La frusta teatrale/V. Confidenze con l'ignoto

V. Confidenze con l'ignoto

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V


Confidenze con l’ignoto


Eleonora Duse esprime un momento di liberazione esasperata della vita da tutte le formule e da tutti i limiti in cui il positivismo voleva contenerla. Dallo schematismo e dalla volgarità degli attori di clinica allevati alla scuola di Enrico Ferri la liberazione doveva venire primamente per lo spasimo della vita inesauribile riaffermante la propria originalità e irriducibilità nelle forme più immediate e violente e sincere.

Contro il positivismo che, sulla bilancia delle scoperte fisiologiche dei medici lombrosiani, alla luce delle leggi di ereditarietà riduceva l’opera d’arte in termini di trattato di psicopatologia, s’affermava violentemente l’individualità inesorabile ed istintiva della sensibilità. Questo vibrare di libere impressioni non si presenta come effetto di analisi o di maturità riflessiva. Anzi si direbbe che in ogni attimo della vita voglia realizzarsi istintivamente tutta la vita, con la gioia della dedizione, quasi l’artista rinunci a risparmiarsi in un meditato sviluppo e abbia tutta la sua personalità, già nel più esile momento di noviziato e di transizione. [p. 44 modifica]Pochi hanno saputo ritrovare come Eleonora Duse l’incanto e il tormento di questa sensibilità esasperata. Nella quale assistiamo un po’ stupefatti al miracolo di una profondità, in cui è immanente un vero e proprio fattore mistico, che si rivela (si rivela; non si esprime che è concetto critico e moderno) con l’ansia e l’ingenuità del primitivo, nella purezza, senza storia e senza riflessione, della sensibilità libera da tutti gli intellettualismi.

Nè questo nostro parlare di «sensibilità pura e immediata» dovrebbe confrontarsi con le risapute definizioni di esaltato romanticismo che pensano di scoprire la poesia proprio mentre si discostano da lei, disdegnosa di immodesti programmi. La formula che stiamo svolgendo è valida per Eleonora Duse soltanto: mentre nei citati luoghi comuni, nonostante i propositi di inesperti scrittori, suol significare niente altro che una crisi di incapacità espressiva.

Eleonora Duse, invece, moderna soltanto perchè romantica, ha trovato i confini del suo romanticismo; e soffrendo come i romantici di incapacità espressiva, povera di mezzi raffinati e di coscienza astuta, è giunta alla sua maturità invece che per la via della determinazione estetica espressiva, attraverso la «rivelazione religiosa» del genio.

Così bisogna intendere il suo misticismo, che è vitale e fecondo, così bisogna valutare le sue forme di esaltazione, che paiono morbose alla nostra maturità critica, e invece sono realtà spirituale precisa, che infrange gli schemi intellettualistici appunto perchè non vuole sostituirsi alla nostra razionalità.

Ella non conosce leggi ferme, non interpreta, ma dice vibrazioni sue ed opera per esse: non è un’attrice di [p. 45 modifica] presupposte individuazioni, non rappresenta opere di teatralità; non è un artista, ma uno spirito religioso.

Eleonora Duse rappresenterebbe quindi un fatto specificamente singolare che, pur inquadrato nella storia nell’ultimo ottocento e del primo novecento, ne balza fuori con una selvaggia originalità di primitivo. Non valgono per lei, tuttavia, le stancate formule di «divina ispirazione, di ebbrezza più che terrestre, di transumanazione».

La sua vita religiosa è ancora attività sintetica, che pur nella sua immediatezza, è sintesi e misura di una personalità.


II


Ma meglio che un discorso generico dovrebbe giovare, se non c’inganniamo, una disamina un poco più confidenziale dei risultati che ella si propone. Che cosa è Eleonora Duse ne La Donna del Mare? E volendo seguire ordini e connessioni quasi scolastiche: che cosa è La Donna del Mare?

«Il grande mistero è la dipendenza della volontà umana dal senza volontà» così Ibsen negli appunti per il dramma (Luglio-ottobre 1888).

Ma prima di annunciare «che il suo interesse polemico stava per scemare e che egli sentiva intimamente la sua poesia incamminarsi verso nuove forme», o di confessare che il mare (libertà naturale e selvaggia) diventava sempre più, come racconta lo Jaeger, la sua fissazione, aveva scritto in una lettera dell’87: «Siamo riuniti qui in un sabato sera. A questo segue il dì del riposo, il dì di festa, il dì solenne, come volete. Per conto mio sarò contento [p. 46 modifica] del lavoro della mia settimana di vita se esso servirà a preparare il buon animo per i! domani. Ma più di tutto sarò contento se esso contribuirà a temprare gli animi per la settimana che immancabilmente succede».

