Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa del Commissario, con lumi accesi, con tavolini, sedie ecc.

Don Fabio, che taglia al faraone. Il Conte Claudio, che punta al faraone. Donna Florinda e don Faustino a sedere, parlando e amoreggiando fra di loro. Don Ferdinando e donna Aspasia a un altro tavolino, bevendo con bottiglia, bicchieri ecc. Altri due Ufficiali, che puntano al faraone. Altri Ufficiali, che giocano ad un altro tavolino.

Conte. Paroli al sette.

Faustino. Donna Florida, mi permettete ch’io vada a quella banca di faraone ad arrischiar la mia sorte?

Florida. Stupisco che possa venirvi in capo la volontà di giocare.

Faustino. E perchè vi maravigliate?

Florida. Perchè oramai si approssima il giorno. Potete essere di momento in momento chiamato a dar la muta alle batterie. [p. 374 modifica] Potete essere destinato all’assalto della fortezza, a sostenere l’impeto di una sortita, e voi senza pensare al pericolo, senza prepararvi al cimento, avete animo di divertirvi?

Faustino. Che ho da far io per prepararmi al cimento? Partito di casa mia, vestito l’abito militare, cinta la spada al fianco, disposi l’animo fin d’allora ad ogni pericolo ed a qualunque azzardo. Se mi chiamano al campo, so ch’io deggio obbedire. Se mi espongo1 al nemico, so ch’io posso morire; ma so altresì che l’importuna tristizia potrebbe rendere il mio coraggio men forte, e che il pensier del pericolo a nulla serve per evitarlo. Lasciatemi goder in pace questi momenti di vita, e se non vi piace ch’io giochi, consolatemi almeno con la dolcezza de’ vostri sguardi.

Conte. Ho vinto il paroli. La pace al fante2. La pace al fante. (con allegria saltando)

Ferdinando. Tenente, come va il gioco? (al Conte)

Conte. Va bene. La pace al fante. Or ora lo sbanco. La pace al fante. Ho vinto il fante. Ho vinto il fante. Aspettate. La doppia pace al re. La doppia pace al re.

Ferdinando. Bravo, Conte, coraggio.

Conte. Coraggio.

Faustino. Lasciatemi arrischiar due zecchini. (a Florida)

Florida. No, per ora non vo’ che giochiate.

Faustino. Siete padrona di comandarmi.

Conte. Diavolo maladetto, ho perduto la bella posta.

Ferdinando. Come va, Conte?

Conte. Niente, niente. Mescolate le carte. Ora vengo, mi ricatterò. (al tagliatore, e s’accosta a Ferdinando) Un bicchier di Borgogna. (a Ferdinando)

Ferdinando. Sentirete che vino! Regalo di madamigella. (accennando donna Aspasia)

Conte. E che viva madamigella, (assaggiandolo) Buono da cavaliere. Eh, in casa di un commissario di guerra tutte le cose [p. 375 modifica] hanno da esser preziose. Felice voi, che godete la grazia della figliuola.

Aspasia. Che cosa vorreste dire per ciò?

Conte. Voleva dire...

Fabio. Tenente, è fatto il taglio. (al Conte)

Conte. Eccomi. (finisce di bevere, poi corre al tavolino) Sette per dieci zecchini.

Faustino. Ma voi, donna Fionda, mi volete far disperare. Questa è forse l’ultima volta che ci vediamo, e voi con sì poca carità mi trattate?

Florida. Oh cieli! mio padre è il comandante di quella piazza che voi battete. Sorpreso il borgo dalle vostre armi, sono rimasta io prigioniera; è incerto il destino dell’armi, potete perir voi, che tant’amo; può perire il mio genitore che adoro, e mi vorreste ilare e disinvolta? e pretendereste che vi parlassi d’amore?

Faustino. Vi compatisco, ma io sono di animo intollerante. Permettetemi almeno che divertir mi possa col gioco.

Florida. Sì, ingrato. Fatelo a mio dispetto.

Faustino. No, cara, non v’inquietate, non parlerò mai più di giocare.

Conte. Maladetto il sette. Va il sette.

Aspasia. Il Conte perde. (a Ferdinando)

Ferdinando. Perde il meschino, ed io spero di guadagnare moltissimo.

Aspasia. E che sperate di vincere?

Ferdinando. Il vostro cuore.

Aspasia. Mi fate ridere.

Ferdinando. E voi ridete.

Aspasia. Non pensate alla guerra?

Ferdinando. Alla guerra ci pensa il mio generale. Noi subalterni abbiamo da obbedire, non da pensare. Chi non è al campo, non è in pericolo, e tanto vale esser lungi dal campo dugento miglia, quanto dugento passi. Sono ora tranquillo in questa camera, come s’io fossi in luogo dove non si parla di guerra. [p. 376 modifica] Domani andrò al cimento, se occorre; sta notte voglio divertirmi, s’io posso. La vostra compagnia mi diletta; madamigella, siete amabile, siete vezzosa. Alla vostra salute. (beve)

Conte. Oh fortuna indegnissima! ho sempre da perdere? Vada tutto sul sette. Il resto de’ miei danari sul sette.

Florida. Vedete il povero Conte, come è agitato pel gioco; e vi vorreste esporre ancor voi ad una simile agitazione?

