La lanterna di Diogene/XI
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XI.
I vagabondi.
L’organetto di Cremona, che tutto il mattino aveva percorsa la spiaggia suonando con incredibile fastidio dei miei nervi, ritrovai che riposava finalmente anche lui.
(Non è improbabile che nei grandissimi pomeriggi del caro estate anche il sole riposi alquanto nel mezzo del cielo, giacchè il giorno, il cielo, il canto delle cicale paiono fermi. Certo quel terribile, stridulo organino di Cremona allora taceva).
Il ponte di ferro sospeso sopra il piccolo fiume dal nome glorioso, proiettava dalla parte del mare una fredda ombra. Sotto il ponte, in quell’ombra, l’organetto riposava. Esso era sospeso per le cinghie ad un carrettino a quattro piccole ruote, e attaccato v’era un asinello. L’asinello aveva declinate le orecchie e dormiva. La donna del vagabondo organista, sdraiata sull’erba, dormiva; disteso supino, l’organista dormiva e il suo volto riarso era rivolto alla tenue brezza marina. Una bizzarra linea geometrica, cadendo giù dal ponte e dallo spaldo, divideva nettamente l’ombra dalla luce. Su questa luce il gran pittore del mondo infondeva ardenti tinte di croco e d’oro, preparando la tavolozza del vespero: su quell’ombra sorvolò un brivido di frescura, che si propagò per le erbe e per le chiome dei tamarischi, onde parevano svegliarsi.
Le lunghe orecchie dell’asino declinavano sempre più e parevano due indici dell’interminabile tempo. Ma se le erbe si erano svegliate, nessuno dei tre si svegliò: nessun rumore umano diede segno all’intorno che il tempo sonnolento della siesta fosse per finire.
Sull’alto dell’organetto i due fantoccini che si muovono a tondo al muoversi del manubrio e battono sui timpani i martelletti metallici, parevano attendere l’ora del loro ballo. Con quanta gioia i bambini accorrono per vedere quei due fantocci meccanici; con quanta gioia le ragazze accorrono al martellare dell’organetto! Ma sì: io ho mandato al diavolo il vagabondo organetto e i fastidiosi fantocci. Però pensiamoci bene: io non gioisco più di quei suoni, perchè la mia giovinezza è finita, e sono tanto poco sapiente da inveire contro quelli che di quel suono fanno festa. Noi cominciamo a morire un poco per volta inavvertitamente, e questo lento morire, questo atrofizzarsi ed involversi dei sensi ingenui della gioia noi talora chiamiamo sapienza.
Parva sapientia, che spesso coincide con la crudeltà e con l’egoismo, come io notai in me stesso in quel vespero. Perchè in quel silenzio vidi una scritta a stampa, attaccata all’organetto: essa parlava in nome dei dormienti e diceva: «Giacomo Moroni, rimasto senza una gamba dal 1887, cerca di guadagnarsi la vita con questa industria e si raccomanda al vostro generoso cuore». Perchè intorno non c’era persona, evidentemente quella scritta si rivolgeva a me ed io rappresentavo il «generoso cuore».
Andai dunque in cerca di alcune monete per corrispondere a quella muta captatio benevolentiae, e trovate che le ebbi, stavo per metterle nell’apertura della cassetta, quando...., quando ebbi invidia di quel sonno dolcissimo sotto l’arco di un ponte; ebbi invidia di quei cervelli che si potevano fermare in qualunque momento, come il manubrio dell’organetto, e dissi nel mio cuore: «Non io, ma voi dovete fare elemosina a me!». Ma, dopo alcuno sforzo del pensiero, mi ripresi: «Evvia, non distruggiamo col ragionamento crudele il primo impulso del cuore».
E lasciai cadere le monete.
E la scritta che si raccomandava al «generoso cuore» mi disse grazie!
*
Ma più invidia ebbi di un altro vagabondo.
Avevo intravvisto dietro la siepe una schiena curva d’uomo, coperta da un mantello grigio; e su la schiena un cappellaccio a forma di petaso d’Ermes, posato in modo che parea non vi dovesse essere, tra cappello e mantello, una testa.
«Che roba è?» dissi fra me, e m’accostai. Al mio accostarsi il petaso si voltò e fece muovere in basso il ventaglio d’una gran barba grigia: sì, c’era una testa o almeno c’erano due occhietti e c’era una gran bocca aperta al sorriso, che disse subito parole che non compresi, ma erano ad esuberanza illustrate dai gesti, che dissero: «Voi volete sapere che cosa faccio io qui? Ceno, signore. Questo che ho qui nella palma della mano sinistra, è il companatico, che è formato di puro sale; questo che ho nella mano destra è il pane, che è formato di puro grano; quella che scorre in fondo al fosso, è la bevanda che è pura acqua. A tanta abbondanza e purità io non mi posso accostare senza rendere grazie al Signore, come voi vedete»; e levatosi il petaso, scoprì un piccolo cranio calvo e, deposto il pane, si frugò in seno e ne tolse un pesantissimo crocifisso d’ottone, appeso ad una grossa catena: lo guardò con occhio intenso come i pittori rappresentano i santi; lo baciò, quindi lo ripose nel tabernacolo del seno. «Ora è soddisfatta la vostra curiosità? Avete nulla a rimproverarmi? No? E seguito la mia cena».
Io allora mi sono seduto accanto a lui con senso umile e nuovo di fratellanza nel cuore. Quel sorriso, se non fosse stato un po’ ebete, era degno di un verace filosofo.