Frutto di questi propositi è La Donna del Mare. Segue nell’opera ibseniana di appena un anno l’austera catastrofe di Rosmersholm. E nascerà dalla sua calma serena, nel 1890, Hedda Gabler, ultima tappa, se si vuole accettare il suo linguaggio morale, per giungere al Costruttore Solness, a G. G. Borkmann, al Piccolo Eyolf; cinque capolavori in dodici anni: ci si può domandare davvero come in questo fervore creativo sia penetrata la stanca attesa e la schematica soluzione della Donna del Mare.

Rosmersholm e Solness rappresentano l’etica drammaticità volitiva che ha il suo centro e la sua misura nella catastrofe come cosciente suicidio. Hedda Gabler è il momento di sosta vanamente cercato nella Donna del mare, e conquistato invece nella contemplazione del dramma di una morale eroica, che ha il suo principio e il suo rigorismo in un’attività volitiva solitaria e straniera: Ibsen vi realizza un risultato morale soltanto in quanto vi stronca le volontà anarchiche che vogliono sottrarsi alle responsabilità sociali. Il fallimento di Hedda Tessman. è la vittoria di lbsen, invano sperata attraverso la retorica di Catilina, epicità di Brand e di Peer Gynt. la storicità di Cesare e Galileo, la lotta contro la materia nei Fantasmi e contro la bugia nel Nemico del popolo. La pace di lbsen, la sua affermazione, può trovarsi soltanto nella contemplazione serena del dramma opposto a lui, votato alla catastrofe: poiché l’arte sua è fatta di chiarezza etica ed egli invece non ha saputo mai penetrare il mistero della [p. 47 modifica] vittoria attesa. Questo ci dice perchè Hedda Gabler è un’opera d’arte e perchè La Donna del Mare è un’opera fallita.

In Ellida il senza volontà soggioga la volontà: ella non può salvarsi appoggiandosi al marito, perchè si ripeterebbe il fallimento di Nora. Bisogna che la salvi il principio di responsabilità che è in lei, bisogna che ella liberamente scelga per riparare l’errore del matrimonio quando ha sacrificato la sua libertà vendendosi. Allora ella decide e si salva.

C’è in Ibsen questo processo volitivo per cui dall’indeterminatezza e dal dissidio si passi alla decisione, all’azione, per virtù interiore, per approfondimento cosciente? Ammesso il compirsi dell’ipotesi, La Donna del Mare non sarebbe solo un capolavoro, ma quasi il ritrovamento magico del segreto. Ma Ibsen non è abbastanza scaltro per guardare nettamente quella tragedia positiva che per lui è mistero: non sa liberarsi se non soffoca l’autobiografia, diventando estraneo alla sua empirica coscienza morale Nella Donna del Mare egli non ha trovato questo processo eroico di affermazione: lo hanno sedotto gli elementi esterni, ha dovuto contemplare la sua tragedia rifatta in un simbolo senza distinzione. E questo simbolismo non è idealizzazione del reale, come credevano i nostri buoni vecchi, ma dissoluzione del reale almeno sinché il dualismo non si risolva, e il simbolo non diventi esso stesso palpito individuo di vita.

La spiaggia che già si ritrova in didascalia nel primo atto a indicare la nascosta ispirazione dell’opera, il quadro di Ballested della sirena che non può ritrovare la via del mare, l’artificio simbolico del gruppo di Lyngstrand, il mistero sottile della significazione dello Straniero, dei suoi [p. 48 modifica] occhi, del suo fascino, trasportano il movimento dall’interno all’esterno e non approfondiscono il dato primo del dramma. Il quale sarebbe vivo soltanto se invece di udire i discorsi altrui noi vedessimo i successivi stati d animo di Ellida, dalla sua confusa accettazione del matrimonio e della disciplina sociale, al bisogno di libertà, dapprima infinita e disorganizzata, poi dominata con terrore da una forza superiore, infine conscia di sè e dei suoi limiti. Invece questo nucleo tragico resta nell’ombra e prevalgono gli elementi meccanici e indifferenziati della favola.

La psicologia di Ellida si confonde sino al più tenebroso mistero e riesce ad attestarci la stanchezza del poeta: invece del promesso sviluppo ci dobbiamo accontentare di statica descrizione.

