La fine di un Regno/Parte II/Capitolo VIII
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CAPITOLO VIII
All’alba del 4 aprile, i convenuti spari dei mortaletti, in piazza della Fiera Vecchia, non vi furono, perchè alla persona incaricata non riusci di eseguirli, a causa delle pattuglie che percorrevano la città, e dell’occupazione militare delle piazze. Le squadre, che da Misilmeri e Villabate si erano nella notte approssimate alla città, non udendo il segnale, tornarono indietro, e così fecero tutte le altre. La squadra, dov’era il Marinuzzi, quella cioè di ’u zu Piddu, avvicinatasi alla città fino alla sesta casa, sostenne un po’ di scaramuccia con una colonna di truppa, ed in quell’attacco ’u zu Piddu non mancò di confermare quel coraggio freddo, anzi potrei dire fatalistico, onde son dotati i popolani di Sicilia. Tirò molte fucilate, non dicendo una parola e solo cercando di coprirsi l’ampia persona, mentre faceva fuoco. Ma essendo la truppa in numero esorbitante, anche questa squadra tornò indietro. Quelle di Carini e di Torretta si sbandarono per un falso allarme provocato da un cavallo in fuga, e le altre si ritirarono in disordine sulle montagne e vi stettero con varia fortuna fino all’arrivo di Rosolino Pilo e di Garibaldi.
Ma nella città fu peggio. Benchè non avesse udito lo sparo dei mortaletti, Salvatore La Placa, che comandava gli uomini chiusi alla Magione, visto che si faceva tardi e impaziente di altri indugi, usci coi suoi, e transitando per viuzze poco frequentate di quello strano quartiere della Kalza, abitato da pescatori, lavoratori di funi e ricamatrici, e che secondo Giuseppe Pitrè contiene i più legittimi discendenti della razza araba, tentò di congiungersi ai compagni che erano dentro il convento. Ma fatti pochi passi dalla parte detta di Terrasanta, s’incontrò in una grossa pattuglia comandata dal Chinnici e venne con essa alle mani. Vi furono morti e feriti da ambo le parti. Al rumore delle fucilate, Riso e i suoi, saliti alle finestre, si diedero a tirare contro i soldati, a gettare bombe e a suonare la campana a stormo. La Placa, ferito al petto e lasciato a terra per morto, fu pietosamente nascosto da alcuni popolani di buon cuore, i quali, non avendo mezzi per curare la grave ferita di lui, spaccarono in due una gallina viva e, così calda e sanguinante, l’applicarono sulla piaga.
La Placa guarì, e il 27 maggio, all’assalto di porta Carini, fu nuovamente ferito ad una gamba, il che non gli tolse però di entrare in Palermo. Il Riso, che non udiva rumori di fucilate lontane, esortato dai tremanti e stupiti frati a cessare dal fuoco, tentò uscire dal convento, non è ben chiaro, se per trovar rifugio in casa del padre, ch’era a poca distanza di là, o per accertarsi di quel che avveniva in città, e del motivo pel quale la terza colonna degl’insorti non si moveva. Ma appena fuori la porta del convento, stramazzò colpito d’arme da fuoco in più parti del corpo. Arrestato, fu portato sopra un carretto all’ospedale civico di San Francesco Saverio. De’ suoi compagni, alcuni vennero uccisi nel combattimento; altri sopraffatti dal numero, vennero arrestati, o si dispersero, e due trovarono scampo nelle sepolture del convento, dalle quali non furon tratti fuori, com’è noto, prima di cinque giorni.
Sfondata da un obice la porta del convento, i soldati fecero man bassa su tutto; saccheggiarono la chiesa; il padre Giannangelo da Montemaggiore cadde ucciso e i frati tutti, ritenuti complici, furono percossi malamente e tratti in arresto. Questi frati della Gancia, che il romanzo rivoluzionario e le asserzioni borboniche fecero apparire antesignani ed eroi del 4 aprile e, secondo altri, traditori e spie, non furono nè l’una cosa, ne l’altra. Essi ignoravano ciò che era seguito fra il guardiano e il Riso, né il guardiano sospettò mai che il magazzino appigionato al Riso nel vicolo del Soccorso, e allora detto pannuzza della Gancia, dovesse servire ad altri usi, e che insieme alla calce e ai doccioni vi fossero nascosti fucili, bombe e cartucce. L’innocenza loro risultò dal processo, mentre il tradimento non risultò da nessuna testimonianza seria, non potendosi dir tale l’asserzione del De Sivo, che il frate Michele da Sant’Antonio rivelasse il giorno prima a Maniscalco quanto si tramava nel convento. La rivolta del 4 aprile fini con la tragedia dei tredici fucilati e il martirio di Giovanni e Francesco Riso.
