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dai doveri ospitali, la superiorità che le rigidezze del clima e dell’istinto possono donare a chi non si sia arreso alle mollezze sentimentali del sud vaporosamente ozioso. In mano a un Bracco «Solitudine» sarebbe diventato un pretensioso dramma di crisi nebulose: C. Dane si è accontentato di una riunione di fatti. Eppure quale onesto italiano non lamenterà che l’autore non si sia preoccupato di trovare i centri psicologici del dramma nella tradizionale esasperazione di conosciute solitudini, o nello spavento tragico del peccato originale, dei figli che son vittima dei padri, o in concetti che qui restano opportunamente inosservati come questo «Noi invochiamo i morti; e che cosa avverrebbe se tornassero?»? Ma se il cogliere ad uno ad uno questi anelli più o meno lucenti non fu senza qualche parentesi di sbadiglio chi può dire qual risultato avremmo avuto sottoponendoci all’intrigo della collana? 11 terzo atto di «Solitudine», dopo due di preparazione meccanica e teatrale, è tollerabile appunto per la sua aridezza, freddamente ragionata, esente da enfasi e da pesantezze. Il guaio fu che il pubblico a sentirsi vecchie prediche d’igiene, dette con la necessaria esteriorità, credette di poter ragionare di umanità o addirittura di ricerche cosmiche mentre la temperatura lirica del lavoro del Dane è quella di un onesto e piatto componimento di propaganda.

Qui ci chiederete le usate informazioni sull’intreccio: ed eccovi appagati in due parole. Ilario Fairfield tornando dal manicomio quasi guarito dopo 15 anni trova la moglie che ha ottenuto il divorzio e sta per sposare l’uomo che ama. Egli ha bisogno di lei per non rimanere solo, per non impazzire di nuovo. Ma restando non sarebbe la