Liberazione, nella franchezza e nella lealtà responsabile, dalla immoralità prima della rinuncia: questa doveva essere la passione di Ellida: la sua volontà è drammatica quando avverte che deve salvarsi da se stessa. Ma la confessione è infeconda perchè Ibsen non ne ha preso coscienza estetica. In Ellida c’è ancora un po’ della Valchiria e molto di Nora: elementi esterni repugnanti al nucleo vitale. Nè ad Ellida viene chiarezza dalle altre figure: Hilde, una piccola Hedda Gabler malsicura che dovrà sognare ancora con più eroica fissità la redenzione per diventare l’ispiratrice del Costruttore Solness; Ballested e Lyngstrand, finissimi ritratti, ma, come Hilde, completamente autonomi e chiusi in sè: Wangel, un medico che ha qualcosa del meccanico, che mette a posto gli elementi della tragedia e se ne fa buona guida, mentre noi non gli vediamo un’anima e anzi sentiamo ad ogni istante la sua assenza di volontà; lo Straniero, apparizione inconsistente e quasi decorativa. [p. 49 modifica]«Pesa su di noi la minaccia di un tempo burrascoso. questa è la tormentata logica alla luce della quale dobbiamo intendere la personalità di Ellida; ma, pare ormai chiaro, con questa logica è contradditoria la soluzione. Con accorto divisamento raccoglieremo i sognati impeti drammatici entro più indulgente orizzonte: forse basterà restarsi paghi di conosciute seduzioni descrittive.


III


La Duse ha pensato tutta la tragedia intorno ad Ellida; e le ha tolto in una prudente riduzione quei falsi atteggiamenti di Nora e di Valchiria che Ibsen vi aveva lasciati come residui. Ha immaginato, nell’atmosfera modestamente descrittiva, quattro momenti psicologicamente sempre più complessi; e, conscia di non dover giungere ad una soluzione che in Ibsen non c’è, ha vissuto in quattro sviluppi distinti la donna del mare, la donna che aspira alla libertà selvaggia ed ha paura di tutto ciò che la trattiene e la ferma. Nel primo atto lo stato d’animo prevalente è di tetra attesa disincantata; nel secondo deve succedere all’attesa l’ansia suggerita dall’illusione della libertà che Ellida vive gioiosamente ripensando con esaltazione i motivi idillici e descrittivi che una volta in riva al mare l’hanno commossa. Nel terzo atto la libertà sconfinata è soffocata da un lieve momento riflessivo, che nella Duse meglio che riflessione si direbbe presentimento, quasi un rimpianto inesorabile di fronte alla seduzione che bisognerà condannare. E finalmente l’evoluzione ultima di questo sentimento, intravvisto nella conclusione del [p. 50 modifica] terzo atto, si attua nei quarto come liberazione dalla paura, come vibrazione nuova di sicurezza tutta intima.

Tale procedimento indica con evidenza la caratteristica spirituale e quasi diremmo educativa della Duse, che affrontando il teatro come un’imprevista opera di creazione, si preoccupa essenzialmente di un’interiore coerenza e non vorrebbe lasciare uno stato d’animo senza autonomi e singolari approfondimenti.

Su questo schema, che crediamo il solo valido per dire approssimativamente la linea spirituale seguita dalla Duse, noi dovremmo ora seguire analiticamente gli sviluppi e i movimenti ritrovati in ogni scena. Preferiamo raccogliere tutta l’analisi in una frase: «incubo di sogni e di aspirazioni da cui ci si risveglia per intimo impulso misterioso». L’elemento che era simbolico in Ibsen è diventato, in questo sviluppo spirituale, l’eco che lega unitariamente tra loro i sospiri e le vibrazioni.


IV


Chiarita la posizione storica e l’individualità lirico-religiosa di Eleonora Duse, ne verremo ora svolgendo i problemi particolari.

L’esegesi di un’interpretazione del resto non si esaurisce in una valutazione veramente estetica, ma postula un giudizio di carattere integrale in cui trovino la loro verità e la loro correzione le frammentarie impressioni che spesso sono soltanto iniziali inadeguati giudizi su tutta la vita dell' attore oltreché sulla sua attività di critico d’arte.

Volere applicare l’estetica crociana, o un altra estetica qualsivoglia nell’esame delle interpretazioni teatrali [p. 51 modifica] sarebbe un equivoco semplicismo che limiterebbe ogni comprensione.