Palermo col suo distretto venne posta in istato d’assedio, accentrandosi i poteri nell’autorità militare, rappresentata dal maresciallo Salzano, comandante la prima divisione del corpo di esercito e della provincia e piazza di Palermo. Questi rimise in vigore le ordinanze di Filangieri per i detentori d’arme e i ribelli, coi relativi consigli di guerra, ed insieme a Maniscalco telegrafò a Napoli, atteggiandosi entrambi a trionfatori e ne ebbero lode, com’è naturale. Invocavano un esempio, ed era questo, che i ribelli fatti prigionieri con le armi alla mano e che certo sarebbero stati condannati a morte dal Consiglio di guerra, fossero fucilati al più presto. Erano tredici, e fra essi, il padre di Francesco Riso, estraneo all’azione e forse anche alla cospirazione, e infermo in casa sua quando venne arrestato. Il governo perdette i lumi addirittura, e coi lumi, la coscienza. Furono quei tredici, senza ombra di difesa, condannati a morte e fucilati con procedura infame, dieci giorni dopo la tentata rivolta. Fu cosi orribile l’impressione di quell’eccidio, che i soliti zelanti dissero che il Re volesse graziarli, e ne fosse stato dissuaso dal principe di Cassare. Che quel vecchio, rigoroso reazionario, fosse persuaso della necessità dell’esempio e con lui tutti gii altri ministri, è ben verosimile; ma che del preteso ordine di sospendere le fucilazioni mandato da Napoli, Castelcicala, Salzano e Maniscalco non avessero tenuto conto, è una bugia, perchè la sera del 5 aprile Castelcicala tornò a Palermo; e per quanto mezzo esautorato innanzi al governo, non si sarebbe mai prestato al giuoco.
Il Bracci, nel libro altre volte citato, afferma che il principe di Cassaro riconosceva con Castelcicala e Comitini la necessità di un esempio, mentre il Cassisi, non più ministro di Sicilia, consigliava la clemenza; afferma egli pure che il Re mandò la sera stessa del 4 l’ordine di sospendersi tutte le eventuali sentenze di morte e che quest’ordine telegrafico giunse effettivamente a Palermo, ma non fu eseguito. E non potendo conciliare il predetto ordine con l’eccidio, né volendo concludere che il Re, affermando di aver sospesa ogni sentenza di morte, avesse detta una cosa falsa, conchiude colle parole: “un mistero ricopre questo tremendo fatto: il tempo solo potrà squarciarne il velo!„. Il mistero non può essere che questo: Francesco II, mitissimo d’indole, forse manifestò la sua inclinazione di fare la grazia, anche perchè quel tentativo di sommossa non ebbe conseguenze serie, ma dissuasone dai suoi consiglieri, convinti della necessità di dare un esempio, non ebbe la forza di fare da se. Era tradizione della diplomazia napoletana quella di scagionare il Re di cose in nessun modo giustificabili. Si era fatto altrettanto per Agesilao Milano e il barone Bentivegna.
A Palermo regnava il terrore. I più compromessi, come i due Pisani, andarono a nascondersi in casa del maestro D’Asdia, loro stretto congiunto, e vi stettero sino al 3 maggio. Sapendo che la polizia li ricercava insistentemente, come autori principali della rivolta, potettero con mille malizie trovare rifugio sopra un legno da guerra sardo, che li condusse a Cagliari. Altri fuggirono in campagna, sopportando una vita di pericoli, di emozioni e di patimenti, o trovarono sicurezza oltre mare. Il Marinuzzi non rientrò a Palermo che il 27 maggio, con Garibaldi.
Maniscalco, dopo l’arresto di Riso, ebbe in mano le fila della cospirazione. Non era uomo da mezzi termini. Allo zelo per la causa che serviva, si era aggiunto l’interesse di scoprire gli autori del suo attentato. Per lui non vi era dubbio che autori ne fossero quelli stessi, i quali avevano organizzata la rivoluzione del 4 aprile, e principalmente quei giovani nobili, denunziati poi dal Riso. Bisognava mostrare che il governo non aveva riguardi per nessuno. Seppe che in casa del principe Antonio Pignatelli erano raccolti, la sera del 3 aprile, il barone Giovanni Riso, il principe Corrado Niscemi, il principe di Giardinelli Giovanni Notarbartolo, noto anche lui col titolo di cavalier Sciara. Vi erano andati per aspettare i risultati della rivoluzione e tenersi pronti a costituire un governo provvisorio. La mattina del 7 aprile, con grande apparato di soldati e compagni d’arme, Maniscalco fece cingere d’assedio il palazzo Monteleone all’Olivella. I particolari dell’arresto, non privi d’interesse, furono narrati da Antonio Pignatelli in un suo opuscolo,1 dove è riferito pure il magnanimo atto di Corrado Niscemi, il quale, non essendo compreso fra gli arrestati, volle dividerne la sorte e rifiutò di separarsi dai compagni e fu arrestato con loro. Ammanettati fra i gendarmi, quei giovani animosi, traversando via Toledo a piedi, furono menati alle grandi prigioni. Chiusi nel compartimento cellulare, destinato ai reati politici, vennero sottoposti al trattamento più rigoroso, che poi fu mitigato, perchè troppo ne soffriva il padre Lanza, la cui salute malferma destava inquietudini. Nessuna comunicazione col mondo esterno, neppure fra cella e cella. Una notte furono svegliati dal carceriere, accompagnato dal capitano De Simone, che impose loro di seguirlo. Il carceriere faceva segni, come per avvertirli che sarebbero stati fucilati; invece furono condotti, con grande apparato di gendarmi al forte di Castellamare e consegnati a quel comandante, ch’era il colonnello Briganti, il quale non fu loro avaro di riguardi. Maniscalco voleva deferirli al Consiglio di guerra, ottenerne sentenza di morte per complicità necessaria e disfarsene senza tante lungaggini, ma nè Castelcicala, nè il governo di Napoli lo permisero, non essendo quei giovani asportatori, nè detentori di armi, ne essendo stati arrestati in azione. L’animoso avvocato marchese Maurigi parlò efficacemente a Castelcicala, e lo convinse dell’assoluta illegalità del procedimento voluto da Maniscalco. L’altissima posizione sociale di quei giovani fu quella veramente che li salvò; vennero deferiti ai tribunali ordinari, e non era peranco terminata l’istruttoria, quando Garibaldi entrò a Palermo.
