La lanterna di Diogene/XIII
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XIII.
La quaglia e il Nirvana.
La casa del cantoniere.
Quasi tutti i vesperi le mie gambe mi portano là, verso la piccola pineta, lungo il bell’argine della via ferrata, da cui si domina il mare lì presso, ed il monte da lontano; ma quando arrivo alla casa del cantoniere, mi fermo. Non è che io mi voglia fermare: è come un imperativo categorico di questo terribile orologio dell’anima che ho dentro di me, e squilla la fermata davanti alla casa del cantoniere. Quella piccola casetta ride nell’eremo del paesaggio; e quella stazione quieta, accanto a quel binario (umile e pur congiunto ramo di quell’immenso sistema nervoso che fascia la terra con doppia sbarra d’acciaio), mi seduce più di una sontuosa villa.
Io non so che cosa pensi di me quella famigliuola del cantoniere, vedendo questo intruso, fermo lì, fuori del recinto, e che fissa, e sta immobile: mi potrebbero ragionevolmente domandare: «Ma si può sapere che cosa cercate qui?» Invece non mi hanno domandato mai niente e mi lasciano guardare. Un bimbo — lo scorgeva dal vano della finestra a piano terreno — indicava pur me con insistenza alla madre sua, come a dire: «C’è di fuori quello lì!» Quattro occhi di giovanette, apparendo e scomparendo dall’uscio, come testoline di rondini dal nido, devono aver compiuto una specie di indagine sul mio conto.
Avranno pensato: «Chi sarà? Uno che si vuole buttare sotto il treno? No, perchè sono molti giorni che egli si ferma qui: i treni passano ed egli non si è ancora ammazzato. Un vagabondo, un ladruncolo? Nemmeno, perchè non ne ha l’aspetto. Chi potrà mai essere? Eh, chi può essere?»
Le vidi scoppiare in una risata di cuore, poi si ritrassero in casa; parlarono e anche la madre sorrise, assentendo. La risposta era trovata al quesito:
— Un matto!
Così è forse: a chi percorre la dura via della Saviezza, ad un certo punto avviene di essere entrato nei regni della Pazzia. Spiegato così il mio incognito, nelle sere susseguenti il riso delle donne si mutava al mio apparire in sorriso fuggevole di pietà: il bimbo bensì seguitava ad indicarmi.
Così grandi, solenni, eloquenti erano le tacite cose all’intorno, così profondo era il senso di umiltà e di annientamento entro di me, che io cominciai ad acquistare un nuovo senso e, palpitando, a tremare come se la natura mi avesse rivelato il suo essere profondo.
Una stradicciuola saliva sino al passaggio a livello della via ferrata, con due spalliere di pioppi; ma così aerei, così verdi e azzurri, così palpitanti pur nell’aria senza vento, che pareva linguaggio come di foglie che una Sibilla avesse animate della sua verità. Al di là della ferrata, la via scendeva ancora perdendosi fra le dune del mare, coperte di lieve peluria di prato, dove il sole stendeva su ardenti tinte di croco. Più lontana la breve selva dei pini.
La casetta del cantoniere sorgeva presso il cominciar di quei pioppi; e c’erano intorno tutte le cose buone che sono necessarie a chi deve vivere lontano dagli altri uomini: un piccolo forno per cuocere il pane, una catasta di marruche secche, il pozzo con le mastelle del bucato, alcuni filari di uva già nereggiante, quanto bastasse a fare un po’ di vinello per la famigliuola. Davanti, in un rettangoletto di terra, germogliava l’insalata tenera, e, sopra sostegni di canne, gli utili pomidori si pompeggiavano nel loro rosso. Accanto al muro, ristretto da cannucce per frenarne il troppo rigoglio, il rosmarino (ros maris, cioè «rugiada del mare») superbamente fioriva; fioriva il basilico che assorbe l’odor dell’estate, e molte rame di limoncella gareggiavano d’altezza con le mirice.
