La frusta teatrale/XII. Extravagantia
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XII
Extravagantia1
La mandragola di N. Machiavelli (5 agosto 1922):
«E se questa materia non è degna
Per esser più leggeri
D’un uom che voglia parer saggio e grave
Scusatelo con questo che s’ingegna
Con questi van pensieri
Fare il suo triste tempo più soave
Perchè altrove non ave
Dove voltare il viso;
Chè gli è stato interciso
Mostrar con altre imprese altra virtue
Non sendo premio alle fatiche sue».
Nonostante questa esplicita e limpida professione di disinteresse creativo, che saggiamente fu accolta dal Gaspary e dal Graf nella loro critica, nessuno dei più recenti studiosi del Machiavelli (nè il pedantissimo Flamini, nè l’Osimo, più misurato e assennato, nè U. G. Mondolfo talvolta ardito e vigoroso) ha rinunciato a ripetere, sia pur incidentalmente, lo sciocco pregiudizio che il M. intendesse nella sua favola scrivere la satira dei frati e dei cattivi costumi cinquecenteschi. Ripetendo queste banalità il critico si preclude la via ad afferrare il ritmo obbiettivo della fantasia comica e riporta arbitrariamente alle sue idee di morale e di costume un’armonia artistica assolutamente estranea a qualsiasi valutazione fissa ad un criterio di umanità o di verità.
Il prologo del M. è ancora autobiografia. Indica una intenzione: perciò non è coerente con lo svolgimento e non è neanche un frammento artistico per sè, a causa della fretta un po’ nervosa.
Il prologo autentico è la prima scena tra Callimaco e Siro. S’imposta un vero e proprio giuoco fantastico, una partita di scacchi. Si ragionano, si valutano tutte le forze. Callimaco è l’impulso dialettico che darà vita all’azione: Siro l’osservatore dei risultati, il critico obbiettivo dell’intrigo che resta perciò quasi sempre equilibrato, come il frutto di un’arte e non di una passione. C’è tutta la commedia in sintesi: e c’è — questo più importa — il tono che devono conservare l’uno rispetto all’altro i personaggi. Callimaco non è l’automa Cleandro della «Clizia»: soverchiato dalla passione, si limita con l’ininterrotta autocritica: si sente sotto tutti i suoi atti, sotto le sue stesse intemperanze una giustificazione ragionata, un equilibrio. E’ esterno a se stesso quel tanto che basta per avere rapporto con gli altri personaggi, per partecipare, senza divenire un burattino, all’azione: che è l’esplicarsi in perfetta indipendenza di un’arte, non il confuso groviglio di interessi. Usando un linguaggio pittorico si direbbe che Machiavelli sa conservare la giustezza delle tonalità, qualità sovrana che manca al Goldoni; perciò nel Goldoni l’intreccio diviene intrigo e il carattere è astratto, è la deformazione di una fotografia; continuando la metafora: Goldoni non ha saputo risolvere nella creazione dei suoi ambienti il problema della luce: il trucco di una concentrazione di effetti va a scapito dell’architettura e dei particolari. Goldoni sta a Machiavelli come l’esile Pietro Longhi a Carpaccio. (Dedico questa parentesi ai goldoniani che non hanno capito la grandezza della «Mandragola»: per es. S. D’Amico).