Gabriele Cesarò, allora più noto col titolo di marchesino di Fiumedinisi fu arrestato il giorno 8 aprile, e il giorno 11, nelle ore pomeridiane, il padre Ottavio Lanza, a bordo d’un clypper americano, dove si era rifugiato dopo l’arresto dei suoi amici. Ve l’accompagnarono sua sorella, la contessa Tasca d’Almerita, coi suoi quattro figliuoli, fra i quali era il giovinetto Giuseppe, ora deputato al Parlamento. A bordo del clypper, che si chiamava Taconnay, era il proprietario e armatore ad un tempo, nè costui, nè l’equipaggio parlavano altra lingua che l’inglese. L’arresto avvenne in circostanze curiose. Il Ottavio Lanza leggeva nel salotto del clypper, quando si avvicinarono al bastimento tre barche con ufficiali e guardie di polizia, chiedendo di salire a bordo. Il proprietario permise che salissero due persone solamente. Una di esse era l’ispettore Puntillo, il quale, entrato nel salotto e visto il Lanza, lo avvicinò, e senza malgarbo gli disse che aveva ordine di arrestarlo e mostrò l’ordine firmato da Maniscalco. Il proprietario e l’equipaggio, informati dalla giovane contessina Tasca, ora principessa di Scalea, che parlava bene l’inglese, del motivo per cui quei due erano saliti a bordo, intendevano fare opposizione anche con la forza. Il padrone dichiarava che, essendo il legno di nazionalità americana, nessuno aveva il diritto di fare arresti a bordo; ma il Puntillo mostrò un foglio del console americano, il quale autorizzava la visita e l’arresto. Il padre Ottavio, che conservò una grande serenità di spirito, pregò i parenti e l’equipaggio di non fare inutili opposizioni, e disse al Puntillo che era pronto a seguirlo. Fu fatto scendere in una delle barche della polizia, accompagnato dal pianto dei parenti e dalle invettive degli americani contro il governo borbonico. Venne condotto alle grandi prigioni, e poi al forte di Castellamare, dov’erano i suoi amici. Gioverà forse sapere che gli americani e gl’inglesi, residenti a Palermo, saputo l’atto inesplicabile del console americano Baston, ne fecero solenne protesta al governo degli Stati Uniti, che mandò un bastimento da guerra per fare un’inchiesta, dopo la quale il console venne rimosso e poi destinato altrove.
I nobili arrestati erano sette, non tutti quelli indicati dal Riso, ma solo quelli, che credettero dover loro rimanere a Palermo nel momento del pericolo, cioè il padre Ottavio Lanza, Antonio Pignatelli, Corrado Niscemi, Giovanni Riso, il principe di Giardinelli, Gabriele Cesarò e Giovanni Notarbartolo, fratello del povero Emmanuele, che aveva preso volontario servizio nell’esercito sardo. Non è credibile l’impressione che produssero questi arresti in Sicilia, a Napoli e in tutta Italia. Erano davvero i più chiari nomi della nobiltà siciliana. A Torino corse voce che fossero stati fucilati. Il potere di Maniscalco appariva anche maggiore di quello che realmente era, anzi appariva l’unico potere resistente. Il marchese di Spaccaforno, con l’aria sua consueta tra lo scettico e l’indifferente, diceva che il governo sarebbe stato più forte, se, dopo i fatti del 1848, avesse ascoltato il consiglio di suo padre. Cassare, e anche il consiglio suo e di Cassisi: decapitare Palermo, portando la capitale a Messina o a Catania.
Francesco Riso denunziò scientemente la congiura e i congiurati? Ecco un punto interessante, sul quale non si è fatta ancora una chiara luce. Il La Lumia, che scrisse sotto l’impressione dei fatti avvenuti pochi mesi prima, rappresenta il Riso come un eroe, e narra che Maniscalco andò personalmente a vederlo, promettendogli la grazia anche del padre, se avesse rivelato i complici, ma non ne ottenne nulla; e fu invece la polizia, che, dopo quel colloquio sparse voce di avere il filo di tutta la trama, nella speranza di promuovere confessioni spontanee da parte di altri, ma “fu turpe e scellerato artifizio„, conclude il La Lumia. 2 Trentasette anni dopo, anche il De Marco3 rivendicò la memoria del Riso, pubblicando, fra i documenti, le testimonianze dei medici, che lo curarono e assistettero fino allo morte, ed escludenti ogni rivelazione da parte di lui. Ma nè il La Lumia, nè il De Marco si dettero cura di studiare il processo del 4 aprile.
