La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XVI
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CAPITOLO XVI
La Sicilia aveva tre Università, a differenza delle provincie continentali, le quali ne avevano una sola. Le Università di Sicilia contavano gloriose tradizioni, ed hanno avuto recentemente qualche storico di valore. Dal 1849 al 1860 le tre Università ebbero insegnamenti incompleti, e soltanto quella di Palermo contava un numero discreto di studenti perchè poteva accoglierne da quattro provincie, mentre l’Università di Catania raccoglieva quelli di Catania e Siracusa, e Messina solamente quelli di Messina. Benchè a Palermo convenissero gli studenti di quattro provincie, nondimeno il loro numero di rado superò i 500, fra tutte le cinque facoltà; anzi nell’anno scolastico 1853-54 furono 407, nel 1854-55, forse a causa del colera, discesero a 364. Il maggior numero era di studenti di diritto; scarsissimi quelli di filosofia e lettere; irrisorio il numero degli studenti nella facoltà di teologia. Il giovane clero preferiva l’insegnamento dei seminari, benchè all’Università insegnasse diritto canonico quell’abate Crisafulli tuttora vivente, ha ripreso il collare, che smise nei primi giorni della rivoluzione, non è più professore, nè economo generale dei benefizi vacanti, ed è oggi nelle grazie dell’arcivescovo Celesia, al quale non parve vero che il Crisafulli lasciasse l’ufficio e tornasse all’ovile.
Il rettore, il maestro di spirito e il bibliotecario erano di nomina regia, su proposta della commissione di pubblica istruzione, e a Palermo si dovevano scegliere tra i padri Teatini della casa di San Giuseppe, rimanendo in vigore una curiosa disposizione, contenuta in un rescritto del 1805, che concedeva i tre ufficii a quei frati, in compenso di una parte del locale che essi cedettero all’Università. Gli Studii siciliani avevano, nominalmente, sei facoltà: teologia, giurisprudenza, medicina, fisico-matematica, filosofia e lettere e belle arti; ma, dove più dove meno, queste facoltà erano, come già si è detto, incomplete. Sembra strano, ma nessun concorso fu mai bandito nell’ultimo decennio per provvedere alle cattedre che venivano a mancare, ad esse provvedendosi con sostituti interini o provvisori. Messina e Catania non avevano l’insegnamento della lingua ebraica, ne la spiegazione della sacra scrittura, anzi Messina non aveva neppure la cattedra di teologia morale. Della facoltà di giurisprudenza, Catania e Messina non avevano la medicina legale, ed in quest’ultima Università mancava persino l’insegnamento dell’economia, dell’etica e del diritto naturale. I tre teatini, che in quegli anni stettero a capo dell’Università palermitana, furono il padre Laviosa, rettore, il padre Giambanco, bibliotecario e il padre Filippo Cumbo, maestro di spirito, i quali vissero senza infamia e senza lode.
La deputazione universitaria, che il Filangieri fece ottenere all’ateneo di Palermo, in luogo dell’antica commissione di pubblica istruzione, era preseduta da don Pietro Crispo Floran, col titolo di Gran Cancelliere. Uguale ufficio nell’Università di Messina era tenuto dall’arcivescovo, e a Catania da don Carmelo Martorana. Il Crispo Floran, presidente del tribunale civile di Palermo, dotto giurista, percorse tutti i gradi della magistratura e mori nel 1884 primo presidente della Corte di Cassazione di Palermo e senatore del Regno d’Italia, benché non riuscisse a prestar giuramento. Il Martorana, consigliere della Gran Corte Civile di Catania, aveva fama di buon magistrato e mori vecchio nel 1870. Ma l’arcivescovo di Messina, cardinal Villadicani, non aveva davvero alcun titolo per così alta carica. Bonario e pietoso con gl’infelici e di tendenze piuttosto larghe in politica, egli non era uomo di studii, anzi a Messina ancora si ricordano parecchi aneddoti di sua poca sapienza.