Tutte le forze si equilibrano nella commedia perchè il Machiavelli è, e non poteva non essere, il poeta dell’azione. Posso anche consentire al Mondolfo di paragonare Ligurio al Principe. Ma non più oltre: Ligurio non soverchia l’azione, non è il protagonista. Tutte le creature della v Mandragola» sono uscite a un sol parto dalla fantasia del Machiavelli, son creature sue tutte, tutte protagoniste, degne di starsi a fronte. E la commedia è la favola della praxis operosa: Machiavelli, il teorico dell’azione, l’ha qui vissuta elementarmente: meglio che col Principe regge dunque il confronto con le Lettere, perfettamente con le Legazioni: anche qui i personaggi si governano con diplomazia e fan partecipare all’opera propria l’imprevisto; «di cosa nasce cosa, e il tempo la governa». Credete di udire il discorso di un ambasciatore veneto o un consiglio del Guicciardini: e parla invece l’appassionato Callimaco (neanche penetrato dal De Sanctis). Il ritirarsi a giudicar la commedia dal suo prologo (ossia dalla prima scena), a contemplare tutta l’azione che seguirà dal piano che la genera è artificio edificante per criticare gli errori più convenzionali e ameni in cui tutti i giudici sono incorsi sin qui col cercare il protagonista in Nicia (dove se ne andrebbe la precisa architettura della Mandragola che leva Machiavelli tanto più in alto che il Goldoni o il Molière del Tartufo?) o col proclamare tanto accentuata la satira di Frate Timoteo. Questi non è affatto più insopportabile di Sostrata, anzi è di lei meno malizioso. A chi volesse ragionar di simpatie non riuscirebbe difficile mostrare che il Frate è la persona più morale e più gradita di tutta la commedia. L’osservazione non che prendersi per un paradosso valga, contro l’opinione comune, a dimostrare l’equilibrio comico a cui tutti gli attori parimenti partecipano. Machiavelli tratta con molta famigliarità il suo frate, e gli dà a esporre certe sue opinioni e giudizi, facendolo a preferenza di Ligurio (cui, come a Sofronia nella Clizia, spetterebbe l’ufficio) intermediario tra sè e l’azione, tra l’azione e il pubblico. Il De Sanctis fu di opposto avviso perchè non seppe vedere, ossia invece che con occhi d’artista guardò le cose con gli occhiali del razionalismo hegeliano e laico. Timoteo non ha colori troppo rudi o cinici (De Sanctis: Storia della letteratura italiana, Treves, p. 82) ma è puro quanto Callimaco, che alla sua volta non ha nulla a temere dal confronto con la candida Lucrezia. Gli immorali ossia i poli negativi dell’azione sono Nicia e il Nicomaco della Clizia. E la funzione di Nicia, non che farlo protagonista dell’intreccio, lo conduce talvolta fuori dell’azione, come nella scena IX del quarto atto dove l’intensità caricaturale nuoce forse un poco all’economia dell’architettura generale (benché la scena sia, nella comicità dello sviluppo, uno degli spunti più solenni). Il pubblico numeroso che assistè alla riesumazione non era in disposizione spirituale degna della finezza irenica dell'architettura della Mandragola La Compagnia accentuò la malizia, non la finezza. Discreti il Lacchini, il Niccòli (unilaterale), la Niccòli. Ci diedero invece un Callimaco becero, ilare e appassionato.
L’ammalato immaginario (15 settembre 1922) — Solo l’esame degli intermezzi di Molière e delle sue commedie fantastiche, come l’Anfitrione, può condurci a individuare la vera personalità, artisticamente riuscita dello scrittore francese. Qui c’è lo stile di Molière, la sua scherzosa indifferenza fantastica, la sua serenità antipedantesca, la felicità con cui egli sa levarsi ironicamente al disopra del cadente mondo della nobiltà e della nascente presuntuosa borghesia. La critica romantica degli Schlegel e del De Sanctis giovane reagì giustamente ai fanatismi di ammirazione veristica attraverso cui si guardavano opere di massiccio malumore come il Misantropo e di equivoca comicità come l’Avaro. Ma non seppe (anzi non volle) giungere al problema di stile e di eleganza che avrebbe potuto giustificare l’ammirazione dei critici francesi. Invece quando si sia ben determinato che i capolavori di Molière sono Les précieuses ridicules e Amphitryon anche la validità episodica di molti frammenti delle altre opere di Molière resta definitivamente fissata.
Le Malade imaginaire è l’ultima commedia di Molière e cerca invano di nascondere la stanchezza e la fretta presenti in tutte le opere dopo Le Misanthrope. C’è la caratteristica ridondanza dei procedimenti d’intrigo di un Molière di maniera: Argante vuol dare in isposa Angelica a Diaforetico, come Argone cerca in Tartuffo il marito di Marianna, come Filaminta vuol sposare Enrichetta a Trisottino: ma questo nucleo sentimentale dell’egoismo paterno non diventa se non indirettamente l’anima della commedia. In Beiina, in Beraldo, in Purgone, in Florido, in Bonafede ci sono dei motivi autobiografici e delle vendette personali accennate frettolosamente, senza che il poeta si liberi dal peso della superficiale immediatezza, Cleante è il tipo prestabilito dell’amante coi vecchi mezzi usuali, Tonina diventa qualche volta la Dorina del Tartuffo; il primo e il secondo atto sono condotti con una irregolarità e con un disordine pieni di incongruenze e di mezzucci artificiosi.
