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occhi, del suo fascino, trasportano il movimento dall’interno all’esterno e non approfondiscono il dato primo del dramma. Il quale sarebbe vivo soltanto se invece di udire i discorsi altrui noi vedessimo i successivi stati d animo di Ellida, dalla sua confusa accettazione del matrimonio e della disciplina sociale, al bisogno di libertà, dapprima infinita e disorganizzata, poi dominata con terrore da una forza superiore, infine conscia di sè e dei suoi limiti. Invece questo nucleo tragico resta nell’ombra e prevalgono gli elementi meccanici e indifferenziati della favola.

La psicologia di Ellida si confonde sino al più tenebroso mistero e riesce ad attestarci la stanchezza del poeta: invece del promesso sviluppo ci dobbiamo accontentare di statica descrizione.

Liberazione, nella franchezza e nella lealtà responsabile, dalla immoralità prima della rinuncia: questa doveva essere la passione di Ellida: la sua volontà è drammatica quando avverte che deve salvarsi da se stessa. Ma la confessione è infeconda perchè Ibsen non ne ha preso coscienza estetica. In Ellida c’è ancora un po’ della Valchiria e molto di Nora: elementi esterni repugnanti al nucleo vitale. Nè ad Ellida viene chiarezza dalle altre figure: Hilde, una piccola Hedda Gabler malsicura che dovrà sognare ancora con più eroica fissità la redenzione per diventare l’ispiratrice del Costruttore Solness; Ballested e Lyngstrand, finissimi ritratti, ma, come Hilde, completamente autonomi e chiusi in sè: Wangel, un medico che ha qualcosa del meccanico, che mette a posto gli elementi della tragedia e se ne fa buona guida, mentre noi non gli vediamo un’anima e anzi sentiamo ad ogni istante la sua assenza di volontà; lo Straniero, apparizione inconsistente e quasi decorativa.