A Palermo, nella facoltà giuridica, si distingueva Pietro Sampolo, che insegnava codice civile e pandette. Era stato fra i difensori delle vittime della Fieravecchia, e aveva raccolte delle somme per far celebrare un funerale in Genova a quei disgraziati. Gli studenti accorrevano numerosi e plaudenti alle sue lezioni. Lesse parecchie prolusioni, che sono pregiate monografie giuridiche e, nel 1859, l’orazione inaugurale che gli procurò non poche molestie, non avendovi egli fatta menzione del Re, nè del suo luogotenente, che assisteva alla cerimonia. Fu ucciso da mano ignota nel 1861, mentre tornava da una sua campagna presso Palermo, nè dell’assassino si seppe nulla. I nomi illustri nella facoltà di medicina erano il Gorgone e il Pantaleo, un chirurgo e un ostetrico, i quali esercitavano la professione con grandissimo successo. Il Pantaleo fu il primo ostetrico dei suoi tempi, e i suoi alunni, oggi uomini maturi, ne ricordano la memoria con venerazione. Creò una clinica ostetrica, di cui non vi era l’ombra. Prima di lui, come ne ha scritto il Pitrè, Palermo non aveva che un rifugio di maternità, alla cui porta le donne andavano a battere, o strette dalla durezza della povertà, o spinte dal pudore di colpe da nascondere; e, come ricorda il professore Chiarleoni: " poche stanze erano nell’ospedale comune, destinate al ricovero delle gravide e partorienti, sotto l’immediata direzione di una levatrice maggiore, mentre era fatto divieto al professore di penetrare nelle sale, se non chiamato dalla levatrice!„ Del resto non in Sicilia soltanto, ma in tutto l’antico Regno, l’esercizio della ostetricia era nelle mani delle levatrici, poichè nelle famiglie, senza distinzione di ceti, la levatrice godeva maggior fiducia che non ne godesse il chirurgo. Se il Pantaleo non ottenne quanto voleva, dati i tempi e i pregiudizi, ottenne però molto, perchè vennero abrogati i regolamenti vecchi e il professore di ostetricia fu riconosciuto indipendente nell’ospedale, e le sale delle ricoverate messe a sua disposizione. Ma per le levatrici seguitò a bastare, secondo le prammatiche viceregie e i sinodi diocesani, che fossero sui quarant’anni, "maritate o vedove^ non mute, né scilinguate, pulite, monde di morbo gallico e di malinconia, istruite nella dottrina cristiana„. Di una scuola per le levatrici, le quali erano adoperate a giudicare e trattare tutto ciò che offrono di morboso la gravidanza e il puerperio, a regolare l’allattamento e a dar pareri nelle malattie dell’utero, di una scuola così necessaria insomma, il governo borbonico non volle mai sapere. Occorrevano i nuovi tempi, perchè le idee del grande ostetrico divenissero un fatto compiuto.
Il Pantaleo fu il creatore della sua fama e della sua fortuna. Era di Nicosia, di famiglia poverissima. Vestito da chierico, giovanetto a 18 anni, partì dalla sua terra di origine fra le lagrime dei parenti, a cavallo di un mulo. I primi anni furono assai penosi, ma trionfò di ogni ostacolo e si affermò il maggior ostetrico dei suoi tempi, e dopo avere assistito alla propria apoteosi, colla celebrazione del cinquantesimo anniversario del suo insegnamento ufficiale, mori nel dicembre del 1896, a 85 anni, lasciando un ricco patrimonio. Vincenzo Pantaleo, autore di graziosi racconti per l’infanzia, è il suo unico figliuolo maschio e ne porta degnamente il nome.
Se Pantaleo fu il creatore della clinica ostetrica, Giovanni Gorgone fu il creatore della clinica chirurgica, come il primo anatomista dell’Isola. Operatore di rara abilità e scienziato di molta dottrina, egli scrisse memorie e dissertazioni ed un trattato di anatomia descrittiva in due grossi volumi. In quei tempi, in cui la chirurgia non aveva l’immenso aiuto degli antisettici, compi operazipni audacissime, introducendo nuovi processi e rimedii. Fu membro di varie accademie italiane e straniere, e alcune sue memorie sono ancora consultate. Nativo di San Pietro sopra Patti, era professore in seguito a concorso, a 25 anni, e la sua carriera scientifica fu tutta un trionfo. Morì nel 1868.