Casimiro Pisani, juniore, invece riteneva il contrario, documentando l’affermazione con prove inconfutabili. A lui era riuscito avere in mano quel processo, miracolosamente sottratto al saccheggio, che si fece nella cancelleria del tribunale, dopo l’entrata di Garibaldi. Il Pisani, dunque, leggendo le deposizioni di Francesco Riso, constatò “che egli tutto aveva rivelato; che aveva “indicato tutti i cospiratori, dei quali conosceva i nomi, ma “specialmente su di me (Pisani) aveva riversato tutte le responsabilità, giungendo perfino a dire, che aveva saputo unicamente da me taluni fatti, dei quali egli era stato partecipe e testimone„. Il Pisani copiò integralmente le deposizioni di Riso e ne fece tre copie. Quel processo subì stranissime vicende, che bisogna rivelare, perchè sono davvero caratteristiche. Al Pisani lo fece chiedere il barone Rocco Camerata Scovazzo, da Ignazio Federico; e qui sarà bene che io lasci la parola al Pisani stesso, che, poco tempo prima di morire, mi scrisse cosi:
Queste vicende, veramente curiose, potrebbero far sorgere dei dubbi circa la genuinità delle deposizioni di Riso; ma per rendersi conto di questi dubbii, occorre avere innanzi il testo preciso e le date delle deposizioni di lui. Riso depose tre volte: il giorno 6 aprile, la dimane dell’insurrezione; il 17, dopo la fucilazione del padre e il 22 dello stesso mese. Il testo è quale oggi si legge nel volume del processo, esistente nell’archivio di Stato di Palermo.
Al giudice del circondario Tribunali, il 6 aprile, Francesco Riso rese il seguente interrogatorio:
R. — Signore, ieri mattina circa le ore 10 1/2 d’Italia allo uscire di casa fui inseguito dalla forza militare e di pulizia, ed asilatomi dentro il Convento della Gancia, quivi fui ferito da colpo di arma a fuoco non so perchè e individualmente da chi.
D. — Perchè usciste da casa a quell’ora?
R. — Perchè attendeva come è solito a quell’ora i maestri pontonieri miei salariati per lavorare.
D. — Dove dovevate andare a lavorare?
R. — Non aveva destino determinato perchè me ne aspettavo l’inchiesta dai miei dipendenti. Dessi posso indicarli per nome e sono Giambattista, Cosimo, Federico, Giovanni, Mariano.
D. — Erano venuti?
R. — Io non potei ciò vedere, perchè come scesi da casa fui aggredito dalla forza pubblica e mi asilai tantosto nel Convento della Gancia.
Dichiara non potere firmare.
La seconda dichiarazione, fatta al giudice Prestipino, il 17 aprile, è la seguente;
D. — Cosa volete rapportare?
R. - Per serenità di mia coscienza e per tutto quello che di male ne potrebbe venire appresso contro la mia patria debbo dichiararle che sin da due mesi indietro fui parlato da don Casimiro Pisani ad oggetto di far parte con altri e riunire della gente per suscitare una rivolta in Palermo e così armandoci tutti contro le autorità cambiare la forma dell’attuale Governo.
Richiesi io il Pisani chi si erano le persone che facevano capo in tale rivolta; mi disse che vi erano il barone Riso, il figlio del Duca di Cesare, cioè il Duchino, il barone Cammarata, quello che abita sulla strada Macqueda sotto la casa del patrocinatore Calamaro, il figlio del Duca diD. — Chi erano le persone che apprestavano le armi e le munizioni da guerra?
R. — La polvere la comprava per mezzo di don Nenè Rammacca, che era uno dei congiurati coi sudetti individui. Desso si prendeva il danaro dei suaccennati soggetti, si pagava prima la polvere che me ne diede da circa ad un quintale, ed il rimanente del danaro lo passava a me ed io compravo dei fucili per mezzo di diversi giovani che li avevano occultati e per mezzo di diversi villici, di cui in questo momento non ricordo i rispettivi nomi e cognomi. Cosi comprate tali armi le occultava porzione in un magazzino eh© teneva in fitto nel Convento della Grancia ed altra porzione in un magazzino allo Spasimo e propriamente vicino la Magione, che un maestro fallegname aveva preso in affitto da una donna. In detto magazzino venivano occultate le coppole coi nastri tricolori, le granate, che da un giovane fonditore di ferro si costruivano in una fonderia fuori porta di Termini all’insaputa del suo principale, come ancora fondeva le lance. Vi si ripostava anche la polvere ed altre munizioni da guerra.
D. — Indicateci i nomi e cognomi del fallegname che fitto il magazzino e di colui che fondeva le granate e le lance.
R. — Mi sento male, non ricordo in questo momento detti nomi e cognomi. Mi sovviene però che il fallegname mori sul conflitto alla Gancia quando io fui ferito.
D. — I religiosi della Gancia avevano scienza di tale attentato e delle munizioni che voi occultaste in detto loro magazzino?
R. — Non Signore, sono tutti innocenti. Uno di quei religiosi, che mi disse essere il Guardiano, mi affittò quel magazzino due mesi addietro per onze 4, me ne rilasciò il ricevo che io conservai in casa mia. I fucili e le munizioni da guerra li portava io stesso di notte o di giorno nascostamente senza farmi vedere dai religiosi e da chicchessia. Oh! fermo .... Ora ricordo che il maestro che fittò il magazzino presso la Magione chiamavasi maestro Michele fallegname e murifabro che abitava nella strada del Capo, oggi ucciso.
D. — Rapportateci da chi era stata stabilita la giornata per succedere la rivoluzione.
R. — I suocennati soggetti, capi della cospirazione, stabilirono fra di loro che il giorno 4 aprile all’alba doveva attaccarsi il fuoco da me alla Fieravecchia.
