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LA GUERRA 393

Florida. Ah tacete, per carità. Mi dipingete il suo pericolo con sì neri colori, e avete cuore di accompagnarli col riso?

Aspasia. Non lo sapete? Sono avvezzata; è forza dell’educazione.

Faustino. Donna Florida, accompagnatemi almeno in questi ultimi estremi con uno sguardo pietoso.

Florida. Andate, barbaro, andate, e se v’incontrate col mio genitore, scordatevi ch’io gli son figlia.

Faustino. È scritto in cielo il destino delle nostre armi. Possiamo essere vincitori, restar possiamo perdenti. Io posso vincere, e incontro con indifferenza il mio fato, più assai di quello sdegno che mi minacciano gli occhi vostri. Deh donna Florida, amatemi, compatitemi, conservatemi quella bontà con cui soffriste gli affetti miei; giuro, s’io sopravvivo, di amarvi sempre, di essere tutto vostro, di rendervi, per quant’io posso, felice.

Florida. (Ahimè! che fiero incanto al mio cuore!)

Aspasia. (Eccolo lì; colla morte intomo vuol far ancora l’innamorato).

Faustino. Ditemi una dolce parola, che mi consoli. Andrò più intrepido alla battaglia, coll’onesta immagine dell’amor vostro, e il punto in cui vi parlo d’amore, può assicurarvi della purità del mio foco.

SCENA X.

Carluccio e detti.

Carluccio. Presto, signor alfiere. Tutti sono sull’armi, e il primo segno dell’assalto è già dato.

Faustino. Donna Florida, addio. Permettetemi ch’io vi consegni il mio orologio, la mia tabacchiera, gli anelli, il mio danaro; se vivo, siatene depositaria; se muoio, disponetene come vi pare. Amatemi, s’io ne son degno, e sia di me quel che destinano i cieli. (parte col caporale)

Florida. Oimè, fermatelo. (ad Aspasia)

Aspasia. Non vi è pericolo che s’arresti. Il tamburo ha l’abilità di far scordare ai soldati tutte le altre cose di questo mondo.