La frusta teatrale/VI. L'estatica sognante Ossia Hjordis sposa Fabrizio
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | V. Confidenze con l'ignoto | VII. Le astuzie della critica | ► |
VI
L’estatica sognante ossia Hjordis sposa Fabrizio
Non si saprebbe valutare adeguatamente Emma Gramatica, non si saprebbe spiegare come coesistano nel suo teatro la fine originalità dell’interpretazione di Pigmalione e la banale virtuosità di Marcia Nuziale se non si risalisse alle relazioni che la collegano con Eleonora Duse. Della Duse conserva la teatralità e l’aristocratica inquietudine della ricerca, le manca la mistica esuberanza d’espressioni e l’anima religiosamente inesauribile; quasi si direbbe che nel fascino sentimentale della sua tenue femminilità si esauriscano quelle che ad un osservatore incantato potrebbero sembrare doti di comunicazione artistica.
Coi limiti qui suggeriti sono evidentemente contradditorie certe posizioni incondizionate e dedizioni solenni, a cui la critica e il pubblico intellettuale hanno consentito per un innato candore di galanteria e che in verità hanno solo il torto di accettare per scaltre meditazioni le più accessibili e naturali ambiguità pensose, le quali senza disturbare alcun esotico fisiologo di spleen, si descrivono semplicemente tenendo presenti i capricci e le curiosità di una figura che eserciti il ruolo dell’ingenua sfortunata. Senza ironia basterebbero poche nozioni cronologiche precise per considerare, esenti dalle più pericolose emozioni, il facile mito di eroicità dietro cui si manifestano i culti e le ammirazioni.
Emma Gramatica ha trovato in Ibsen l’esigenza della figurazione dell’eroina coi torbidi contrasti ideali e le solenni liberazioni. E’ stata Nora, Rebecca, Hedda. Ricerche senza posa e spesso senza misura, cui l’attrice dedicava tutta se stessa come per un opera di personale salute, hanno sedotto il pubblico, che vi ha rispettata una commozione. anche ora la Gramatica non può recitare Casa di Bambola senza fremiti e senza crisi sentimentali. Nora non le è tutta chiara: e se riesce a viverne la capricciosa fanciullezza del primo e del secondo atto approfondendo appena le doti della sua spontaneità, la catastrofe, giustificata come problema, pecca in lei di esuberanza incomposta e di patologica incertezza.
I primi due alti di Nora rappresentano un momento centrale e conclusivo della psicologia di Emma Gramatica. La spontanea freschezza, la ricca vivacità fanciullesca, l’esuberanza vitale, l’irrequietezza fantastica, la tenerezza dell’affetto che si esprime in infantili moine diventeranno poi la maniera dell’altrice, la sua bravura, le doti d’obbligo nelle quali il pubblico amerà la sua femminilità. Ma neanche le più compromettenti dedizioni l’hanno condotta al di là dei vizi naturali: e chi verrà darsi ragione di quelle che paiono le qualità più profonde e conscie, tenendo presente la Duse, avvertirà molto facilmente certi artifici di riflesso e il colore stereotipo di certe analisi minuziose. Per chi sappia guardare, l’isterismo del terzo atto di Casa di Bambola, appena concesso da indiscutibili errori e incertezze di questa estrema esperienza del noviziato ibseniano, sarebbe già sufficientemente significativo. Ma c’è poi la conferma offerta da tutto Bataille di cui ella sfrutta la ridondante tenerezza e imprecisione. Della donna ibseniana e rimasta in Bataille la vuota forma senza l’inquietudine che nasce dal problema o dal maturo desiderio di responsabilità o da una nostalgia di divino. Fanny e Loletta sono creature di carne, andate a male, incomposti moti di materialità, nelle quali l’inquietudine è un fatto fisiologico, è l’anormalità di donne perfettamente sterili. Emma Gramatica ha prestato loro le sue vibrazioni con un entusiasmo che non si saprebbe giustificare se non si pensasse al momento e al modo della popolarità di Bataille in Italia, ossia non si saprebbe giustificare senza dimenticar la leggenda della sua intelligenza d’eccezione e ridurla alle più agevoli misure di un abile calcolo. L’uso e la ripetizione poi hanno ridotto l’esegesi e lo sforzo a ricerche esteriori, hanno costretto l’attrice in un poverissimo mondo di parigina convenzionalità, che ella recita con impeccabile impegno, ma a cui non sa comunicare una commozione e un’interiorità repugnanti del resto al misticismo loquace di Bataille e dei suoi imitatori.
Ma lo schema Nora non è che uno degli itinerari attraverso cui Emma Gramatica ha tentato il mito dell’eroicità: se la prima prova si è esaurita in una veristica rappresentazione di malattia femminile, dovremo esaminare tuttavia che cosa sia derivato dalle ricerche proseguite intorno allo schema Hedda Gabler. E in verità per la figurazione di Hedda Gabler non bastano più le seduzioni cotidiane; occorre un’atmosfera tragica in un mondo indipendente dalla convenzione. La gelida perversità della «Hjordis in busto» deve essere affrontata dall’attrice con serenità d’arte, con severità di ripensamento. E appunto perchè la nordica creatura selvaggia è lontana dall’anima di Emma Gramatica, felice figuratrice) di bimbe selvagge, tormentosamente solitarie, miti e curiose (Scampolo, Cleopatra, Pigmalione, La moglie che sa, ecc.) - o di vivaci e ingenue parodie della malizia (Mirandolina, Zelinda) - ella ha dovuto abbandonare la maniera, ricreare l’ambiente, rinnovare i moti e gli sforzi.