Faustino. Avete tanta compassione per me?

Florida. Sì certo; ho della premura per voi.

Faustino. Se fosse vero, sareste meco un poco più compiacente.

Florida. Lo stato in cui ci troviamo, non mi permette di più.

Conte. Primo anche il terzo sette. Contro me tutti i sette? Voglio vedere anche il quarto. Venti zecchini sul quarto sette.

Fabio. Conte, io non tengo su la parola.

Conte. Son cavaliere; sono un offiziale d’onore.

Fabio. Compatitemi; al campo non si gioca sulla parola.

Conte. Prestatemi venti zecchini. (a Ferdinando)

Ferdinando. Vi servirei, se li avessi.

Conte. Prestatemi venti zecchini. (a Faustino)

Faustino. Non li ho, da galantuomo.

Conte. Ehi, chi è di là?

Carluccio. Signore.

Conte. Chiamatemi il commissario. (va al tavolino fremendo, e guardando a giocare.)

Carluccio. Sarà servita. (in atto di partire)

Florida. Ehi. (al caporale)

Carluccio. Signora.

Florida. Che nuove abbiamo dal campo?

Carluccio. 1 nostri hanno principiato a fare la breccia. (parte)

Florida. Povera me! che sarà del mio genitore?

Conte. Ecco il sette secondo. E non ho potuto mettere, e non ho potuto giocare.3 Dov’è il commissario? [p. 377 modifica]

SCENA II.

Don Polidoro e detti.

Polidoro. Chi mi vuole; chi mi domanda?

Conte. Signor commissario, favorite prestarmi venti zecchini.

Polidoro. Venti zecchini?

Conte. Venti zecchini.

Polidoro. Per chi?

Conte. Per me.

Polidoro. Per giocare?

Conte. Per giocare.

Polidoro. Venti zecchini?

Conte. Venti zecchini.

Polidoro. Benissimo.

Conte. Fate presto.

Polidoro. Aspetti un poco. (tira fuori un libretto di memorie)

Conte. Non mi fate perdere la pazienza.

Polidoro. Favorisca. Il signor Conte Claudio, Tenente di cavalleria, deve dare a conto delle sue paghe zecchini 60. (leggendo)

Conte. E venti ottanta.

Polidoro. Favorisca una cosa sola.

Conte. E che cosa?

Polidoro. Una sicurtà.

Conte. A un cavaliere par mio si domanda una sicurtà? Sono uffiziale, son galantuomo, e nell’armata son conosciuto.

Polidoro. Benissimo.

Conte. Benissimo, benissimo, e mi domandate una sicurtà?

Polidoro. Io non le domando la sicurtà del danaro.

Conte. Di che dunque?

Polidoro. Che domani mattina una palla di moschetteria o di cannone non coroni le glorie del signor Conte, e non porti i miei venti zecchini nei fortunati elisii degli eroi militari.

Conte. Se morirò, sarà tutto finito.

Polidoro. Benissimo.

Conte. E se viverò, vi sarò debitore di cento zecchini; a questo patto, me li volete dare? [p. 378 modifica]

Polidoro. Quando c’è il rischio, credo si possa fare.

Conte. Date qui dunque.

Polidoro. Benissimo. (lira fuori il libro)

Conte. (Quel maladetto libro mi vuol far delirare). Aspettatemi, che ora vengo. (al tagliatore)

Fabio. Di qui non parto.

Polidoro. In tutto zecchini cento. (scrive sul libro) Favorisca di porvi la di lei firma. (al Conte)

Conte. Benissimo. (scrive sul libro)

Polidoro. Ecco venti zecchini. (dà il danaro al Conte)

Conte. Obbligatissimo. (In questa maniera i commissari si fanno ricchi). Eccomi qui, tagliate. (al tagliatore)

Aspasia. Serva sua, signor padre. (a Polidoro che vuol partire)

Polidoro. Oh figlia mia, cosa fate qui?

Aspasia. Sto qui un poco in conversazione.

Polidoro. Benissimo. (parte)

Aspasia. Mio padre è il miglior uomo di questo mondo. (a Ferdinando)

Ferdinando. Se io gli domandassi una cosa, vorrei che mi rispondesse benissimo.

Aspasia. Capisco, capisco quello che gli vorreste chiedere, ma prima ch’ei rispondesse, avrei da risponder io.

Ferdinando. E voi che rispondereste?

Aspasia. Se andate alle schioppettate, malissimo.

Ferdinando. E se ritorno sano?

Aspasia. Benissimo.

Ferdinando. Brava, così mi piace. Alla vostra salute. (beve)

Aspasia. Portate un’altra bottiglia. (a un servitore)

Florida. Donna Aspasia ha un bel divertirsi. (a Faustino)

Faustino. La casa di un commissario di guerra è il fondaco dell’abbondanza. L’oro che consumasi nelle armate, non si perde sotterra; cola nelle mani di alcuni particolari, e i commissari ne hanno la maggior parte.

Conte. Non mi restano che tre zecchini. Vadano questi ancora sul sette. [p. 379 modifica]

Florida. Sentite? Se il Conte perde ancor questi, mi aspetto vedere qualche orrida scena. (a Faustino)

Faustino. Non temete; siamo qui in molti, non ardirà di trascendere.