Sì: io sorpresi me stesso dire a me stesso: «Ma che cosa sto a cercare più nella vita? Ma a quale scopo mi sono insino a questi giorni tanto affaticato nel mio peregrinaggio terrestre? Ma non sarei felice io qui? Io sono seccato a morte di dover ritornare fra poco ad essere dottore, professore, elettore, libero schiavo! Ecco: sventolare la bandiera a questi piccoli treni, non veloci, salutando reverentemente la vita che passa; e godere intanto questa solitudine, questa santissima quiete, dalla quale passerei senza avvedermene, senza contrasto, a più sicura pace, sepolto qui, presso questo mare, con una scritta che io vorrei dettata così: «Exaudiam vocem maris»: ecco la felicità, e altro non chiedo».
Lo so! Se io manifestassi questo desiderio a questa famiglia di cantonieri, ben mi direbbero «pazzo» e senza ritegno. Queste ragazze, forse, sarebbero più contente se potessero andare ad abitare in una tumultuosa via di Torino o di Milano; e il loro padre avrebbe bisogno, per la compiuta estrinsecazione della sua anima, di passare almeno un paio d’ore per giorno in una taverna e quivi discutere de’ suoi diritti con altri ferrovieri. Lo so: ma so che vi è nell’umanità un numero (e forse più grande che non supponiamo) di uomini che se lo potessero, e potessero vincere la superstizione di quella che si dice civiltà e la paura della scomunica che i grandi sacerdoti del progresso lancerebbero, uguale pensiero formerebbero di quello che io penso.
Che altro furono i buddisti della sacra India? Che altro furono gli asceti cristiani, vilipesi dai trenta tiranni del libero pensiero? Che altro sono molti fra i suicidi del tempo nostro? Degli scioperanti dalla vita sociale: disertori di questa miserevole milizia: dei ribelli che non vogliono più recitare la farsa: degli stanchi dello spettacolo dei bussolotti: dei facchini tediati del peso. Ma questo genere di sciopero è biasimato da tutti.
Il Nirvana, la narcosi dell’anima che si addormenta nell’immobilità e nella contemplazione, ist verboten, anche in Italia. E poi, come si potrebbe? Ai nostri orecchi il tram batte la sua furibonda campana; l’officina urla; l’uomo politico arringa davanti al suo baraccone. Il rifugio nel Nirvana è diventato impossibile! Onde è che molti, giunti alla disperazione, si appigliano al partito di farsi saltare le cervella, avvertendo semplicemente il signor questore che sono «stanchi della vita». Dunque niente Nirvana, niente assorbimento nel seno di Brama! Ubbidiamo alle leggi della tirannide sociale e facciamoci cantonieri. Questo è un eremitaggio permesso. Giacchè non è l’idillio che io domando a te, casetta bianca, non è lo stupido «il tuo cuore e una capanna», ma la santa quiete e l’oblio che io chiedo a te, casetta bianca!
Sì, anche senza Nirvana, io avrei — potendo — sùbito e con festa accettato di mutare la mia sorte; e del ridicolo del mondo mi sarei dato minor pensiero che del sibilo del vento. Del mondo? Quattro individui che vi conoscono di persona e due di nome. Miserie! Lasciate che dicano!... E lì, davanti a quella casetta, io fabbricavo la mia felicità di romito, di un Robinson Crosuè in mezzo alla gente, come il bambino giocando con la barchetta sogna il mare, o con la spada di latta si finge e sogna la gloriosa terribile guerra! Quale cura pel sistema nervoso non sapere più chi è ministro, abolire il colletto, ignorare l'esistenza dei giornali, non dovere più sputar dolce e ingoiare amaro!
*
Oimè, tutte queste ricostruzioni furono sconvolte in un momento. Ora dirò come ciò avvenne:
Perchè dalla via ferrata — percorrendo il tratto da me percorso — venne un dì ingrandendo una cosa bianca: era lei, la donna piccola, misteriosa. Quella donna l’avevo sorpresa altre volte nei giorni prima; ma non nei ritrovi, non in alcun crocchio: bensì sola, sempre sola, in giro per la campagna deserta, sotto il sole del mezzogiorno.
