La lanterna di Diogene/XII
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XII.
Il camposanto ove nacquero le “Myricae„.
Ieri a mezzodì mi sono perduto — senza alcuna meta prefissa — nel sole e nel verde.
La bicicletta si era fatta automatica, ed io andavo come un sonnambulo.
L’invisibile Dio Pan, quel vecchio tutto a nodi e bitorzoli, a quell’ora soffia su le canne della zampogna o siringa, che già fu Ninfa da lui molto amata; ma il suo canto è soltanto udito dalle cicale che tengono bordone alle rime del vecchio Nume.
È inutile: gli uomini oramai non sentono più la voce degli dei, nè antichi, nè nuovi.
Quand’ecco io vidi davanti a me molte piante di colore e di forma dolente, disposte in forma di croce: erano i cipressi di un cimitero; e allora mi sono ricordato delle parole del carbonaio che appunto è del borgo a cui appartiene quel cimitero: «Il nostro Pascoli — aveva egli detto — adesso è un poeta di fama mondiale». Egli avea detto così proprio, in quel suo ben rude dialetto, mentre versava dal sacco il carbone, e quella luce di rinomanza si riverberava molto riccamente anche su quel borgo di calzolai, che è San Mauro, ed un pochetto anche su la sua fuliggine.
— Gli volete dunque bene voi di San Mauro a Giovanni Pascoli?
— A Zvanèin?... (e fece un gesto da toccare, alto come egli era, il tetto della piccola casa). — Anno, quando venne da noi, gli si andò incontro con la banda. Peccato che venga poco di spesso!
(«Va là, buon’anima di popolo, — pensai fra me, — tu sei ancora quella che conservi una certa verginità»).
Or dunque, ritornandomi a mente le parole del carbonaio, e già che il caso mi vi aveva condotto, volli andare a vedere il cimitero ove riposano i morti di quella povera famiglia dei Pascoli, cui un delitto privò del padre, e altre fosse furono poi spalancate; a cui Giovanni, figlio e fratello, elevò più tardi un così nobile monumento espiatorio di dolorosi canti. I vecchi contadini di questa terra ben si ricordano ancora del signor Ruggero Pascoli, il quale era di professione fattore o ministro di una grande tenuta principesca, e ne dicono ancora assai bene: egli morì assassinato nell’agosto del 1867. Tornava a casa dalla fiera e portava delle pupe o bambole per le sue figliuoline. Una fucilata a tradimento lo trapassò a morte; e fa la cavallina storna che lo portò morto a casa, chè era pronto, per la virtuosa sposa, il desinare. Lo chiamarono, ma non scendeva dal baroccino. La dea Temi ha troppi cartafacci ed ha messo questo crimine, insieme con tanti altri rimasti impuniti, nel suo archivio; ma nel popolo, di quel delitto ancor si ragiona, e se ne fa alcuna chiosa.
Mi ricordai allora di Perpetua che diceva al pauroso Don Abbondio: «Le schioppettate non si danno come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano». Dicea però Don Abbondio: «Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?» Sì! dice bene Perpetua; ma Don Abbondio dice, forse, meglio. I cani feroci — è inutile illuderci — mordono. Se ciò non fanno sempre, è perchè non sempre possono.
Mi venne anche alla memoria un libretto di ricordanze «della propria vita», che scrisse un vecchio prete, il quale fu veramente uomo di santa e semplice vita. Egli, appunto in quell’anno 1867, era curato di quel borgo, e a pagina 157 del suo libretto1, racconta la morte di Ruggero Pascoli con queste parole: «....è da sapere che potei ridurre in un sol corpo i terreni della parrocchia (sparsi qua e là in mezzo alla grandiosa tenuta, detta della T....) per via di una permutazione con altri terreni di proprietà dello stesso signor principe. Era ministro di essa tenuta il signor Ruggero Pascoli. Questo mio amico e compare, era l’uomo più fortunato e più felice ch’io m’abbia conosciuto al mondo. Ministro della vasta tenuta, godeva di questo la confidenza e la protezione. Avea una moglie amorosissima di lui (per nome Caterina Vincenzi), la quale egli tanto riamava quanto immaginare non si potrebbe: anche avea sette figliuoli, tutti pieni d’ingegno e fiorenti di sanità, quattro dei quali teneva in Urbino nel collegio degli Scolopi. Era riverito ed amato, nonchè dai coloni della tenuta, da quanti il conoscevano: onde non avrebbe potuto desiderare miglior condizione di quella in che era posto. Ma che? tanta felicità in uno istante svanì. Il giorno 10 di agosto 1867, verso le ore sei dopo il mezzodì mentre tutto solo egli faceva ritorno a casa dalla fiera, fu colpito da un’archibugiata che lo lasciò freddo cadavere entro la carrozza. Poco tempo appresso morì la sua figliuola primogenita, Margherita; poi il fratello di questa, Luigi; poi la moglie (certamente di crepacuore), e finalmente, dopo alcuni anni, Giacomo, già ammogliato, il figliuol maggiore dei maschi. Ed ecco dispersa, anzi direi quasi, scomparsa dal mondo, una famiglia che parea fosse giunta al colmo dell’umana felicità».