Conte. Oh sette indiavolato! oh sette maladelto! Datemi quelle carte. (stracciandole) Diavolo, porta chi le ha stampate; diavolo, porta chi ha guadagnato; diavolo, porta me che ho perduto.

Aspasia. Or ora dà in qualche bestialità.

Conte. Eh, non importa. Chi ha fatto, ha fatto. Non ci vo’ più pensare. Allegramente. Datemi del Borgogna. Viva la guerra, viva l’amore, viva il buon vino; vivano le belle donne. Vivano i buoni amici, anche quel maladetto tenente che mi ha rovinato.

Fabio. Amico, lagnatevi della vostra fortuna.

Conte. Sì, hai ragione. Vieni qui, ti abbraccio, ti bacio, tu sei un onest’uomo, ed io sono stato una bestia; ora che non ho danari da giocare, voglio far all’amore. C’è loco per me con alcuna di queste signore?

Florida. Eh via, signor Tenente, pensate che dai vostri compagni si batte ora il castello che si difende, e voi quanto prima dovrete essere sostituito.

Conte. Che importa a me di queste malinconie? Si ha da combattere? andiamo. Si ha da montare la breccia? si ha da scalare le mura? son pronto. Fin che sto qui, non ci penso; vo’ divertirmi. Voglio fare all’amore con voi.

Florida. Mi maraviglio. Con me non vi avete a prendere una tal libertà.

Conte. Eh via, che cosa volete fare di quel ragazzo. Io, io v’insegnerò il viver del mondo.

Faustino. Conte, portate rispetto a questa dama.

Conte. Io non le perdo il rispetto; ma se fa conversazione con voi, la può fare, e la deve fare ancora con me. (si mette a sedere vicino a Florida.)

Florida. Questa è un’impertinenza. (si alza) [p. 380 modifica]

Conte. Non mi fate scaldare il sangue. (si alza)

Faustino. Se il sangue vi si riscalda, vi pungerò io la vena per moderarlo.

Conte. V insegnerò io a maneggiare la spada.

Aspasia. Eh! signori, in casa del commissario?

Conte. Sì, in casa del commissario è il luogo dove si scannano gli uffiziali, dove si succhia il sangue delle milizie, e il vostro signor padre per venti zecchini ci permetterà di fare un duello.

Ferdinando. No, caro amico, riflettete al luogo ed al tempo. Guai a voi, se penetra il generale un simil trapasso, sul punto di dover servire ai suoi ordini. Questo non è il tempo a proposito...

Conte. S, è vero. Ci batteremo dopo la battaglia. (a Faustino)

Faustino. Quando vorrete voi. (al Conte)

Florida. Oh cieli! si poco stimate la vita; vi esponete per così poco ai pericoli? Ora non mi sorprende più tanto, che in allegria ed al gioco passiate l’ore che precedono ai militari cimenti. Credei che l’amor della gloria vi rendesse giulivi e solleciti di conquistare il trionfo sotto i comandi di un generale, giudice e spettatore del vostro coraggio. Credei che con eroica indifferenza andaste incontro ad una vittoria illustre, o ad una morte gloriosa; ma or che vi veggo esporre per cagion sì meschina ad una morte ingiuriosa,4 mi fate credere che il fanatismo, più assai che la ragione, vi domini e vi consigli. L’uso che fatto avete di scherzar colla morte, vi rende famigliare il suo nome, e vi esponete ai suoi colpi non per virtù, ma per abito. Se amaste veramente la gloria, dovreste meglio apprezzar la vita per conquistarla, e preferire il debito di buon soldato alla vanità di un imprudente coraggio. (parte)

Conte. Viva la dottoressa. Facciamole una canzona5 per la bella lezione che ora ci ha fatto.

Faustino. Donna Florida favellò con ragione. [p. 381 modifica]

SCENA III.

Don Cirillo e detti.

Cirillo. Allegri, compagni, allegri. Abbiamo fatto tre piedi e mezzo di breccia. (con allegria saltando)

Conte. Come si può sapere, se appena è giorno?

Cirillo. È giorno, è giorno (saltando); in campagna si vede chiaro. Sono stato io fra le batterie. Ho livellato io due cannoni, e ho imboccato un pezzo d’artiglieria del nemico. Oh che bel colpo, oh che bel colpo!

Aspasia. E non avete paura che una cannonata vi porti via l’altra gamba?

Cirillo. Che importa a me della gamba? Per il gusto d’imboccar un cannone darei dieci gambe, se ancor le avessi. Animo, che si sa qui? non si gioca?

Fabio. Abbiamo giocato finora.

Conte. Ed io ho perduto l’osso del collo.

Cirillo. E don Ferdinando?

Conte. Ha bevuto.

Cirillo. Bravo; e don Faustino?

Conte. Ha fatto all’amore.

Cirillo. Bravissimo. Così mi piace; impiegar il tempo in cose allegre, in cose gioconde. Amici, da qui ad un’ora, o due al più, vi tocca montar la guardia alle batterie. I nemici si difendono da disperati. Hanno fatto una sortita da diavoli. Noi li abbiamo respinti, ma ci è costato la perdita di trenta uomini. Gran fuoco ho veduto fare dagli assediati! non ho mai più veduto un fuoco simile. Lo vedrete, lo proverete anche voi. Ma fino che vien quell’ora, divertiamoci, stiamo allegri.