In mezzo a questa mediocrità appare come una sorpresa l’ultimo canto del cigno. Molière ritrova la sua arte migliore con una vivacità e con un’arguzia edificante nel gioco sottile che realizza nei rapporti tra Tonina e Argante. E’ una festa di malizia, una sublimazione di finissimo scherzo, una tenue linea di equivoca contraddizione. Nuoce alla commedia che la finzione di Tonina, in cui il poeta pare dimenticarsi, non sia tutta indipendente e viva di natura propria, ma debba servire ad un certo punto al mediocre e pedestre intreccio che Molière ci aveva prima pesantemente ammanito. Senonchè a farci scordare i noiosissimi casi di Angelica e di Cleante, scritti per obbligo, l’autore ha ideato la mirabile cerimonia finale in cui Argante è proclamato medico. Anche qui il motivo iniziale è autobiografico, ma di un autobiografia profonda che quasi si mescola alla tragedia. Nella vendetta egli confonde sè coi nemici, guarda le cose dall’alto: il suo ultimo sforzo di comicità e di serenità, realizzato proprio alla vigilia della morte, e quasi come satira della sua morte, trova la libertà e la serietà di elaborazione di una conscia ed eroica contemplazione di suicidio. Andreina Rossi conservò limpidamente il tono generale di scherzoso artificio, superando, con qualche sfumatura di ingenuità, una difficile prova. Armando Rossi si volle avvicinare a un tono più accessibile di parodia, a cui il pubblico si divertì moltissimo. La cronaca registra un grande successo.
La sorridente signora Beudet di Denys Amiel e di Andre’ Obey (3 ottobre 1922):
«Io non sono Emma Bovary, sono la signora Beudet», confessa e teorizza la nuova eroina parigina. Ma la sua ricerca di fonti è piuttosto sommaria e affrettata. Maddalena Beudet ci parrebbe talvolta una Hedda Gabler diventata, in un nuovo processo d’ascesi sentimentale, Rita Almers, quasi si volesse dire una Hjordis purificata, in cui l’istinto selvaggio si sia commosso alla vicinanza di Dagny. Ma basta suggerire questi titoli perchè si avverta alterato il senso delle proporzioni.
Maddalena Beudet sarebbe, ahimè, una Hedda che si teorizza; una creatura riflessa, sino allo sforzo, patologica perchè contradditoriamente maturata. 11 motivo centrale della sua filosofia modernissima «da un attimo può dipendere tutta la vita» si esprime in una frammentaria tensione nervosa che spiega ma non salva la forma perfettamente granguignolesca del secondo atto (un Grand Guignol fine e sobrio, ma fondamentalmente artificioso in quanto si vogliono attribuire ai personaggi compiti che superano le loro istintive possibilità). L’artificio vizia la fine, in cui la conversione della ironica signora Beudet mal nasconde in un grossolano ottimismo, appena leggermente pensoso e tuttavia non preparato, il dilettantismo della meccanica teatrale e il gusto per le pacifiche rinunzie.
Invece il primo atto si era annunziato (a parte la povertà del gioco finale dei cassetti e della rivoltella) solennemente tragico e l’antitesi tra i cuscini e le stoffe del signor Beudet e la musica impressionistica della signora Maddalena si svolgeva secondo una netta linea di esasperazione e di irreducibilità. Senonchè la misura teatrale e una deficienza di stile degli autori nel far comunicare i loro fantasmi attribuisce a tutta la tela psicologica un vago colore di patologia.
