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-nutissima cura che il Praga ha posto nelle didascalie. E dove mancano le didascalie, nel segnare i rapporti tra Bianca e Ippolito, per esempio, la Duse ha espresso con precisione accenti di indifferenza penosa, fredda di spasimo.

Ogni spunto di retorica lasciato dal Praga è dalla Duse ridotto nella sua validità di sentimento misurato, semplice, adeguato a tutta una situazione organica. Basterebbe ricordare il secondo atto. Entra Bianca e Decio la inteiroga: «Che vuol dire? vi occorre qualcosa?» La risposta in Praga è una domanda, banale e identica alle parole di richiamo per il figlio che già si sono sentite nella notte: «Giulio? Dov’è Giulio?» Nella Duse invece dell’interrogativo c’è una recisione di risposta sicura come se postasi ella stessa la domanda «Chi cerco?» vi aggiungesse il suo «Cerco Giulio», con un singolare disdegno della possibilità di far nascere dall’angoscia nient’altro che una convenzionale conversazione. Chi ha compreso come questa commedia non ha senso se non in un’atmosfera di delicatezza di sentimenti e di solitudine, che attenui il troppo Bernstein intruso, saprà avvertire l’intelligenza della correzione. Di tali analisi sottili, che si dovrebbero minutamente riprendere, è fatta l’arte della Duse. Si pensi al momento culminante del II atto quando, dopo la rivelazione, Bianca nasconde il viso con le mani, sfinita e rassegnata. O alla sapiente compiutezza raggiunta nella spiegazione del secondo atto, detta col sicuro dominio del dolore ancora singhiozzante. La Duse sente con tanta fermezza la scena che vien descrivendo da dimenticare la situazione presente: Giulio è diventato per lei il bimbo di cinque anni che le ha fatto rinunciare alla femminilità