Conte. Sì, stiamo allegri; beviamo.

Ferdinando. Beviamo pure.

Cirillo. Beviamo.

Faustino. Allegramente, beviamo.

Ferdinando. Con licenza della padrona di casa. (ad Aspasia) [p. 382 modifica]

Aspasia. Accomodatevi pure. (Non so come facciano. Pare impossibile quest’allegria, un’ora prima di andare ad esporsi alle archibugiate).

Cirillo. E che viva il nostro Sovrano.

Tutti. E viva. (e bevono)

Ferdinando. E che viva il nostro generale.

Tutti. E viva. (e bevono)

Faustino. E che vivano quelli che ora difendono le batterie.

Tutti. E viva. (e bevono)

Conte. E viva noi, che anderemo a battersi6 coll’inimico.

Cirillo. Viva il primo che salirà su la breccia.

Conte. Il primo voglio esser io.

Ferdinando. A me tocca prima di voi. Il mio reggimento è più anziano del vostro.

Conte. Andrò coi volontati a farmi largo su le trinciere.

Ferdinando. Da voi non mi lascierò pigliare la mano.

Cirillo. Bravi; e viva il vostro valore, e viva il vostro coraggio. Divertiamoci intanto, ecco un violino, (trova un violino sopra un tavolino)

Ferdinando. Madamigella, balliamo. (ad Aspasia)

Aspasia. Balliamo pure.

Conte. Ballate, e noi beveremo.

Cirillo. (Si mette a sedere, lascia cadere le stampelle, e suona un minuè. Don Ferdinando e Aspasia ballano.)

SCENA IV.

Don Fabio e detti.

Fabio. Amici, il generale ha intimato un consiglio di guerra. Sono già ragunari nelle sue tende tutti gli ufficiali dello stato maggiore, e vuole che tutta l’altra ufficialità stia sull’armi.

Ferdinando. Sapete di che si dee trattar nel consiglio?

Fabio. Trattasi di deliberare l’assalto generale della piazza nemica. (odesi il tamburo) Andiamo. (parte) [p. 383 modifica]

Conte. All’assalto, all’assalto. (corre ela saltarido)

Citillo. All’assalto, all’assalto. (saltando colla sedia)

Ferdinando. Al cimento. (parte)

Faustino. Alla gloria. (parte)

Cirillo. Ehi, favoritemi le mie stampelle. (ad Aspasia)

Aspasia. Eh via, don Cirillo. Voi siete esente dalle fatiche. Riposatevi, che ne avete bisogno.

Cirillo. Datemi le mie stampelle. (con sdegno)

Aspasia. Non vi voglio dar niente. (parte)

Cirillo. Maladettissima. Sì, voglio andare al fuoco, al cimento, alle cannonate. (saltando colla sedia, e parte)

SCENA V.

Altra camera nella casa suddetta.

Polidoro solo.

Poh! gran bella cosa è la guerra! Io ne dirò sempre bene, e non vi è pericolo che mi esca un voto dal cuore per desiderare la pace. Direbbe alcuno, se mi sentisse, tu prieghi pel tuo mestiere, come la moglie di quel carnefice pregava il cielo che si aumentassero le faccende di suo marito. E bene, chi è colui nel mondo che non desideri, prima d’ogni altra cosa, il proprio vantaggio? Le liti danno da vivere agli avvocati, le malattie ai medici, e chi è quel medico, o quell’avvocato, che vorrebbe tutti gli uomini sani, e tutte le famiglie tranquille? Se non vi fossero guerre, non vi sarebbero commissari di guerra, e chi è colui, che potendo mettere da parte centomila scudi in quattro o in cinque anni di guerra, volesse per carità verso il prossimo desiderare la pace? Esclamano contro la guerra coloro che vedono desolare le loro campagne, non quelli che per provvedere l’armata vendono a caro prezzo il loro grano ed il loro vino. Si lamentano della guerra i mercanti, che soffrono il danno dell’interrotto commercio; non quelli che servono al bisogno delle milizie, e guadagnano sui generi, o sul [p. 384 modifica] danaro, il venti o il trenta per cento. Piangono per la guerra quelle famiglie che perdono per disgrazia il padre, il figlio, il parente; non quelle che se li vedono tornare a casa ricchi di gloria, e carichi di bottino. Si lamentano della guerra talvolta i soldati, e gli uffiziali ancora, mancando loro il bisogno; non si lamenta già un commissario, come son io, che nuota nell’abbondanza, che lucra sulle vendite e nelle provviste, e che col crogiuolo della sua testa fa che coli nelle sue tasche l’oro e l’argento di tutta quanta un’armata.

SCENA VI.

Orsolina e detto.

Orsolina. Serva, signor commissario.

Polidoro. Oh garbata Orsolina, che fate qui a quest’ora?

Orsolina. Vengo a rendervi conto del guadagno di questa notte.

Polidoro. Benissimo.