Venne da me il sudetto Pisani e fecemi sentire tale puntamento; io allora chiamai diversi giovani che erano uniti con me, li feci venire alla mia casa, che resta vicino la Gancia, dovendo dire che eravamo riuniti per fare dei lavori nella mia casa. Venuti con effetto all’alba del detto giorno, porzione si armarono di quei fucili che trovavansi nel Magazzino alla Gancia, ed una porzione di individui si recarono ad armarsi nel Magazzino sopra la Magione. Io intanto mandai una persona alla Fieravecchia, luogo destinato per incominciare il fuoco, onde conoscere se fosse arrivata la squadra che era destinata ad aspettare me in quel locale.
Questa ancora non era venuta. Era fatto tardi ed intesi che il fuoco era cominciato alla Magione. Allora io con i miei compagni cominciammo a far fuoco propriamente nel Vico della Gancia contro i compagni d’armi e del Capitano d’armi Chinnici e della polizia, e non potendo più starci a fronte ci trincerammo nel Convento della Gancia, discassando una porta dalla parte di Terrasanta per salire sopra il Convento. Cosi saliti cominciammo a far fuoco contro la truppa e la polizia da sopra le tegole. Indi io cominciai a suonare la campana per convocar gente. Vedendoci perduti e che nessuno veniva in soccorso, lasciai le armi, discesi per andarmene in casa. Arrivato vicino il portone della Gancia pria di sortir fuori la forza pubblica e i militari mi vibrarono sei fucilate e così caddi a terra ferito e non potei recarmi più in casa mia e nulla più vidi e intesi.
D. — Diteci, foste voi qualche volta in riunione coi succennati capi della setta? Nell’affermativa diteci cosa si parlava e che si stabiliva.
R. — Non signore, io giammai intervenni nelle riunioni che si facevano forse una volta a turno in casa dei riferiti soggetti. Una sola volta accostai il barone Riso e parlammo di cose tutte estranee alla cospirazione; anzi qui mi ricordo che io rimasi di sotto di due. 300 per la compra fatta di fucili e munizioni e che il Pisani doveva portarmi ma non li ricevei più.
D. — Narrateci se tale riunione portava qualche nome proprio.
R. — Si signore, ci sentivamo tra di noi col nome di congiura.
D. — Indicateci i nomi e cognomi di tutti coloro che erano associati con voi per fare la rivolta, e che stipendio gli corrispondevate ogni giorno.
R. — Gli individui che dovevano far fuoco nella mia squadra erano cinquanta procurati da due miei confidenti Francesco La Chiena e un certo Antonino il di cui cognome non mi ricordo in questo momento, ambidue muratori, ai quali quel giorno che si fece fuoco di mercoledì santo contro la forza pubblica e la truppa gli diedi onze 10 per dividerle fra di loro e dal giorno seguente in poi dovevano percepire il soldo di tari 4 al giorno per uno. I cennati due individui conoscono i nomi e cognomi degli altri cinquanta.
Ora però mi è stato detto che i detti due muratori trovansi in arresto.
D. — Indicateci a quanti ascendevano i fucili che trovavansi conservati.
R. — Da circa a 70 ed altri ve ne erano incompleti, cioè, o senza grillo o senza fascetta o mancanti di tenieri che si dovevano costruire.
D. — La rivolta doveva forse avverarsi in altro tempo, o era definitivamente stabilita pel 4 aprile?
R. — Giorno stabilito non ve ne era, dapoichè si aspettava una organizzazione tra noi perfetta ad associarsi un numero maggiore di persone per formare la congiura; quando poi venivano dalla polizia ricercati l’avvocato Perrani ed un certo Indelicato, due dei nostri congiurati, dubitando che la congiura si poteva conoscere dalla polizia, né fu perciò che si stabilì il giorno 4 aprile per mandarvi ad esecuzione la rivolta. Di fatti un giorno o due prima si fece conoscere a tutte le persone associate alla congiura che si era stabilito detto giorno per mandarsi ad effetto; ed a me fu comunicato l’ordine da don Casimiro Pisani, ed io lo feci sentire ai miei, e così egli eseguì con gli altri che io non conosco.
D. — I fatti che finora mi avete narrato si conoscevano da altre persone? Nell’affermativa indicatele.
R. — Dette notizie che io le ho date si maneggiavano da me con Pisani.
Egli al certo conosce delle altre persone alle quali faceva le stesse confidenze che con me e che io non conosco per non avermele giammai confidate, all’infuori dei Capi della rivolta, barone Riso e comp, che di già le ho dichiarato, e che più volte egli il Pisani mi riferiva quando mi portava il danaro dai medesimi contribuito.
Datagli dal Cancelliere funzionante lettura egli, il Riso, ha modificato solamente che le surriferite operazioni si praticavano da lui solamente comprando gli oggetti, i fucili e le munizioni senza che il Pisani fosse intervenuto in tali compre.
L’ultima deposizione del 22 aprile, fu la seguente:
D. — Cosa volete rapportarci?
R. — In continuazione della mia precedente dichiarazione innanzi a Lei fatta mi sono ricordato che fra gli individui associati per far fuoco il mattino del 4 aprile corrente contro le truppe e la polizia alla Gancia onde mandare ad effetto la rivolta e così cambiarsi la forma dell’attuale Governo vi era Filippo Martillaro fallegname, e questi quello stesso giorno fece parte della divisione delle onze 10 da me state consegnate a Francesco La Chiena per dividerle fra tutti gl’intervenuti alla Gancia in quel giorno, che credo che erano circa 22.
Debbo dirle ancora per serenità di mia coscienza che colui che attentò alla vita del Sig. Direttore di Polizia si fu un Palermitano con un coltello avvelenato, e che aveva avuta la promessa di onze 200 sebbene non conosco da chi.