A dir tutto sinteticamente parrebbe che la sorridente signora Beudet pecchi alquanto di deficienze ironiche e si appaghi talvolta di troppo pesanti convinzioni. Bisognerebbe per il dispiegamento integrale degli spunti ironici che ella fosse veramente, quale si definisce, spettatrice, tragicamente, della sua vita, non banalmente interessata: che il suo gioco con la rivoltella rimanesse uno scherzo fantastico e non una vendetta banaluccia, che gli autor sorprendessero più spesso le contraddizioni del suo lirismo e l’arguzia delle sue complicazioni (come nella descrizione della campagna al 1° atto): bisognerebbe che ci fosse un po’ meno di buon cuore piccolo borghese nel suo desiderio di donare e di far felici gli uomini. Invece troppo spesso in tutto ciò si scorge soltanto un mal riuscito gioco di nervi, e nella sua solitudine un’insufficienza di atmosfera tragica. Queste obbiezioni non possono del resto esser mosse senza un po’ di simpatia per il tentativo che la Gramatica ci ha presentato ieri sera: e limitarlo vuol dire appunto comprenderne la dignità e la severa linea espressiva. Emma Gramatica rappresentò arditamente la sua parte di bravura con una pienezza di mezzi che si deve dire, senza intenti maliziosi, teatrale: ossia chiara e talvolta fisicamente esuberante. Fu un’Hedda Gabler da Marcia Nuziale e riuscì a convincere il pubblico. Gli altri si nascosero dietro l’esteriorità delle loro controparti.
La Solitudine di C. Dane (7 ottobre 1922) — Sembrerebbe quasi superfluo approfondire con scaltrezza «La Solitudine» di C.Dane, potendosi dire agevolmente tutto ciò che ne interessa col solo pesarne schematicamente le ragioni e i motivi e quasi facendo corrispondere all’ordine e alla diligenza che metteremo da una parte della bilancia, la noia e la monotonia che lascieremo dall’altra con perfetto imparziale consenso. E forse non ci restituirebbe il prezzo del confronto il rallegrarci che qui tra noi possano sembrare invecchiati e quasi anacronistici certi argomenti pressoché sociali che all’ingenua compitezza inglese appaiono invece ora appunto quali laboriose scoperte. Le consolazioni della critica sarebbero piuttosto magre se si limitassero a mormorare con gioconda malizia il vecchio nome dell’onorato Giacometti. Piuttosto, giacché si è in tema (nientemeno) di paralleli di razze e di popoli, noteremo, con l’indulgenza naturalmente suggerita dai doveri ospitali, la superiorità che le rigidezze del clima e dell’istinto possono donare a chi non si sia arreso alle mollezze sentimentali del sud vaporosamente ozioso. In mano a un Bracco «Solitudine» sarebbe diventato un pretensioso dramma di crisi nebulose: C. Dane si è accontentato di una riunione di fatti. Eppure quale onesto italiano non lamenterà che l’autore non si sia preoccupato di trovare i centri psicologici del dramma nella tradizionale esasperazione di conosciute solitudini, o nello spavento tragico del peccato originale, dei figli che son vittima dei padri, o in concetti che qui restano opportunamente inosservati come questo «Noi invochiamo i morti; e che cosa avverrebbe se tornassero?»? Ma se il cogliere ad uno ad uno questi anelli più o meno lucenti non fu senza qualche parentesi di sbadiglio chi può dire qual risultato avremmo avuto sottoponendoci all’intrigo della collana? 11 terzo atto di «Solitudine», dopo due di preparazione meccanica e teatrale, è tollerabile appunto per la sua aridezza, freddamente ragionata, esente da enfasi e da pesantezze. Il guaio fu che il pubblico a sentirsi vecchie prediche d’igiene, dette con la necessaria esteriorità, credette di poter ragionare di umanità o addirittura di ricerche cosmiche mentre la temperatura lirica del lavoro del Dane è quella di un onesto e piatto componimento di propaganda.
Qui ci chiederete le usate informazioni sull’intreccio: ed eccovi appagati in due parole. Ilario Fairfield tornando dal manicomio quasi guarito dopo 15 anni trova la moglie che ha ottenuto il divorzio e sta per sposare l’uomo che ama. Egli ha bisogno di lei per non rimanere solo, per non impazzire di nuovo. Ma restando non sarebbe la donna condannata alla solitudine angosciosa? Chi potrà comprendere il padre è la figlia, nata dal suo sangue, col suo male nelle vene. Ella ha il dovere di non perpetuare una ineluttabile ereditarietà: perciò ella sola si sacrifica.