Orsolina. Ecco la lista di quello che si è venduto. Sessanta fiaschi di vino di Chianti; trenta bottiglie di Borgogna; sedici boccie di rosolino, ventidue libbre di acquavita gagliarda, quaranta libbre di tabacco da fumo, ed una cassa di pippe.

Polidoro. Benissimo.

Orsolina. Vi ho portato i danari del capitale che voi mi avete per grazia vostra prestato, e circa al guadagno, alla vostra cortesia mi rimetto.

Polidoro. Quanto ci avete voi guadagnato?

Orsolina. Son donna leale, e sono pronta a dirvi la verità. Sul vino ci ho guadagnato il doppio. Sui rosolini il terzo, e sulle altre cose due terzi.

Polidoro. Benissimo. Siete voi di quelle che dicono mal della guerra?

Orsolina. Per me ne dico tutti i beni del mondo. Io era una povera lavandaia. Son venuta al campo con mio marito per [p. 385 modifica] vivandiera. Sono rimasta vedova, voi mi avete assistito, e col mio ingegno e colla vostra assistenza spero, tornando a casa, di poter vivere da signora.

Polidoro. Benissimo.

Orsolina. Volete incontrare il danaro che vi ho portato?

Polidoro. No, gioia mia, tenetelo, custoditelo, aumentatelo. Volete dell’altro vino? ve ne darò. Volete dell’altra roba? vi provvedere. Guadagnate; fatevi ricca. Mi piacete; vi voglio bene; amo le persone di spirito; stimo chi sa far il molto col poco. Ho fatto così ancor io, e terminata la guerra, se mi risolvo di prender moglie.... Basta, credetemi che vi voglio bene.

Orsolina. Oh signore, vorreste che una povera lavandaia si lusingasse di divenir commissaria?

Polidoro. Che lavandaia! Siete ora una mercantessa. I denari fanno dimenticare il passato. Sentite, in confidenza, chi credete che fossi io, prima di essere commissario? Ve lo dirò fra voi e me in segretezza per animarvi a sperare, per levarvi ogni scrupolo della vostra condizione passata. Io era un povero tamburino. Sono passato a far il garzone di un vivandiere; mi avanzai dieci scudi, ho comprato un asino, ed ho trafficato all’armata. Ho fatto dopo il condottiere di muli, poi son passato a magazzeniere7 de’ grani. Mi sono poscia interessato nei forni. Di là sbalzai ad essere provvisioniere. Andò bene il guadagno, mi regolai con prudenza, mi feci benvolere dai generali; ho saputo spendere con giudizio, ho regalato a tempo, e sono finalmente arrivato al grado di commissario di guerra. Ah! cosa dite?

Orsolina. Dirò come dite voi. Benissimo.

Polidoro. Il più bel matrimonio di questo mondo è quando si marita col danaro il danaro.

Orsolina. Ma io non posso avere ricchezze.

Polidoro. Se non ne avete, ne potete fare. Stimo più una donna che in un giorno sappia guadagnare un paolo, di una che abbia [p. 386 modifica]uno scudo al giorno di entrata. Le rendite sono soggette a disgrazie. L’industria si sa difendere in ogni tempo. Parlo bene?

Orsolina. Voi parlate da quell’uomo che siete. In avvenire cercherò di moltiplicare il guadagno. Farò che mi frutti bene il danaro che mi lasciate. Alzerò nella mia bottega due o tre banche di faraone; m’interesserò nelle banche, e guadagnerò nelle carte e nel gioco. Comprerò delle scatole e degli orologi dai giocatori. Presterò qualche danaro senza pericolo, e colla speranza di profittare. Tutte cose che in un’armata fanno arricchire prestissimo; non è egli vero?

Polidoro. Benissimo.

Orsolina. E vi renderò conto di tutto quello ch’io faccio.

Polidoro. Benissimo.

Orsolina. E quando sarà terminata la guerra...

Polidoro. Vedo colà due sergenti che aspettano. Orsolina mia, a rivederci. (in atto di partire)

Orsolina. Non vi scordate di me.

Polidoro. Non vi è dubbio. (come sopra)

Orsolina. Credetemi, che anch’io ho dell’amore per voi.

Polidoro. Benissimo. (come sopra)

Orsolina. E sarete contento di me.

Polidoro. Benissimo. (parte)

SCENA VII.

Orsolina, poi Aspasia.

Orsolina. Questa, per dire la verità, sarebbe per me una gran sorte, che avessi tutto ad un tratto a divenire illustrissima. Chi sa? mi par di essere su la buona strada. Oh benedetta la guerra! alla guerra soltanto si possono vedere di questi balzi impetuosi della fortuna. Ma ecco la figliuola del commissario; conviene ch’io studi di guadagnarmi l’animo di costei, per non avere un nemico in casa.

Aspasia. Cosa volete qui? che cercate? chi domandate?

Orsolina. Cercava di lei, illustrissima signora. [p. 387 modifica]

Aspasia. Sì, buona giovane, in che cosa posso servirvi?

Orsolina. Ho bisogno della di lei protezione.

Aspasia. Comandate.

Orsolina. Tengo, com’ella sa, una piccola bottega aperta. Guadagno qualche cosetta; sono perciò invidiata, sono perseguitata. È vero che ha qualche bontà per me l’illustrissimo signor commissario, ma desidero ancora il patrocinio di vostra signoria illustrissima.