Questo mendicante era una specie di mistico. Veniva dalla Spagna, era andato a Roma, poi a Bari, poi ad Assisi, poi a Loreto, ora andava a Venezia.
— E come fai a sapere la strada?
— Preguntando «domandando». Che strano effetto mi fece questo morto verbo latino che fioriva, come voce viva, su le labbra di quel mendicante che veniva dalla Spagna! Che viaggio aveva fatto anche quel verbo! e poi sorridendo sempre, mi mostrò la sua guida. Era una di quelle carte d’Italia che sono congiunte agli orari delle ferrovie. Coll’indice percorse tutto il suo itinerario.
— Hai moglie, mujer? — domandai.
— Muerta, señor.
— Hai figliuoli?
— Muertos, señor.
— Dove dormi, stassera?
— Aquì, señor.
E indicò con tutta naturalezza il vicino campo di grano turco.
*
Ed ebbi invidia della sua sicurezza e della sua libertà. (Questo vagabondo non mi chiese elemosina; ma baciò la moneta che io gli diedi).
*
Questo vecchio, errante, mi richiama ora alla mente un altro suo fratello di vita errante e mistica. Era pur esso un vecchio, scalzo e cencioso, e lo incontrai su la via del Santuario di Caravaggio.
Portava sul capo nudo un’enorme ritorta corona di grosse spine.
A me che m’accostai per interrogarlo, mandò un grido lugubre, senza inflessione, come fanno i muti, e con le mani indicando la sua corona, spiegò: «Ma non vedi che cosa faccio? Io porto la corona delle spine per tutti voi».
*
La notte mi sono sognato quel vecchio muto che portava la corona di spine. Ma quando mi sono destato, avevo lo gocce del sudor freddo giù per la fronte: «Signore, signore! l’orologio non si è fermato, non si ferma; e la morte si è avvicinata!»: l’orologio sul comodino faceva e tic-tac e tic-tac, nel buio.
Mi butto giù dal letto, spalanco la finestra: «Oh, mio Signore! che meravigliose cose!»
Il sole saliva fuori dell’amplesso del mare. Era lo spettacolo di tutte le mattine; ma quella mattina mi fece un effetto....!
Allora il mantice del petto che era chiuso, respirò liberamente.
Lasciamo stare questo «mio Signore»; oramai tutti sanno che il Signore, il quale per gli idioti sta fuori di noi; per gli uomini evoluti si trasferisce dentro di noi. Ciò è molto lusinghiero: peccato che anche essendo piccoli numi, le cose rimangano quelle di prima, e noi ci sentiamo paurosamente soli lo stesso.
Sopratutto rimane la morte, e questa fa venire la pelle d’oca. Usciamo all’aperto!
Da una villetta, nel chiuso e sonnolento mattino, usciva un palpitante scandere di note di cembalo; da un’altra villetta lontana rispondevano altre note, con un’impressione vaga di cuori e di stromenti che si destano anch’essi: poi si facevano più legati quei suoni, sino a salire su, — ma con istento — per le voluttà, di un motivo languido e profondo, che si stendeva per l’aria rosata.
E così andando, mi sono trovato davanti alla bottega di Pirùzz, il tabaccaio.
Lì c’era Giacomo Moroni, col suo organetto e il suo asino.
— Bravo, galantuomo, suonami qualche cosa di molto allegro.
— Che cosa vuole?
— Quello che ti pare, basta che sia roba allegra.
Adattò la manovella alla cassa, e cominciò il suo lento moto di automa.
Dal ventre dell’organo allora sgorgarono i suoni: i ragazzi accorsero dai loro tuguri, e una bimba sta con l’orecchio appoggiato alla cassa, e il suo volto esprime la meraviglia per quegli echi grandi che si generavano dal ventre dell’organo.
Anche la campagna mi pareva attenta; e gli alberelli lontani mostravano desiderio per accostarsi.
In fondo, la selvetta scura dei pini formava un colonnato con dentro il cilestrino del mare: dietro le colonne, cioè dietro i tronchi dei pini, passavano piano piano i barchetti. Oh, l’ebbrezza di quei suoni! Essi mi scoprivano il paesaggio di là dal mare: vedevo Zara fra le verdi isole; e i timidi barchetti diventavano navi da battaglia.
In quel punto Giacomo Moroni si fermò.
— Avanti! — dissi iracondo.
— Ancora?
— Ma sì, ancora!
I suoni sgorgarono ancora, precipitarono: una folata di suoni che diventarono una folata di popolo che correva allegramente verso la morte. «Ma voi, invocate la guerra, sciagurato!» Mio Dio, sì! Ma la colpa è tutta dell’organetto di Giacomo Moroni: io sono un uomo pacifista. Soltanto dovendo scegliere un genere di morte, questo mi pare preferibile.
In quel punto Giacomo Moroni fermò definitivamente il suo braccio.
— Ma avanti, avanti ancora!
— Sì, ma lei sa che ogni suonata sono due soldi? E poi sono stanco.
— Boccalone, te ne dava anche tre di soldi, — gli disse Pirùzz; e a me, col suo sorriso più intelligente: — È pur sempre bello l’inno di Garibaldi! In quel punto venne una mamma, e afferrata la bambinella che stava con l’orecchio sull’organo: — A far l’erba, brutta vagabonda, che è alto il sole! — E aggiunse all’esortazione l’argomento del suo zoccolo duro.