Emma Gramatica misurò con grande dignità tragica il suo spasimo ragionato; la Chellini raggiunse momenti di intensità espressiva monocordi, ma molto rudi; è un’attrice senza leziosaggini alla quale bisognerà stare attenti.
Tien-hoa di G. Forzano (11 ottobre 1922) — Fatti appuntino i nostri calcoli, trovate le giuste misure, non saremmo sinceri se non confessassimo che alla più elementare prudenza «Tien-hoa» (Fior di cielo) appare di gran lunga meno compromettente e inquietante di «Sly». Lo sdegno o il broncio fisolofico non sarebbero di buon gusto di fronte al candido trucco di G. Forzano, che ha rinunciato questa volta perfino alla melanconica seduzione del verso. Da gran tempo egli ha dimostrato di saper disprezzare i confini determinati della fantasia e le aspirazioni costruttive; e anche dall’incertezza di una delusione vi mantiene cautamente difesi. Alla resa dei conti, se non gli si vuol imputare la franca vena dello speculatore, dobbiamo onestamente preferirlo a tutti gli aspiranti Forzano non riusciti che si vendicano con le pretese sentimentali e le professate onestà. Nè Giovacchino Forzano manca di un suo stile, se si è abbastanza arguti da intenderlo e lo si cerca — non con massiccio filisteismo nelle comunicazioni vocali che egli non sa come evitare e riduce perciò a manifestazioni di infanzia e banalità — ma nella varietà con cui vien mutando nome alle sempre identiche cose, e nell'allegrezza con cui allestisce abiti pittoreschi od esotici scenari. Sentimmo ieri sera lamentare da alcuno che l’atmosfera del cosiddetto intreccio (sul quale in verità non sapremmo che cosa riferire: parve che si trattasse di un affare di amore) non fosse affatto cinese: senonchè lo scorno, scusate, spetta qui al placido spettatore. E si può essere tanto estatici ed incantati da seguire ciarle di palcoscenico inevitabili e previste? questo è in verità un giocare il tempo e il prezzo del biglietto per la voluttà d’essere canzonati. Noi che siamo di facile contentatura guardammo sino a saziarcene gli ambienti architettonici che anche la Gramatica riteneva curiosi, e ci lasciammo cullare da una innocente musica che accompagnava la contraffazione di un matrimonio cinese. Altre volte mirammo gli estatici atteggiamenti decorativi della Gramatica o ascoltammo la tenera arguzia delle sue cantilene. Nonostante i contrasti dei malinconici il «dramma cinese» si replica.
Un semplice di C. Giorgeri-Contri (19 ottobre 1922) — Nell’esotico protagonista di questa commedia noi ameremmo vedere addirittura una confessione o, vogliam dire la descrizione metaforica e simbolizzata di una personale disavventura. Che questo misterioso personaggio si definisca «un semplice» mentre l’autobiografia aveva dettato piuttosto aspirazioni alla raffinatezza, sarebbe soltanto un caso editoriale imprevisto. 11 fatto è che abbiamo qui un signor Ranzano argentino, uomo d’affari di professione, disoccupato di apparenze, che passa il suo tempo a ricucire un matrimonio andato a male con una serie di raffinate considerazioni e di eleganti esotismi. L’incidente potrebbe essere preoccupante, se le sue tendenze a fabbricare con solerte diligenza e meccanica abitudine i comodi altrui gli lasciassero anche il minimo tempo per ricordarsi di avere egli pure una volontà e un animo. Ma egli è un impiegato della beneficenza. Parte quando ha finito: regolato e metodico come un registratore. I personaggi che gli dovrebbero stare intorno sono appunto innocentemente cifre da sommare. Ogni atto è una specie di bilancio. Attraverso «Flutti torbidi» e «Due donne» siamo dunque giunti, se non ci si inganna, a una definitiva aridezza: l’atmosfera lirica del dialogo si può adeguatamente misurare, siccome opera di un collaboratore della «Nuova Antologia».
