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la frusta teatrale | 51 |
sarebbe un equivoco semplicismo che limiterebbe ogni comprensione.
C’è nell’attore una personalità di critico d’arte, che rivive l’opera secondo la propria comprensione, quasi con una meditata presenza. Egli non impone la sua personalità sino a sopprimere l’opera che ha dinanzi per rendere solo più vibrazioni sue; resta anzi prudentemente esterno, e si guarda dall’assumere responsabilità morali comuni con il personaggio che rivive: legittima posizione, se si richiede una sorta di ascetica contraffazione perchè l’attore sii scordi della sua persona empiricamente pratica ed umana, e cerchi una contemplazione critica di quella che sarebbe altrimenti la stancata materia del suo mestiere.
Per questa esplicita personalità artistica, il critico attore può e deve interpretare opere lontane dalla sua cosiddetta sensibilità, e l’interpretazione, notata come esegesi, ha la validità di uno studio critico.
Senonchè gli elementi di questa sintesi critico-artistica non sono tutti determinati in una compiuta individualità, anzi la recitazione, per la sua stessa praticità, è sempre nuova di una vita che non è soltanto singolare realizzazione poetica; dovremo dunque fare i conti con i residui pratici e indistinti della realtà umana invano repressa dal freno dell’astuzia che tendeva presuntuosamente a ridurre nel fatto estetico tutta la sensibilità.
Immaginate di muovere invece da questo secondo elemento; che continueremo a chiamare sensibilità per far più semplice il discorso. Era in ultima analisi proprio l’intenzione dell’improvvisatore; nè i cervelli più limitati e scolastici si proverebbero a contestare, io credo, l’autonomia creativa dell’interprete, anche se resti a risolvere il