Nè il buon prete vi aggiunge chiosa.
Questo prete, come si comprende da questo passo, era un purista. Tanto fanatico anzi egli era dell’aureo Trecento, che dopo Iddio e la Vergine avrebbe tenuta accesa una lampada votiva al Cavalca, al Passavanti, all’autor dei Fioretti, se non fosse stata empietà. Io lo ricordo questo prete dalla semplice vita perchè nella mia puerizia fui qualche tempo sotto la sua disciplina. Fu uomo di grande carità evangelica e morì ottantenne e poverissimo, or non è molto. Nel tempo che in queste terre dominavano i legati pontifici egli era in odore di liberale. Calunnie! Egli amava la Patria attraverso gli autori del Trecento. Era una patria infantile e dolce come un periodo del Cavalca! Egli la cullava fra le sue braccia, egli l’adorava come si adora il Bambino Gesù! Oh che terrore, povero prete, quando s’avvide che al Bambino Gesù spuntavano i baffi, cioè quando s’avvide che la Patria non era più in fasce, non pargoleggiava più, camminava da sè e la lingua Italiana del Cavalca si era trasformata nella prosa di Alessandro Manzoni. Alessandro Manzoni nelle scuole? Ma dove si andrà a finire, signore Iddio! No! la curia gli amareggiò con gratuita crudeltà la vita serena. Monsignor il vescovo gli sottrasse a torto Dante e il Petrarca. Egli non era un liberale. Era una piccola anima, paurosa della grande vita umana, che per lui era termine equivalente ad una grande malvagità umana. Era per lui la vita una disarmonia fatale, ed egli rifuggiva in cerca di armonia o di bontà entro un fioretto di San Francesco. O quanto mi sdegnai leggendo in quelle sue ricordanze questa narrazione fredda dell’omicidio del signor Ruggero Pascoli! Non un fremito, non una parola di maledizione o ribellione per così barbaro misfatto. Ma come fui in quel cimitero l’animo mio si mutò stranamente. Il misterioso canto del Dio Pan, il ritmo grande e uniforme delle cicale, le molte tombe ripetevano insieme: «Se così è scritto nel libro del mistero, perchè ribellarci? Preghiamo, piuttosto». Ed io sentii che ogni imprecazione era morta in me e che la mia anima era diventata come l’anima di quell’antico prete. Preghiamo piuttosto.
E il libro di Myricae non è una preghiera moderna?
*
Or ecco come entrai nel cimitero: un lungo viale campestre si partiva dalla via maestra ed io voltavo per quello, quando mi avvenne di oltrepassare una donna che procedeva lenta, e domandai:
— Buona donna, è aperto il camposanto?
— Ci ho le chiavi io, — mi rispose agitando un grosso mazzo di chiavi, — e vado proprio nel camposanto a far l’erba.
«Ecco una fortuna, — dissi fra me, — anzi troppa fortuna! Quando io busso alle porte degli uomini, le trovo solitamente chiuse; ma per questa ho trovato la portinaia e le chiavi su la strada medesima. Vero è che in questo caso un antico romano avrebbe fatto uno scongiuro!».
Giunsi al sagrato.
Due colonne di granito sostengono un frontone di greve architettura, mezzo in rovina; e sovrasta un portico cadente, tutto incrostato di lapidi. Sul frontone, in grandi lettere romane, era scritto: «Sancta et salutaris est cogitatio pro defunctis exorare». — Il salutatis lasciamolo là, — dissi mentalmente.