Questo fatto lo appresi dopo consumato l’attentato da persone che nel proposito tennero discorsi.
D. — Potete indicare le persone che tennero tal discorso e con chi parlavano?
R. — Non ricordo in questo momento chi si fossero state tali persone. Parlavano tra di loro ed io le avvicinai perchè miei conoscenti.
D. — Conoscete forse se la cospirazione e lo attentato contro la sicurezza interna fosse stato spinto ed agevolato da qualche potenza estera?
R. — Credo che no, giacché tra congiurati giammai ebbi a sentire discorso che alcuna potenza estera spingeva ed agevolava la rivoluzione che doveva aver luogo in Palermo.
Queste furono le deposizioni giudiziarie. Quelle da lui rese all’ospedale, la mattina stessa dell’arresto, dove giunse più morto che vivo, mi sono riferite da un superstite che fu testimone oculare, il padre Calogero Chiarenza, cappellano assistente nell’ospedale stesso. “La mattina del 4 aprile del 1860, prima di mezzo giorno — scrive il Chiarenza — venne trasportato all’ospedale, accompagnato da soldati e da gendarmi, Francesco Riso. Si vedeva un uomo elegantemente vestito, con gli occhi chiusi, che di tanto in tanto li apriva, e saettavano, guardando i cu riosi che gli stavano intomo. La bocca era chiusa, né io gli sentii proferire un minimo lamento: stava muto come una statua. Questa scena avveniva avanti il portone dell’ospedale, dove si trovava il cavaliere Salesio Balsano, amministratore del pio luogo. Questi ordinò che il ferito fosse trasportato nell’infermeria dalle persone addette al servizio dell’ospedale. L’uomo, che guidava il carretto, e i soldati che l’accompa gnavano, tornarono indietro. Riso fu trasportato sopra una barella nell’infermeria, al secondo piano; adagiato sopra un letto, venne subito interrogato, com’è di uso, dall’infermiere maggiore, Antonino Gallo. Prima domanda: Come vi chiamate? - Risposta: Francesco Riso di Giovanni. — Seconda domanda: Quanti anni avete? - Risposta: Ventott’anni circa. — Terza domanda: Che mestiere o professione esercitate? - Risposta con voce vibrata: Congiurato. — L’infermiere qui gli disse: Dovete rispondere alle mie domande. - E lui: Cospiratore per l’unità d’Italia con Vittorio Emanuele. — L’infermiere rispose: Noi conosciamo per nostro Re Francesco II„. Ad altre domande, chiusi gli occhi, non rispose più„.
Fermiamoci un po’ sulle une e sulle altre. In questa prima deposizione Riso dà prova di eroismo, e così pure in quella del giorno 5, innanzi al giudice. La seconda, quella del 17, è veramente deplorabile. Egli riferisce tutto ciò che sapeva, con nomi, cognomi e particolari. Se per giustificarla in qualche maniera, si potrebbe osservare che gli arresti del Pignatelli, del Lanza e dei loro amici erano già avvenuti, non puossi però non notare, che altre misure di rigore furono prese dopo quelle rivelazioni. Che i giovani signori, tratti in arresto, fossero ben noti alla polizia, basterebbe a dimostrarlo la nota di Castelcicala al governo di Napoli, relativa alla partenza da Palermo del Benza, con l’annotazione: S. M. resta inteso ed ordina che si sorveglino rigorosamente; ma non è men vero ch’essi erano sub iudice, benché prove dirette non si avessero contro di loro. Quelle prove non sorsero che dalle affermazioni del Riso. D’altra parte è così inverosimile il fatto che la polizia, quella polizia, avesse lasciato in pace per dodici giorni, un uomo che poteva morire da un momento all’altro, senza tentare ogni mezzo per strappargli delle rivelazioni, che non si può respingere il dubbio, che l’interrogatorio, registrato ufficialmente dall’autorità giudiziaria il 17 aprile, fosse la conferma di precedenti confidenze, strappate da Maniscalco, recatosi più volte ad interrogare il Riso all’ospedale.
Per fare una maggior luce su questo disgraziato incidente, io volli, dunque, interrogare Io stesso don Calogero Chiarenza, che assistette il Riso con un affetto e un coraggio veramente esemplari. Il Chiarenza, che ha settantasette anni, ritiene che il Riso non avesse fatto al Maniscalco delle esplicite dichiarazioni nelle varie volte che questi andò all’ospedale, ma suppone, con forti dubbi, che, abbindolato dal direttore di polizia, il quale gli lasciò sperare la vita del padre, uscisse in qualche rivelazione. E qui sarà bene riferire le parole stesse, contenute nella preziosa lettera del Chiarenza, che porta la data del 31 luglio del 1898. “Un giorno, che non posso precisare — sono sue parole — Francesco Riso fecemi segno di volermi parlare; l’avvicinai, e senza precauzione mi domandò cosa sapessi di sua padre. Io non gli risposi, perchè eravi una guardia di polizia seduta rimpetto al letto dell’ammalato; lui capì, ma io, volendolo veramente informare, mi riserbai di farlo per la notte seguente. Mi provvidi del Giornale di Sicilia, che riferiva i nomi dei tredici fucilati. Come cappellano assistente ai moribondi, essendo ogni notte di guardia, e potendo nel percorrere le infermerie avvicinare gli ammalati, per i conforti religiosi, vidi che la guardia di polizia, di piantone al letto di Riso, dormiva e russava; mi accostai al letto, e con tutta precauzione, al lume di un piccolo fanale ad olio, che noi cappellani assistenti portavamo di notte per le infermerie, avvicinatomi al letto di Riso, gli mostrai il giornale, e gli feci leggere i nomi delle tredici vittime. Quando giunse al nome del padre suo, che era il sesto o il settimo fra gli annotati, si sbigottì, non potè proferir parola, prese il lenzuolo fra i denti, e dopo alcuni istanti, mi chiese risolutamente se si potesse avere una pistola, perchè avutala avrebbe chiamato Maniscalco, fingendo volergli parlare, e quando se ne fosse andato, nel voltare le spalle, avrebbegli sparato come un cane: lo giuro sull’ara dell’onore e della verità, mi disse. La pistola dopo due giorni di ricerca mi fu apprestata da un tale Palumbo di Trapani, studente di medicina allora in Palermo. Avuta la pistola con le solite precauzioni e con molto terrore e spavento, perchè eravi lo stato d’assedio e si correva pericolo della fucilazione, la consegnai al Riso, che a cagione dello sfinimento delle sue forze non era in grado di adoprarla, e la pistola ritornò allo studente Palumbo„.