Quasi si sarebbe tentati di convenire che la Gramatica abbia saputo rifare l’unità della sua figura, abbia superato la soluzione di continuità tra la smania distruttiva (che le fa uccidere il figlio di Thea, come avrebbe bruciato i suoi capelli biondi) e l’aspirazione a esprimere qualche opera bella, il bisogno della creazione estetica; perchè i due elementi, distruzione ed estetismo, sono stati rivissuti in vitale identità di solitudine mediante l’ironia opposta alla disgregazione della normalità. Ricondotta Hedda a questa sua originalità poetica parrebbe tolto ogni pericolo di banale teatralità. Solennemente si svolge l’azione dal III al IV atto (nel processo risolutivo tra Hedda e Brak): il trionfo della vergine che rivendica la sua autonomia colla morte è fatto presentire con sicura delicatezza di analisi e la conclusione è misuratissima di emozioni, poiché la catastrofe di questa eroina che precipita per la volontà di perversione (ultimo grido di idealità di una vergine che ha sentito il matrimonio come decadenza) può avere un senso logico ed armonico soltanto quando si svolga con perfetta impassibilità. Così intesa, Hedda Gabler sarebbe stata veramente il cimento di grande attrice della Gramatica. Senonchè questa era la linea fissata, pare, da Eleonora Duse, e ripercorrendo con bravura un difficile cammino non si vede che la buona attrice abbia ritrovato la disinvoltura della confidenza che supera ogni sforzo. Invece di oggettiva aridezza Emma Gramatica s’è piegata talvolta a cercare significati e giustificazioni addirittura umane, non ha avuto il coraggio di condannarsi, non ha saputo vivere con Loevborg 1 inesorabile crudeltà. Bisognerà pur dichiarare che, assumendo con troppo impegno le responsabilità umane della signora Hedda Tessman ella ci ha fatti stare a disagio e ci ha tenuti in pensiero per la sua coerenza morale, preoccupazione che esula affatto dalle sereni contemplazioni conquistate da Ibsen. E il teatro d’arte non dovrebbe per l’appunto farci dimenticare la donna nell’attrice?
Le nostre incertezze si sono definitivamente quietate quando abbiamo riveduto lo schema di Hedda Gabler ne La sorridente signora Beudet. Perchè ostinarsi nelle illusioni? La «Hjordis in busto» della Gramatica è una Hedda da Marcia Nuziale, e tutto il giuoco si direbbe chiaro quando le aspirazioni nordiche venissero riconosciute come una trasformazione sottile di accortezza istintiva delle inquietudini isteriche parigine.
Pure gioverà rallegrarsi con lei perchè invece di unire a Bataille gli infelici candidati all’eredità ibseniana (Sudermann o Hauptmann) ci ha saputi abituare talvolta alle sorprese di un teatro non convenzionale, non tanto per disinteressate ricerche di armonia estetica quanto per istinti va astuzia nel coordinare i ritmi di arti esotiche secondo una singolare vivacità. Chè se altri, ritrovando in cartellone Shaw, Synge, Pirandello, si riterrà incoraggiato a parlare addirittura di genialità estetica, noi sospettiamo che sia più giudizioso applaudire un’incontentabile vaghezza di strane varietà, come se «Il furfantello dell’Ovest», «Pigmalione», «Ma non è una cosa seria», «Cesare e Cleopatra», «Nell’ombra della vallata», fossero preferiti appunto per un gustoso esotismo e per quelle caratteristiche esterne che spiegano la loro coesistenza, nella mente dell’attrice, con «Peg del mio cuore», «Tien Hoa» e altrettali decorative fantasie. Invero è da questi atteggiamenti di serena umiltà e di fine umorismo che scaturiscono assiduamente nella Gramatica le liberazioni dalla femminilità più esasperatamente languida e dalla più sentimentale quotidianità. Il segreto più astuto di questa attrice è nella cantilena del suo sogno. Se talora i suoi accenti di languore non ci stancano, dobbiamo riflettere agli estatici atteggiamenti che ci avvertono appunto i lucidi istanti di disinteresse, le tranquille monotonie della fiaba non vissuta, ma giocata con umorismo di bimba astuta. Emma Gramatica è vera attrice quando si risparmia con calcolata misura e invece di femminili dedizioni ricama sottili episodi decorativi, e aeree fantasie comiche. Solo la vigile arguzia della sua satira, solo il candore che ella insinua nella parodia del manierismo riescono a farci ascoltare con gustosa sopportazione la storia delle «Gelosie di Lindoro». Ma il giuoco ambiguo è diventato così esperta abitudine che neppure i più scaltri ci saprebbero dire talvolta se nel sogno delicato d’ingenuità si riesca a salvare la finzione, o se non resti invece addirittura compromessa l’autobiografia. Sotto le complicazioni supposte dei drammi di pensiero ci sarebbe in tal caso nient’altro che il puntiglio di Mirandolina.