La mia venuta turbò molte schiere di lucertole, che su quelle lapidi, come su buona pesta, facevano scorribande. L’afa era grande come grande era il silenzio; e le scritte mortuarie, stampate e affisse su le pareti di una cappelletta, si staccavano, si accartocciavano e si confondevano lente, così come la memoria degli uomini del pari si accartoccia e, un po’ per volta, si stacca.
Intanto è venuta la portinaia; mette la chiave nella toppa della porta e tira, tira il lungo chiavistello esterno.
— Oh, che diamine, la mia donna, non siete buona ad aprire? e i morti come fanno quand’essi arrivano?
Mi rispose:
— Sappia prima di tutto che d’estate muoiono in pochi in questo paese; e poi adesso i morti entrano dal cancello nuovo, che è più in su. Questo cimitero serve anche per Savignano.
Aprì ed entrammo.
È curioso come la voce ingrandisca nei cimiteri, così grande anzi diventa che si finisce col tacere. Entrai, ed ho camminato su e giù per quel campo desolato, scarso di tavole funerarie e di erbacce. Però quel lezzo di bosso che stagna nell’aria chiusa e calda, quelle due file di cipressi fitti che si urtano a formare una dolorosa croce, sono soffocanti: si respira meglio presso al mare.
O marmorea come il famedio di Milano, o artistica come il cimitero di Pisa, o adorna come un camposanto inglese, o abbandonata come è pur codesta, in verità la scelta dell’ultima dimora da cui non è lecito fare San Martino o San Michele, non è allegra. Non vi sarebbe che fare il becchino per acquistare l’abitudine del luogo. Troppo sole ha la vita per adattarsi alle tenebre! La cosa più semplice era dopo tutto non nascere. Sì, questo è pessimismo, lo so. Ma ho letto anche — e lo credo — che chi è ottimista ha una circonvoluzione cerebrale di meno.
— Buona donna, venite qua, — e la chiamai. — Ditemi un po’, di questi Pascoli di cui qui sono le lapidi, ce n’è rimasto vivo qualcuno?
— Ce n’è uno di questi Pascoli: ma ha abbandonato il paese da tanto tempo e sta lontano, lontano, chi sa dove!
— E sapete che mestiere fa?
— Oh, — disse con grande significazione, — lui è uno che ha avuto giudizio, sì, lui! Ha un posto che sta sopra a tutti.
— Questi sono i Re, la mia donna.
La donna crollò il capo:
— È un posto, per farvi capire, che comanda sopra tutte le scuole.
— Ho sentito dire che lui non viene più a San Mauro, perchè voi di San Mauro siete gente cattiva.
La donna crollò ancora il capo e fece diniego forte con la mano:
— Miga, miga! L’è un’altra storia che non si può raccontare. Bisognerebbe che quelli che sono qui — e indicava i morti che erano in sua custodia — potessero parlare. E invece non parlano niente. Forse avrebbero caro di confessare: ma qui stanno tutti buoni e zitti anche senza nessuno che li badi; invece quand’erano vivi! Ma ci dev’essere uno lassù che fa la cappata!
E segnava anche lei l’immobile cielo.
*
Il piccolo libretto di Myricae è nato qui, — pensai, — in questo campo del riposo senza risveglio e quelle piccole canzoni in origine non furono scritte per le dame e pei letterati, ma per consolare e placare le ombre dei cari morti. Il buon Dio Pan molto lodò quel canto, nato col sapore di questi campi vicini, dove molta storia riposa; e allora insegnò al giovane poeta il secreto dell’anima del pesco che fiorisce; della rondine che svola; della campanella che squilla sul colle selvaggio; insegnò quali suoni convengano alla luce del sole che tramonta o dell’alba che aggioga i buoi nel caldo estate. Distinse per lui l’anima del pino, dell’olivo, del cipresso. Sì, Dio Pan questo insegnò, ma non per le dame o i letterati, ma perchè celebrando la vita delle cose, della rondine, del cipresso, dell’insetto, insomma di tutti i figli della terra, più umili e negletti, potesse parere al poeta che quelli pure che stanno sotto la terra avessero intendimento, onde dicessero: «Grazie, figliuolo, grazie, fratello, della dolce canzone».
Così nacquero Myricae olezzanti e vivi fiori, a Dio Pan carissimi. Questi fiori hanno avuto fortuna al di là di ogni aspettazione. Bisogna pur dimostrare che qualche volta c’è giustizia a questo mondo! «La fortuna, — e Dio Pan sorrideva e parlava col rombo delle melodiose cicale, festanti a coro nel grande silenzio, — la fortuna fa come il baro nel giuoco: fa vincere qualche volta, per allettare gli altri.