Di qui si raccomanda speciale reverenza e noi non vorremmo pertanto fermarci al banale significato che hanno le parole udite quando si prendono nella loro più naturale connessione. Non è senza seduzioni, quando l’argomento non repugni al gioco, immaginare significati trascendenti e sotto la più candida noia amene tragedie cosmiche.
Pensate dunque che Ranzano sia un poeta, che abbia cantato i sogni di tutti, da Aleardi agli avanguardisti, che abbia drammatizzato gli episodi più angosciosi della vita famigliare dalla gelosia tra madre e figliastra all’amore del padrigno per la figlia, che abbia narrato di addormentate felicità, e novellato di nozze. Imprestategli, se sarà necessario, anche il canto del «Capitan Fracassa», mentre egli tuttavia in mezzo alla diligenza dei nuovi impegni letterari pensa ai casi lieti del mondo. E forse il saluto della partenza sarà l’ultima rinuncia, forse gli oggettivati sogni gli riveleranno alfine come nulla egli vi abbia posto di sè, e il Bourget nè italiano nè esotico sentirà alla fine dei sentieri della giovinezza o delle trame dei sentimenti, un vuoto desolato e inerte, quasi che all’ora del testamento apparisse l’usciere ad apporre i suggelli su una vita che non ha mai trovato il suo centro interiore. Allora la bravura generosa di Carini e la fine arte dei sottintesi di Gina Sammarco sembreranno la consolazione estrema della funebre pietà.
Theo Fraser di Pinero (28 ottobre 1922) — Chi non gusti in Pinero l’invidiabile giocondità e arguzia di meccanismi con cui egli si dispone a irritare gli ascoltatori, sarà condannato senza rimedio a monotone malinconie. Perchè Pinero è inesauribile nel combinare in legnose costruzioni di aridità inglese i piacevoli elementi del dramma borghese e le più tortuose complicazioni ibseniane. Pinero, come Shaw, sa canzonare senza sottintesi i pedanti che lo vorrebbero prendere sul serio. Chi vorrà chiedere ai suoi personaggi un’anima? Essi son nati per dilettarci, vivono solo per un attimo nella situazione in cui son stati posti, non possiamo prendere confidenza con loro, figurarceli indipendenti. Pinero non crea dei personaggi, ma dei rapporti, ora rigidi, ora ironici, ora melodrammatici.
In «Theo Fraser», come nella «Seconda moglie» stanno di fronte due donne. C’è una moglie accusata di adulterio, assolta per il beneficio del dubbio (insufficienza di prove) che non può resistere a vedere il sospetto perdurare nel marito. Stanno di fronte un’esasperazione e una testardaggine. Ecco una delle arguzie di Pinero che non si adatterà mai agli isterismi e alle tenerezze del mezzano Bataille; la gelosia invece di un sentimento può essere per lui una costruzione ossuta, può essere testardaggine. E si dovrebbe addirittura riconoscere un eroismo di stile a guardare questo agile meccanico di affetti trasformare il «materiale» umano di un’Hedda Gabler, per es., in una inglesissima e umilissima Paola, che è appunto per i più candidi un’Hedda, in cui argutamente i caratteri di Hjordis siano stati sostituiti dai lineamenti della cantante di teatro. La stessa sorpresa vi può serbare la pacifica e borghesissima Nora che si nasconde in questo «Theo Fraser» attraverso monotonie sceniche affatto inglesi, e delicatezze limitatrici di onesto proposito «ambientale». Chi cercherà valori più intimi e integrali o cimenti decisivi, si mostrerà del tutto negato alla discrezione in cui la freddezza inglese, esente per ragioni di clima dalle confessioni vaporose, ci dovrebbe essere maestra.
Note
- ↑ NOTA. — Riproduco senza variazioni pochi esempi di cronaca teatrale scritti e pubblicati, la sera dello spettacolo in cui si può vedere il tentativo di conciliare con la necessaria fretta le aspirazioni alla chiarezza e al giudizio. La maggior parte delle mie cronache sarà prossimamente rifusa in un’opera generale di Storia del Teatro Italiano contemporaneo.