Aspasia. Poverina! che cosa vendete nella vostra bottega?

Orsolina. Un poco di tutto. Vini, acquavite, rosolini sono i maggiori miei capitali; ma tengo ancora delle galanterie. Osservi quest’astuccio quant’è bellino.

Aspasia. Bello, bello davvero.

Orsolina. È d’Inghilterra.

Aspasia. Si vede. Mi piace infinitamente.

Orsolina. Vossignoria illustrissima è di buon gusto.

Aspasia. Non ho mai veduto un astuccio, che più di questo mi vada a genio.

Orsolina. (Capisco, se n’è innamorata. Ma la voglio far un poco penare).

Aspasia. (Se vuole la mia protezione, me lo dovrebbe donare).

Orsolina. Vede quante belle cose vi sono dentro? (lo apre)

Aspasia. È veramente maraviglioso. Quanto costa?

Orsolina. Chi lo vuole, vai sei zecchini.

Aspasia. Sei zecchini! non vi vergognate chiedere sei zecchini di quest’astuccio? È bello, lo avrei comprato, ma non merita questo prezzo. Ora capisco di che temete. Vendete la roba al doppio di quel che costa, e vorreste ch’io proteggessi un’usuraia, una fraudolente? Lo dirò io stessa a mio padre, vi farò chiudere la bottega, vi farò scacciar dall’armata. Le robe si hanno da vendere a giusto prezzo. Vogliamo il giusto, ed io non proteggerò un’ingiustizia.

Orsolina. Perdoni, illustrissima signora: ho detto che, chi lo vuole, val sei zecchini: ma non ho già pensato che ella lo volesse comprare. S’ella lo comanda, si serva8. [p. 388 modifica]

Aspasia. Ed a che prezzo?

Orsolina. Mi basta l’onore della di lei protezione.

Aspasia. Oh questo poi...

Orsolina. Senta, signora. Glielo dico con sincerità. Li vendo sei zecchini; ma mi costano molto meno. Si degni di riceverlo in dono, e lasci il pensiero a me di ricattarmi con qualcun altro.

Aspasia. Povera donna! chi paga, e chi non paga. Quanti verranno a prendere la roba vostra, prometteranno pagarla, e vi gabberanno. Siete poi compatibile, se alterate il prezzo cogli altri.

Orsolina. Così diceva ancor io. Per ciò mi raccomando a vossignoria illustrissima.

Aspasia. Sì, cara, non dubitate, che sarò sempre per voi.

Orsolina. Mi raccomandi all’illustrissimo signor padre.

Aspasia. Lo farò di buon cuore. Ehi, se vi viene qualche cosa di bello, fatemela un po’ vedere.

Orsolina. Sarà servita. (Sono una donna generosissima). (parte)

SCENA VIII.

Donna Aspasia, poi Florida.

Aspasia. Quando posso, mi piace di far del bene. Questa povera donna s’ingegna, e si vede, poverina, che è di buon cuore.

Florida. Ah donn’Aspasia, soccorretemi per carità.

Aspasia. Che avete donna Florida, che vi vedo così agitata?

Florida. Non lo sapete, che ora si tien consiglio di guerra?

Aspasia. Che importa a me del consiglio di guerra? All’armata ne fanno continuamente, ed io non ho nemmeno curiosità di domandare di che si tratta.

Florida. Ah, si tratta presentemente dell’ultimo destino della mia patria, e della vita forse anco del povero mio genitore.

Aspasia. Avreste piacere che la piazza si difendesse, che i nostri perdessero, e che fossero tagliati a pezzi?

Florida. Non ho l’animo così crudele. Vorrei la pace, non l’eccidio delle persone. [p. 389 modifica]

Aspasia. Poverina! il vostro cuore è diviso. Mezzo l’avete qui, e mezzo nella fortezza.

Florida. Voi mi rimproverate l’amore per don Faustino. È vero, amo questo giovane cavaliere. La divisa ch’ei porta di mio nemico, dovrebbe far ch’io l’odiassi; ma le adorabili sue qualità mi hanno penetrato, ad onta d’ogni difesa. Conto per mia fortuna, che il genitore vostro, commissario di guerra, prendendo in casa mia il suo quartiere, mi abbia resa men dura la carcere colla vostra amabile compagnia.9 Col mezzo vostro s’introdusse qui don Faustino. I suoi begli occhi, le sue dolci parole, la compassione che mi mostrò de’ miei casi, in dieci giorni mi hanno assoggettato ad amarlo. Mi lusingava il crudele, non so se per deridermi, o per consolarmi, che la pace vicina avrebbe troncato il filo de’ miei timori, e rivedendo libero il padre, avrei potuto sperare un amico alla patria nel mio più tenero amante. Ma oh Dio! tutto al contrario. La guerra più che mai inferocisce, la piazza è battuta, la breccia è aperta, e trattasi ora di volerla prendere per assalto. Tremo al pericolo di mio padre; tremo, ve lo confesso, per quello ancor dell’amante; e il cuore combattuto da due passioni prova in se stesso i fieri colpi delle due armate nemiche, e chiunque vinca, e chiunque perda, mi rende orribile niente meno e la perdita e la vittoria.