C’è nell’attore una personalità di critico d’arte, che rivive l’opera secondo la propria comprensione, quasi con una meditata presenza. Egli non impone la sua personalità sino a sopprimere l’opera che ha dinanzi per rendere solo più vibrazioni sue; resta anzi prudentemente esterno, e si guarda dall’assumere responsabilità morali comuni con il personaggio che rivive: legittima posizione, se si richiede una sorta di ascetica contraffazione perchè l’attore sii scordi della sua persona empiricamente pratica ed umana, e cerchi una contemplazione critica di quella che sarebbe altrimenti la stancata materia del suo mestiere.

Per questa esplicita personalità artistica, il critico attore può e deve interpretare opere lontane dalla sua cosiddetta sensibilità, e l’interpretazione, notata come esegesi, ha la validità di uno studio critico.

Senonchè gli elementi di questa sintesi critico-artistica non sono tutti determinati in una compiuta individualità, anzi la recitazione, per la sua stessa praticità, è sempre nuova di una vita che non è soltanto singolare realizzazione poetica; dovremo dunque fare i conti con i residui pratici e indistinti della realtà umana invano repressa dal freno dell’astuzia che tendeva presuntuosamente a ridurre nel fatto estetico tutta la sensibilità.

Immaginate di muovere invece da questo secondo elemento; che continueremo a chiamare sensibilità per far più semplice il discorso. Era in ultima analisi proprio l’intenzione dell’improvvisatore; nè i cervelli più limitati e scolastici si proverebbero a contestare, io credo, l’autonomia creativa dell’interprete, anche se resti a risolvere il [p. 52 modifica] quesito del rapporto tra l’improvvisazione e l’organizzarsi della sensibilità. Nell’improvvisatore veramente l’impegno non esclude la burla e l’artificio del buffone, ma a voler contestare ogni sviluppo di dignità bisognerebbe professare un’arte della sicurezza che non sarebbe certo sottratta ad ogni pericolo di rimanere scornata. Cominciate col buffone; ma vedremo se le nuove responsabilità non faranno nascere il sacerdote. Nel momento delle confidenze supreme anche il teatro si ricorda di essere stato ii tempio e di poter servire alla celebrazione dei misteri meglio che all’ufficio plateale di tribuna.

Si direbbe che nel fenomeno Duse intervenga per l’appunto una responsabilità di questa sorta e che l’attrice, insoddisfatta di rifare il dramma altrui, si trovi non a recitare se stessa (come capita allegramente ai cosidetti attori d’istinto) ma a scrivere, con forte preparazione e come se dovesse concludere, il suo dramma, quasi a giocare con ostentata disinvoltura e con insuperabile timidezza intima il problema della rivelazione della sua individualità. Come se l’oratore incominciasse a dubitare del preparato discorso e dalla sua disperazione nascessero le più pericolose confidenze, come se il profeta sostituisse alla mistificazione e alla predica l’esplorazione dell’ignoto. Così appunto nella recitazione della Duse l’opera scompare e non si tratta più di interpretarla, di analizzarla, bensì di trasformarla da materia di riflessione estetica in un contenuto sentimentale che trovi la sua forma precisa ed unitaria nel movimento della nuova sensibilità. Ogni principio di mediazione (in senso critico) è soppresso dal momento che la sua recitazione ci appare come una vera esperienza mistica, ed in ogni atto si ritrova l’immanenza [p. 53 modifica] del divino. Parleremo qui di arte? C’è evidentemente un movimento lirico, come c’è, poniamo, un movimento lirico nei discorsi dei Vangeli: ma questo non è il fatto essenziale, e l’arte stessa che ne risulta ha la sua verità in un più generale sviluppo umano: si tratta invero di un complesso processo di genesi e, dicendola una sorpresa religiosa, se ne mostra anche adeguatamente l’incompletezza e la frammentarietà.


V


Una conferma dei concetti sin qui esposti potrebbe ritrarsi dal confrontare l’opera della Duse nelle successive recite del dramma. Si vedrà come ella ricostruisca ogni volta secondo rinnovate linee di coerenza espressiva, il nucleo lirico del suo canto e la fisionomia del suo fantasma drammatico.