Il Chiarenza, che ha serbato un vero culto per la memoria del Riso, e di tutto informò in quei giorni il suo amico Rocco Ricci Gramitto, col quale abitava, fa anche un’osservazione non priva di verosimiglianza. Egli dice: “Non credo che Francesco Riso abbia rivelata la cospirazione, ma bisogna conoscere, che ebbe le febbri di assalimento per cagione delle varie ferite ricevute, e perciò la testa non era sempre a posto. Io per verità non so nulla di preciso, ma il mio forte dubbio sta in questo: che o fu sedotto da Maniscalco nelle varie volte che veniva all’ospedale, promettendogli di liberare il padre, mentre il padre era fucilato; o che Maniscalco profittasse dei momenti di delirio febbrile dell’infermo, per sapere qualche cosa, tanto ripugna che il Riso, il quale mori il 27 aprile, abbia rivelato cospirazione e complici„.
E ricostruendo, dopo tanti anni, questi fatti e circostanze, si può dedurne che Francesco Riso, ferito a morte, non era del tutto padrone di sè; che, credendosi abbandonato dai membri del Comitato, ma soprattutto dai signori, volesse vendicarsi di loro, e in ispecie di Casimiro Pisani juniore, al quale non aveva perdonata l’inchiesta e una risposta piuttosto sprezzante, fattagli la sera del 3 aprile, quando egli, Riso, aveva chiesto se si sarebbe chiuso anche lui, Pisani, nella Gancia; e che infine, amantissimo di suo padre, infermo e innocente, non avesse resistito al desiderio di salvarlo. L’ira, onde fu preso, quando seppe dal Chiarenza che il padre era stato fucilato fin dal 14, tre giorni prima della fatale deposizione, — ira che accelerò la morte — spiega non solo l’immensa sua pietà filiale, ma il proposito di vendicarsi di colui, che l’aveva così iniquamente ingannato. Riso potè avere delle attenuanti, e in ogni caso non fu un traditore obbrobrioso, ma piuttosto una vittima. Le sue rivelazioni, dopo tutto, non costarono la vita a nessuno. Rimane poi escluso in maniera assoluta, che il Camerata Scovazzo inventasse lui tutta intera la deposizione di Riso, perchè il Camerata era ignaro di tanti particolari, noti soltanto a chi, come il Riso, faceva parte della cospirazione. Il Camerata, è vero, non vi era estraneo coi suoi fratelli, ma vi ebbe una parte così secondaria, che senti il bisogno di accrescersela, per ottenere la nomina a senatore: nomina, che ebbe difatti nel 1865, quando finì di rappresentare il collegio di Serradifalco. E per quanto infine si voglia ritenere, che, anche dopo la morte del Riso, Casimiro Pisani, juniore, trapassato da meno di due anni, non avesse perdonato a Riso qualche sua leggerezza o vanità giovanile, non si può in nessun modo ammettere che egli asserisse il falso, quando affermava a tanti ed a me, ciò che ho riferito e che del resto risulta dal processo.
Questi Camerata Scovazzo erano originarli di Catania, ma dimoranti a Palermo: liberali tutti e tre e possidenti discreti. Rocco, autore della sostituzione del foglio, morì nel 1892 nella sua città natia; e i fratelli, morti anche loro, furono deputati: Lorenzo, di Acireale e Francesco, di Mistretta.
Con le fucilazioni, gli arresti, il disarmo e i consigli di guerra, la rivoluzione parve domata, ma lo spirito pubblico, soprattutto a Palermo, era in uno stato di tensione ed eccitazione incredibile. Si potrebbe affermare che tutta la città fosse divenuta una sola fucina di cospirazione. È caratteristico un rapporto, che in quei giorni Maniscalco mandava al ministero a Napoli: “È notevole, egli scriveva, che il mutamento, che va accentuandosi nella propaganda, che gl’istigatori di disordini vanno facendo; mentre pel passato si è parlato solamente di voler attentare all’attuale ordine di cose per cercar di conseguire la separazione dalle provincie napoletane, adesso si accenna a principii unitarii, a riunione con l’Italia superiore„.