Aspasia. Davvero vi compatisco. Non siete avvezza all’armata, e per ciò siete ancor suscettibile di ogni apprensione. Io che sono assuefatta da qualche tempo alla guerra, ho indurito il cuore per modo che più non sento passione alcuna. Saranno morti in battaglia più di cento uffiziali, che spasimavano per amor mio. Su le prime mi dispiaceva la perdita di qualcheduno, ora tanta specie mi fa sentir a dire: il tale è restato morto, come se mi dicessero, che ha perduto al gioco. In fatti la guerra non è altro che un gioco della fortuna. Salvo la direzione dei comandanti, e l’intrepidezza dei subalterni, in guerra viva [p. 390 modifica] la morte è un caso. Le cannonate, le archibusate10 non si misurano: tocca a chi tocca. Può vivere il più poltrone, e può morire il più valoroso. Per questo, quando tratto cogli uffiziali che hanno d’andar a combattere, mi par di trattare con delle ombre: onde, senza aver passion per veruno, li tratto tutti egualmente; li lascio andare a combattere senza pena. Mi rallegro con chi ritorna, mi scordo di chi ci resta, scherzo coi vivi, e non mi rammarico degli estinti.

Florida. Felice voi, che ammaestrata dall’uso, ed aiutata da un ottimo temperamento, sapete trattare con indifferenza le cose più melanconiche e serie. Non so per altro, come sapreste esimervi dal cordoglio, se vedeste in pericolo vostro padre.

Aspasia. Veramente in questo caso non mi sono trovata mai, mentre noi andiamo alla guerra con tutto il nostro comodo, e senza arrischiar la pelle. Ma se mio padre fosse soldato, e morisse in battaglia, mi spiacerebbe assai meno di quello mi dolerebbe sei morisse di malattia sul suo letto. Finalmente una volta sola si muore, e i spasimi di un ammalato li credo più dolorosi degl’incomodi di un soldato, e veder uno morire a poco a poco reca maggior rammarico che sentir a dire egli è morto.

Florida. Si conosce che la conversazione de’ militari vi ha insegnato a pensare diversamente. Così non parlereste, se non aveste seguitata l’armata. Ed è vero, verissimo, che l’educazione contribuisce non poco a formar la mente ed il cuore. Sono anch’io figliuola di un capitan valoroso. Don Egidio mio padre nacque cadetto di sua famiglia, ed impiegossi nel militare. Morto il di lui fratello, rimase solo, fu obbligato a legarsi con una moglie, ma non per questo rinunziar volle all’esercizio dell’armi. Io fui l’unico frutto delle sue nozze, e fino all’età presente educata fui in un ritiro. Invasa questa provincia dalle vostre armi, fatto il mio genitore castellano della fortezza, pensò ad allontanarmi dal pericolo di un assedio, e mentre in questa casa medesima si disponeva per altra parte il mio accompagnamento, [p. 391 modifica] giunse improvvisa la vanguardia del vostro esercito. Mi lasciò sul momento l’intrepido genitore, addio mi disse partendo, e andò a chiudersi alla difesa di quella piazza, che è al suo valore raccomandata. Vedete dunque, che tutto nuovo mi giunge ciò che alla guerra appartiene; e più di tutto mi sta nell’animo il pericolo di mio padre, e vedendolo avvicinarsi, tremo a ragione, e non ho l’intrepidezza che voi vantate, nè posso averla, e permettetemi ch’io lo dica, una figlia non dee sentirla; poichè a fronte dei vostri eroici divisamenti, la natura si scuote, l’amor ragiona, il sangue opera, e ogni dovere a tremare ed a rammancarsi consiglia.

Aspasia. Io vorrei pure colle mie ragioni divertire dal vostro animo la tristezza. Ma vedo che non mi riesce.... Oh via, donna Florida, grazie al cielo, se io non vaglio per consolarvi, viene ora chi potrà farlo meglio di me.

Florida. E chi viene?

Aspasia. Don Faustino.

Florida. Voglia il cielo ch’ei mi consoli con qualche lieta notizia. Oh, mi recasse don Faustino il lieto annunzio di pace.

SCENA IX.

Don Faustino e dette.

Faustino. Eccomi a voi, adorata mia donna Florida.

Florida. È terminato il consiglio di guerra?

Faustino. Sì, è terminato.

Aspasia. Fate ancor noi partecipi di qualche nuova.

Faustino. Sì, ecco la determinazione del pien consiglio. Si darà l’assalto alla piazza, si salirà per la breccia, e quando non si arrenda il presidio, sarà prigioniero di guerra.

Aspasia. Bella nuova per donna Florida!

Florida. Ah ingrato! ah crudele! e con tanta indifferenza venite a recarmi in faccia una nuova per il cor mio sì funesta?

Faustino. Come! non desiderate voi stessa il termine della presente campagna? Fin che dura l’assedio, lusingarvene non [p. 392 modifica] potete. Decida una giornata e del valore e della fortuna delle armi. Figuratevi di veder vostro padre sul margine della breccia colla spada in mano ad animare il presidio a respignere gli assalitori. Figuratevi veder me stesso degli aggressori alla testa col brando nella destra, con una scala nella sinistra, scendere nella fossa, appoggiare la scala ai muri, salir per le rovine della fortezza, e fra la grandine delle palle nemiche giungere a fronte dei difensori, ed incontrandomi nel castellano...