*
Molte volte io mi ero fermato per vederla passare, perchè ella era ben strana! Un volto scialbo, glabro, con due labbra sprezzanti, due grandi attoniti occhi, fissi davanti a sè.
Andava scalza e trascinava con moto serpentino certi abiti negletti e cadenti, come persona che si è più coperta che vestita. Così senza calze e in pianelle per la campagna, difendeva il capo ed il volto con un sontuoso cappello alla moda, che teneva le veci di ombrello; perchè dalle falde larghissime cadevano in disordine densi e preziosi veli per ogni lato, candidi ed azzurri, come se mostruosi artefici ragni vi avessero intessute le enormi loro tele.
Magra, piccina ella era: di indefinibile età giovane.
Ma dove avevo io mai veduto costei prima d’allora? Eppure io l’ho veduta.
Ne domandai a qualcuno dei giovani che hanno per mestiere di scovare le donne: ma non ne sapevano nulla; anzi non l’avevano notata, tanto vivea solitaria. Ma un giorno che si fermò dal parrucchiere, il cui garzone, quello che porta Carlo Marx alla catena, accumula per le circostanze anche il mestiere dell’orologiaio (si fermò a riprendere il suo orologio), io mi accostai per sentire il suono della sua voce. Era una voce calda, esercitata, profonda. «Oh, una lira basta!» aveva detto: levò da un borsellino, tanto minuscolo per quanto grande era il cappello, la moneta, la squadrò con gli occhi grandi di miope, la buttò lì e s’allontanò seccata.
Ma io già udii quella voce in grida di Valchiria, in gemiti di cavalla nitrente, io vidi quella zingara già vestita da regina, quella piccola figura già la ammirai sollevarsi, contorcersi sotto il soffio della passione. Dove?
Sul palcoscenico.
Quel minuscolo piede, allora senza calze, difeso da una ciabatta di pezza, che pareva compiacersi nell’insolentire contro la polvere bianca, sollevandola a nembi (disprezzo agli altri, incenso a sè?), dunque vidi calzato di sottile, eretto coturno?
Ma come mai un’attrice di grido, una dea dell’Olimpo, qui? in quest’angolo di terra, ignoto alle guide ed alla geografia?
*
Non ci pensavo più da tempo, quando vidi — dunque — venire avanti per la via da me percorsa, lungo la ferrata, quella piccola personcina stravagante e voluttuosa, col piede scalzo e il gran cappello coi veli. Avanzò, passò, con gli occhi fissi avanti, col volto pallido su cui pareva evaporare l’ombra di un tedio interiore.
Per tre giorni ella percorse il detto cammino, e come giungeva davanti alla casa del cantoniere, il suo occhio non si volgeva a guardare alcuna cosa. Nè la casetta del cantoniere, nè la mia umile persona furono credute degne di uno sguardo. Invano il rosmarino mandò il suo profumo, invano le viole a ciocche occheggiavano a lei. Se ella si fosse fermata a contemplare quell’idillica dimora, avrei forse trovato modo di cominciare qualche discorso, chè molto avrei avuto caro di sentire con quali pensieri ragionava questa celebre interprete delle passioni. Ma non ne fu mai nulla! Giunta alla casetta del cantoniere, scendeva per il viale dei pioppi, e ad ognuno dei lenti passi saltellanti a ritmo corrispondeva un moto e un fremito della sua persona, e perchè non lo dire? corrispondeva un fremito entro di me.
La attesi al quarto vespero, ma non comparve più e non più la rividi. Bensì la rividi con gli occhi della mente: rividi i suoi magnifici ritratti nelle vetrine dei grandi negozi, vidi le stampe, i giornali che con vaporose e sospirate parole narravano le sue avventure. Oh, la pudica morale ben può leggere quelle avventure! Quella leggiadra istriona fu vittima di illustri passioni; fece olocausto di sè, arse in molte fiamme; la delicata sperimentò molte colpe, per poter poi rendere al vivo su la scena gli sdegni, i baci, i sussulti della nevròsi terribile.