Altri uomini sostituirono nella direzione del movimento quelli del 4 aprile. Ricordo il dottor Gaetano La Loggia, il quale era a conoscenza di quanto si preparava, ma non vi prese parte attiva, credendo intempestivo il movimento. Era uomo di molta autorità e fu, finche visse, direttore del manicomio di Palermo. Ricordo ancora l’avvocato Pietro Messineo, Pietro Naselli e Ignazio Federigo. L’opera di costoro, che fu brevissima, si limitava a pubblicare proclami eccitanti il popolo alla ribellione, a promuovere dimostrazioni e subbugli per le strade, a spargere cartellini umoristici contro la polizia, a tener vivo insomma il fuoco della rivolta. Un giorno si dava l’ordine di non doversi andare per via Toledo, e nessuno vi andava; un altro giorno, che tutti dovessero andare in via Macqueda e tutti vi correvano; un altro giorno, che non si dovesse giocare al lotto e nessuno giocava. Messineo aveva una tipografia clandestina, che a Maniscalco non riusci di scoprire. Forse ebbe dei sospetti per La Loggia ma non osò toccarlo, perchè questi, come ho detto, aveva curato qualche tempo prima un figliuolo di lui; ma un giorno corse anche voce che La Loggia fosse stato tradotto in arresto, ma fu voce destituita di fondamento.
Tale era lo stato degli animi, quando si seppe che Rosolino Pilo era sbarcato a Messina, dopo un fortunoso viaggio. Pilo aveva a Palermo amici, parenti e partigiani in gran numero: era un patrizio di famiglia retriva, audacissimo, simpaticissimo e mazziniano ardente. Da Messina potè condursi nelle vicinanze di Palermo, all’Inserra, presso i Colli, dando prova di un’audacia che ha dell’inverosimile. Egli era col Corrao e qualche altro compagno. Marinuzzi ne fu avvertito e andò a trovarlo, e insieme si scambiarono più timori che speranze. Le squadre tenevano ancora le montagne, ma erano stremate di numero e di fede, e alcune si erano sciolte. Pilo confidò a Marinuzzi che tra pochi giorni Garibaldi sarebbe sceso in Sicilia, e che perciò bisognava tener alto ed eccitato lo spirito pubblico, e impedire a qualunque costo che le ultime squadre si sbandassero. La venuta di Garibaldi, egli disse, avrebbe riacceso il fuoco e aveva ragione. Senza Garibaldi, che era stato invocato dai patrioti di Palermo e di Messina fin dall’anno innanzi, quando era alla Cattolica, qualunque altro tentativo sarebbe stato pazzo. “Noi, mi scriveva Casimiro Pisani, lo pregammo pregandolo di veder modo come portare quei suoi volontari in Sicilia, dove il terreno era preparato, lo spirito pubblico eccitatissimo, e il suo arrivo avrebbe fatto divampare l’Isola intera. Garibaldi ci rispose, accennando brevemente le ragioni, per le quali non poteva fare ciò che da noi si chiedeva e terminando colla seguente promessa: “Fate che in un angolo della vostra Isola sventoli una bandiera italiana, e siate sicuri che io ed i miei amici accorreremo ad aiutarvi„. Questo fatto, conchiudeva il Pisani, lo asserisco sulla mia parola, e fui io stesso che in momenti pericolosi dovetti distruggere quella lettera, insieme con molti altri documenti„.4 Ma chi veramente indusse Garibaldi a far la spedizione, appena un mese dopo il 4 aprile, fu Francesco Crispi, il quale, prima a voce e poi in iscritto, aveva promesso agli amici di Sicilia che, al primo annunzio di rivolta nell’Isola, Garibaldi vi sarebbe sbarcato, per mettersi alla testa della rivoluzione. Il nome del duce era popolarissimo nell’Isola, come lo era nelle provincie continentali del Regno. “Il di lei affacciarsi in questa contrada non sarebbe meno della tromba del giudizio che nella gran notte richiama gli estinti, gli scriveva il Comitato di Messina; venga, signore, e questa contrada risuonerà i suoi vesperi„.5
Note
- ↑ Fatti storici della rivoluzione del 1848 in Sicilia, raccolti dal Principe Antonio Pignatelli di Monteleone.— Napoli, Stab. tip. dell’Unione, 1878.
- ↑ Isidoro la Lumia, La restaurazione borbonica e la rivoluzione del 1860 in Sicilia, dal 4 aprile al 18 giugno. Ragguagli storici. — Palermo, 1860.
- ↑ Emanuele de Marco, La Sicilia nel decennio avanti la spedizione dei Mille. — Catania, Monaco e Mollica, 1898.
- ↑ Negli ultimi fascicoli dell’Archivio storico Siciliano, che pubblica quella benemerita Società di storia patria, il signor G. Paolucci ha stampato un interessante studio, dal titolo: Rosolino Pilo, memorie e documenti, dal 1857 al 1860. È quanto di più completo si sia scritto finora sopra la figura più temeraria dell’insurrezione siciliana. Pilo fu davvero il precursore di Garibaldi; fu colui, che tenne vivo il fuoco della rivolta in quel mese di maggiori sgomenti, che corse dalla tentata e soffocata insurrezione della Gancia, allo sbarco a Marsala. Morì combattendo a San Martino, il 21 maggio. I documenti pubblicati dal Paolucci gettano molta luce sugli avvenimenti di quei giorni.
- ↑ Cospirazione e rivolta, monografia di Raffaele Villari. — Messina, tip. D’Amico, 1881.