Florida. Ah barbaro, ricordatevi che il castellano è mio padre.

Faustino. Sì, donna Florida, amo e rispetto quel genitore che diede alla luce il più beli’idolo de’ miei pensieri. Bramo conoscerlo, bramo di baciargli la mano, e di gettarmi a’ suoi piedi, e domandargli la cara figlia in isposa. Ma fin che siamo nel campo, fino ch’ei ci disputa la vittoria, fin che dura all’ostinata difesa della sua piazza, lo considero mio nemico, bramo di soggiogarlo, e farei lo stesso s’ei fosse padre di me medesimo. Un uffiziale onorato giura al suo Sovrano una fedeltà illimitata, spogliasi d’ogni altro affetto a fronte della sua gloria, e preferisce ad ogni altro bene di questa vita l’onore, il merito e la vittoria.

Aspasia. Sentite? Con questi discorsi tutto dì nell’orecchie, non volete che anch’io divenga un’eroina per forza? (a Florida)

Florida. Con queste immagini di fortezza, di fedeltà, di onore, perchè venite a presentarvi ad un’infelice? Vi compiacete del mio dolore? venite a posta per insultarmi?

Faustino. No, cara, vengo a darvi un addio, che sarà forse l’ultimo ch’io vi reco.

Florida. Oimè! temete dunque voi stesso di mai più rivedermi?

Aspasia. Non volete ch’ei tema? Mi par di sì. Ha d’andare all’assalto di una fortezza, e ora non si usano più elmi, scudi e petti di ferro. Ha d’andare snello, così come lo vedete, sotto una tempesta di schioppettate, e si ha da rampicare sui muri, e sopra di lui scaricheranno pietre, ferri ed artiglierie, e se lo colgono, schiavo, signor alfiere, non si trovano più nemmeno le di lui ossa. [p. 393 modifica]

Florida. Ah tacete, per carità. Mi dipingete il suo pericolo con sì neri colori, e avete cuore di accompagnarli col riso?

Aspasia. Non lo sapete? Sono avvezzata; è forza dell’educazione.

Faustino. Donna Florida, accompagnatemi almeno in questi ultimi estremi con uno sguardo pietoso.

Florida. Andate, barbaro, andate, e se v’incontrate col mio genitore, scordatevi ch’io gli son figlia.

Faustino. È scritto in cielo il destino delle nostre armi. Possiamo essere vincitori, restar possiamo perdenti. Io posso vincere, e incontro con indifferenza il mio fato, più assai di quello sdegno che mi minacciano gli occhi vostri. Deh donna Florida, amatemi, compatitemi, conservatemi quella bontà con cui soffriste gli affetti miei; giuro, s’io sopravvivo, di amarvi sempre, di essere tutto vostro, di rendervi, per quant’io posso, felice.

Florida. (Ahimè! che fiero incanto al mio cuore!)

Aspasia. (Eccolo lì; colla morte intomo vuol far ancora l’innamorato).

Faustino. Ditemi una dolce parola, che mi consoli. Andrò più intrepido alla battaglia, coll’onesta immagine dell’amor vostro, e il punto in cui vi parlo d’amore, può assicurarvi della purità del mio foco.

SCENA X.

Carluccio e detti.

Carluccio. Presto, signor alfiere. Tutti sono sull’armi, e il primo segno dell’assalto è già dato.

Faustino. Donna Florida, addio. Permettetemi ch’io vi consegni il mio orologio, la mia tabacchiera, gli anelli, il mio danaro; se vivo, siatene depositaria; se muoio, disponetene come vi pare. Amatemi, s’io ne son degno, e sia di me quel che destinano i cieli. (parte col caporale)

Florida. Oimè, fermatelo. (ad Aspasia)

Aspasia. Non vi è pericolo che s’arresti. Il tamburo ha l’abilità di far scordare ai soldati tutte le altre cose di questo mondo. [p. 394 modifica]

Florida. E perchè ha egli lasciato qui questi arredi?

Aspasia. Perchè, se muore, ne disponiate voi a vostro piacere.

Florida. Ah no, non fia mai vero ch’io soffra la vista di questi oggetti così lugubri e funesti. Pur troppo sento nell’anima il fier dolore, senza che oggetti nuovi me lo risveglino. Povero don Faustino, infelice mio padre, ahi sventurata me più di tutti! (parte)

Aspasia. S’ella non vuol questi mobili, li prenderò io. Ne sarò io la depositaria, e se muore l’alfiere, accetterò io in vece di donna Florida il benefizio del militare suo testamento, (parte)

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Ed. Zatta: espongono.
  2. Ed. Zatta: Pace al fante.
  3. Nelle più vecchie edizioni c’è soltanto una virgola.
  4. Così il testo. Forse ingloriosa.
  5. Zatta: canzone.
  6. Così il testo.
  7. Così il testo.
  8. Edd. Pasquali, Zatta ecc.: si servi.
  9. Nelle edd. Pasquali. Zatta ecc. c’è qui una semplice virgola.
  10. Ed. Zatta: archibuggiate.