«Sì, sì, ebbero fortuna Myricae! Era esso un tempo un libriccino piccino, sconosciuto; conosciuto solo agli amici che sospiravano al sospiro e fremevano al pianto. Ma poi il volume diventò grande, e i bottegai che tengono nelle loro vetrine i grandi fiori di carta e di seta, furono lusingati un po’ per volta di questo fiorellino vivo e vero, di questo arbusto gentile di Myricae. Ma prima non lo volevano per ferro vecchio. Oh, dopo che festa gli fecero! gli comperarono perfino una toilette di gran moda, in sullo stile antico del Cinquecento! Povere Myricae, figlie dei campi e care al Dio Pan, come si trovano però a disagio oggidì in quella acconciatura artificiosa, esse così naturali! Che vuoi? Convenne seguire la moda, figliuolo mio». Così mi parlò il Dio Pan.
— Non viene più a trovarvi, o Dio Pan, il buon poeta che cantò Myricae? — io chiesi.
«Poco, figliuolo, — rombavano le cicale in nome del Dio Pan, — poco e di rado. Che vuoi? La Fama offre oggidì grandi ricevimenti nel suo Grand Hôtel; ed egli non può esimersi più dall’intervenirvi. Ella inoltre lo affatica con molte commissioni, alle quali è fatica dir sempre di no. Credi, figliuolo, — rombavano le cicale forte forte sul mezzodì, — la fama degli uomini ha i suoi inconvenienti. Pensa: Giovanni Pascoli un tempo componeva in ghirlande questi odorosi fiori di Myricae affinchè confortassero le tombe del padre e della madre; e gli amici, leggendo, esclamassero, come esclamavano in fatti: «Quanto dolore!» Questo egli cercò; non d’acquistare fama. Ma il pubblico che dà il danaro per costruire il grande Hôtel della Fama, solitamente non crede (e non ha tutti i torti!) che da terribile verità possa generarsi opera d’arte. Finzione, finzione, bella finzione, leggiadro strazio, eleganti lagrime, tale è il mestiere del poeta: e perciò solo applaude: e tu vieni allora alla ribalta, o poeta, e inchinati sorridendo, e poi il pubblico ti domanderà: «Che cosa state facendo adesso, poeta? A quando un nuovo libro che ci faccia divertire con nuove lagrime, anche più belle?»
Non è facile incontrare il gusto del pubblico, ma una volta incontrato, esso è esigente ed è d’obbligo una certa produzione regolare. Che si direbbe di una rispettabile ditta che rispondesse agli avventori suoi: «Quest’anno non abbiamo produzione»?; ma si rivolgerebbero ad altra ditta in concorrenza.
*
Cantavano le cicale melodiose e Dio Pan seguitava dicendo: «Ad un altro poeta, che fu compagno e amico del Pascoli, io ho insegnato, come a lui insegnai, i segreti della terra e del cielo, del fiore e dell’errante uccellino. Questi, a differenza di quello, non diffuse il gemito della morte nelle sue canzoni, ma il voluttuoso, lieto inno d’amore. Biancofiore la bionda, rido per tutte le sue tenui carte. Ma gli uomini non l’udirono: essi non hanno distinto il canto del rosignolo.
«Di chi parlate, voi, Dio Pan?
«Ricordati di Severino Ferrari!
«Oimè, egli è infermo, Dio Pan, e mal noto agli uomini, — risposi io.
«Ben lo so. Ma impara che non sempre ciò che piace agli uomini piace anche agli Dei».
Allora palpitarono per la grande campagna questi versi:
O Biancofiore, i tuoi riccioli d’oro |
*
Quando quel dì tornai a casa, la minestra era fredda, ma Dio Pan, il vecchio canoro che va errando pei campi, mi aveva insegnato mirabili cose nel canto delle sue cicale.
Note
- ↑ Memorie del prof. Canonico Federico Balsimelli, scritte da lui medesimo, pubblicate per cura di Giuseppe Guidetti. Reggio dell’Emilia, presso Primo Borghi editore libraio, 1899.
- ↑ Il Mago, canto 2.° Questo capitolo fu scritto quando Severino Ferrari era ancora in vita. Ora che egli non è più, e un tenue raggio di gloria sembra rifulgere su la sua tomba, mi è caro avere scritto queste parole.