sempre più nel fango. I montatoi, che al primo momento stavano a venti centimetri dal suolo, dopo alcuni minuti s’erano piantati a fondo nella terra. La macchina insensibilmente scompariva. Provavamo l’angoscia del naufrago che assiste all’agonia della sua nave. Ci ponemmo alacremente ad alleggerirla. Scaricammo il bagaglio, gli attrezzi, le pneumatiche di ricambio, gettando tutto alla rinfusa sull’erba. E poi non potevamo fare altro, e rimanemmo immobili, cercando ostinatamente un rimedio.

— Prepariamoci un bicchiere di thè — disse Borghese dopo un lungo silenzio.

Quelle poche parole erano quasi un segnale d’abbandono. Fare il thè voleva dire lasciare la macchina, smettere di prodigarle il nostro lavoro inutile.

Un ruscello vicino ci fornì l’acqua, che facemmo bollire con la fiamma della lampada da saldare, e ci facemmo una pentola