Nella prima recita, parlando con ansia, con incertezza sottile, ella ha realizzato questa sintesi con una commozione diretta ed immediata. Nella seconda recita invece era curioso notare un tono sicuro di concreta chiarezza esplicita: al mistero ella sostituiva l’ansia tragica del dolore. Tornò nella terza il mistero, non più nell’incertezza dei toni e nell’ansia indeterminata, ma in un efficacissimo contrasto tra l’indifferenza mascherata dei suoi rapporti più propriamente drammatici, e l’abisso che si dischiude nella sua intimità, mentre non le viene pace dalla contemplazione esterna e dall’anelito operoso al mare.

Tra due opposti motivi: l’idillio del mare e il terrore per cui ella è sottoposta al «senza volontà» o alla volontà più forte di lei, s’è svolta in questa terza sera la tragedia. [p. 54 modifica] La Duse ha lasciato nell’ombra proprio quello che era stato altra volta il motivo centrale: il nascere della volontà in Ellida sino alla conquista della libertà.

Il fatto è che ella recita prima che Ibsen se stessa ed a se stessa adegua tutti gli elementi tragici rinnovandoli a seconda dell’intensità del suo movimento sentimentale.

La maturata sensibilità di ogni istante decide della diversa impostazione e del diverso sviluppo dell’opera. Ogni replica è un’opera nuova. Pare che anche la sorpresa sia con dignità un elemento d’arte: ed eccovi La Donna del Mare come dramma di lenta aspirazione mistica; o come progressiva affermazione della libera volontà o ancora come statica malinconia angosciosa che si viene a risolvere in pacata serenità.

Che poi la Duse viva questa esperienza mistica in teatro, è veramente un fatto soltanto occasionale, e quasi un’astuzia della storia verso la sua religiosa iniziazione.

E altri misteri potranno riuscire più chiari paragonando con la Duse l’attrice che più l’ha amata e seguita: Emma Gramatica. Questa invero è tutta limitata ai suoi sforzi di studio e di abbandono lirico penetranti con esasperata staticità di coerenza nello spirito del personaggio rivissuto con un abile trasformismo che poi si arresta senza giochi di scaltrezza a quell’inerte spontaneità naturale, che la Duse, attrice non naturale, non semplice, non vera, sa bene ingannare e superare.


VI


Mentre La Donna del Mare incertissima, nelle sue linee, è mirabilmente adatta perchè la Duse vi esplichi [p. 55 modifica]tutta la sua sensibilità agitata di spasimo e mutevole di tragicità chiusa e misteriosa, La Porta chiusa presenta, pur nella sua schematicità talvolta inespressa, una linea precisa, organica, continua, identica a sè stessa, monocorde.1 La Donna del Mare è un dramma torbido, talvolta ambiguo, in cui due soli momenti sono stati segnati dall’autore: un’attesa ansiosa, tormentata, anelante alla conquista della libertà, e una conclusione serena in cui la libertà è realizzata e lascia pienezza di vita e pace. Tra questi due confini la via e la mediazione sono lasciate alla genialità dell’attrice. E la Duse affascinata da quel che vi è di inespresso, sostituitasi all’autore, sa vivere, con immediatezza religiosa, l’angoscia spirituale, e in relazione alla attività e vitalità che in ogni istante in modo diverso, le suggerisce (la commozione sua di donna, crea una tragedia sempre nuova che è soltanto più sua, opera della sua sensibilità e delle sue angoscie. E poiché a tale situazione ella intensamente s’abbandona, in questo senso la sua Donna del Mare è sopratutto un’esperienza mistica.

L’esasperazione del momento romantico, la frammentarietà misteriosa che sorge dall’impressione, dalla torbida incertezza crepuscolare della coscienza dove sta per nascere un’affermazione, tutti questi elementi non sono più nella Porta chiusa. L’interpretazione è chiara, precisa. Il silenzio del primo atto è tutta una vibrazione di ansietà che vuol celarsi in una dolcezza dolorosa o in una calma bontà, e che, scoppiando nel singhiozzo, ha terribili moti e sguardi disvelatori di tutto il dramma che s’aspetta. La finezza d’analisi della Duse è andata oltre la [p. 56 modifica] minutissima cura che il Praga ha posto nelle didascalie. E dove mancano le didascalie, nel segnare i rapporti tra Bianca e Ippolito, per esempio, la Duse ha espresso con precisione accenti di indifferenza penosa, fredda di spasimo.