Troppo fremevano gli alti pioppi, troppo io fremeva entro di me per non confermarmi nell’opinione che ella non fosse la famosa imitatrice dei grandi spasimi della voluttà e dell’amore. Portava il suo corpo le tracce del faticoso lavoro. «Bene, o donna, dimmi per confessione sincera, quale è il segreto della tua anima — quale è la tua segreta coscienza!» così io, filosofo, avrei voluto chiedere a lei, come già altre volte ho chiesto al sole, al mare, al fiore: «ditemi, o sole, o mare, quale è l’anima vostra». No, ipocrita, io non dico tutta la verità; io avrei voluto anche chiedere: «Concedi — o divina — che io pure gusti il sapore delle carni che vestono la tua anima, e di cui già altri saziasti». Anima? coscienza? pensiero? ombra di tedio interiore? Ma no! Tu sei come il sole che appare, come la terra che feta, tu sei forza soltanto, e immane. Ma anima non sei! ma che tedio! che passione! che coscienza! Sei forza: ecco che cosa tu sei.
Invano è l’eremo, invano è il Nirvana, invano sta il chiostro. Mettevano i monaci antichi le scolte armate attorno alle mura dei conventi: ma Venere ride e penetra. Ed il Beato Angelico, da te, Venere, toglie i volti soavi, e frate Guido toglie dal canto liturgico le note d’amore, e frate Francesco celebra le cose create, e lauda pur sempre te, demoniaca, forza terribile! Disperato Origene si deturpa; s’assorbe il deriso Simone sull’alta colonna. Crollano i conventi dei trappisti e dei buddisti quando tu appari: crollano i sistemi dei filosofi, quando tu ridi! Romba per te il lavoro umano e suona l’officina; l’epopea e la tragedia marciano all’epilogo sanguinoso, e tu col plauso e col canto ne segni il ritmo, o fatale! Ecco Polifemo, il mostro, che si nutre di uomini; eppure — quando Galatea appare sul campo del mare — piange come un fanciullo e cerca su la zampogna umili suoni; ecco Priamo che il sangue dei figli buoni e del grande popolo trova giustamente versato per te, stupida Elena; ecco lo stoicismo sublime del Leopardi che sfuma come nebbia al sole; e di questo asceta moderno, vivrà mirabile nei versi il grido di spasimo quando Venere si compiace di toccare le misere carni con la sua pietra infernale. Oh, miseria dell’uomo! «Va dunque, o stoltissimo, — dissi a me medesimo rincasando, — va e poniti al lavoro e componi un libro di filosofia nuova in cui le ragioni dell’essere siano spiegate come effetto di questa forza immanente, multiforme ed una in tutte le età. Questo sì, è il vero determinismo storico. Ciò già fecero altri filosofi! Ebbene, ritorna da capo».
*
Oh, stoltissimo, in verità, perchè rincasando accigliato e turbato per questi nuovi pensieri, mi abbattei nel signor capitano.
Egli quella sera fumava sereno contro la luna nova, la quale disegnava una placida falce sottile in fondo al cielo azzurro; e le due punte della falce si congiungevano in un esile, quasi invisibile cerchio d’oro.
Mi ricordai subito delle sue teorie sul genio della donna! Ed io che andavo tormentandomi col «determinismo storico», e con «la forza immane»! Ma certamente la piccola attrice è una geniale od una genialoide. Certo anche, su quel lido deserto, essa è una quaglia sperduta. E il signor capitano a’ suoi begli anni e nel mio caso specifico, invece di tante fantasie e chiacchiere, si sarebbe portata a casa quella saporitissima quaglia.
Come ciò è più semplice e più igienico!