Ogni spunto di retorica lasciato dal Praga è dalla Duse ridotto nella sua validità di sentimento misurato, semplice, adeguato a tutta una situazione organica. Basterebbe ricordare il secondo atto. Entra Bianca e Decio la inteiroga: «Che vuol dire? vi occorre qualcosa?» La risposta in Praga è una domanda, banale e identica alle parole di richiamo per il figlio che già si sono sentite nella notte: «Giulio? Dov’è Giulio?» Nella Duse invece dell’interrogativo c’è una recisione di risposta sicura come se postasi ella stessa la domanda «Chi cerco?» vi aggiungesse il suo «Cerco Giulio», con un singolare disdegno della possibilità di far nascere dall’angoscia nient’altro che una convenzionale conversazione. Chi ha compreso come questa commedia non ha senso se non in un’atmosfera di delicatezza di sentimenti e di solitudine, che attenui il troppo Bernstein intruso, saprà avvertire l’intelligenza della correzione. Di tali analisi sottili, che si dovrebbero minutamente riprendere, è fatta l’arte della Duse. Si pensi al momento culminante del II atto quando, dopo la rivelazione, Bianca nasconde il viso con le mani, sfinita e rassegnata. O alla sapiente compiutezza raggiunta nella spiegazione del secondo atto, detta col sicuro dominio del dolore ancora singhiozzante. La Duse sente con tanta fermezza la scena che vien descrivendo da dimenticare la situazione presente: Giulio è diventato per lei il bimbo di cinque anni che le ha fatto rinunciare alla femminilità [p. 57 modifica] per la maternità: gli sorride con abbandono sconsolato e ridente, tutta perduta nel suo sogno che è la sua verità; il suo spasimo dimenticato si rivela solo tratto tratto in lievi batter d’occhi tristi.

Nel terzo atto bisognerà invece notare gli effetti silenziosi dell’indifferenza con cui è guardato Decio, e della commozione misurata con cui ella segue i sogni di Giulio nascondendo gli occhi quando troppo pieno è l’affetto e la gioia di lagrime e infine dell’efficacissimo moto per cui la madre sottrae con la mano ansiosa alla vista di Giulio l’indifferente e scettico riso di Ippolito.

Non si può chiedere a Praga nulla più che un episodio alquanto veristico di amor materno, ma nella trasfigurazione offertaci dalla Duse è prudente scorgere dei limiti notevolmente allargati.

Agli stessi sviluppi di maternità dolorante, composti per innata misura, ci fu dato assistere nel Così sia, veramente più che un fatto d’arte, una rivelazione superiore d’umanità, in cui tuttavia il gusto di Eleonora Duse ha saputo creare magistralmente la squallida evidenza statuaria del III atto, una madre e un altare. Invece l’antinomia interpretazione-spontaneità si direbbe risolta (forse nel modo più perfetto) in Fantasmi (I e II atto), dove lo studio è tutto implicito, come una corazza naturale di pudore.


VII


Per giungere a una conclusione non dovremo, io penso, cercare concetti nuovi. Se le impressioni descritte sin qui hanno talvolta la timidezza incerta dello spettatore [p. 58 modifica] non vorremo sovrapporvi l’esperta conoscenza e li una sistematica lineare.

Giusta reazione a troppi entusiasmi vedemmo alfine un libello piuttosto frettoloso2 in cui al filisteismo della folla fanatica si opponeva una svalutazione critica non meno filistea. Nè ci fu dato apprender nulla se non la disinvoltura simpaticamente romantica dell’autore, che pretendeva ascoltare a teatro opere di poesia come se nel caso Duse non si chiedesse al teatro per l’appunto la poesia di lei; e come se il sospettare nella Porta chiusa qualcosa di più che la furberia del teatro borghese non fosse già distrazione e peccato di svagata ingenuità.

Il discorso sarà completo e chiaro se l’atteggiamento religioso di Eleonora Duse ci si mostrerà come stato d’animo consolato di solitudine e quasi di chiusa intimità aristocratica. Lascieremo invece a cronisti più vigili il riflettere sulle conseguenze che l’esempio potrebbe produrre, e sul singolare incanto educativo che l’opera della Duse esercitò tra i suoi collaboratori e che stupì anche persone come noi abitualmente scettiche sulla fecondità di tali ammaestramenti.


Note

  1. Su La Porta Chiusa e sul Praga scrittore di teatro puoi vedere il mio saggio in Rivista di Milano settembre-ottobre 1922.
  2. Alfredo Sartolio, Il ritorno di Eleonora Duse. - Note di un eretico. Roma, 1922. Si cfr. Rasi, La Duse, Firenze, 1901 - Rasi, I comici italiani, cit. vol. II, pp. 810-827. - Bracco, Tra le arti e gli artisti, cit. pp. 25-41.