Non di pari fama del Pantaleo e del Gorgone, ma di forte ingegno, era il dottor G. B. Gallo, che insegnava anatomia e aveva nome di clinico esperto e di uomo eccentrico. Viveva solo, nè mai volle vicino chi ne avesse cura, neanche il gigantesco fratello Giuseppe, medico anche lui, ma d’ingegno molto inferiore.
Nella facoltà di filosofia e lettere brillava monsignor Giuseppe Crispi, professore di lingua e archeologia greca, ritenuto il maggior ellenista dei suoi tempi. Vescovo titolare di Lampsaco e zio di Francesco Crispi, si disse ch’egli aiutasse il nipote durante l’esilio, ma non è vero, anzi ne deplorava i principii liberali. Sali a meritata fama e lo attestano le sue pubblicazioni, soprattutto i tre volumi della grammatica greca. Fu anche presidente della Reale Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo. Il professore di lettere italiane era Giuseppe Bozzo, brav’uomo, mite regio censore, ma senza levatura, che mori una dozzina d’anni fa, ultimo degli arcadi in Palermo. I letterati del tempo gli preferivano Gaetano Daita, il quale non era professore all’Università; anzi nel concorso universitario per la cattedra di eloquenza, poesia e letteratura. italiana era stato posposto al Bozzo; ma dirigeva un istituto privato, che ebbe vita florida. Martino Beltrami Scalia vi dava lezioni di geografia, e quello spirito eletto di Carmelo Pardi, monaco o, come si dice in Sicilia dei non Benedettini, frate nell’Ordine dei Minimi, insegnava lettere italiane e storia. Era il Pardi uomo di varia cultura, grazioso poeta e fa uno dei fondatori della Favilla. Mori a 53 anni nel 1875 e di lui scrisse con affetto il professore Luigi Sampolo. Nella lista degli scrittori colti, che rifulsero in Palermo negli ultimi dieci anni, il Pardi sta tra i primi. Ma per tornare all’istituto Daita, dirò che esso fu davvero un vivaio di giovani, i quali ebbero parte nel movimento liberale e poi nei pubblici uffici, e godeva maggior credito dello stesso real convitto San Ferdinando, tenuto dai gesuiti, e dello "stabilimento letterario Vittorino e Ginnasio„, posto sotto gli auspicii del principe di Galati, pretore della città. Il Daita era fuggito a Malta, dopo la restaurazione; era stato deputato fra i più caldi nel 1848; tornò a Palermo nel 1851; apri il suo istituto e non ebbe molestie. Nell’elenco degli ex deputati, che sottoscrissero la nota abiura, il suo nome non figura. Il Bozzo e il Daita erano gli epigrafisti del tempo: il Daita, più spontaneo e meno retore; il Bozzo, stentato e arcadico commentatore di Dante e di Petrarca, ma quanto lontano da quel G. B. Niccolini, che gli fu amico!
Nella facoltà di belle arti va ricordato Carlo Giachery, uno dei migliori architetti di allora. Il Giachery era di Padova, andò giovinetto a Palermo con la famiglia, vi fece gli studii, si laureò nel 1833 e si perfezionò poi a Roma, ispirandosi nelle opere dei grandi maestri. Tornato a Palermo, divenne professore di architettura civile, e via via si affermò architetto di potente ingegno. Ingrandì il palazzo dei ministeri, rifece il teatro di Santa Cecilia, la facciata e il vestibolo dell’Università, costruì i primi molini a vento e fu il braccio destro di Vincenzo Florio, innalzò l’ospizio di beneficenza e, nominato nel 1855 ispettore di ponti e strade, compi altri lavori d’interesse pubblico. Era un architetto di gusto. Nella villa Florio all’Arenella costruì una sala da pranzo in istile gotico, così ben riuscita, che l’imperatore Niccolò di Russia, visitandola, fece rilevarne i disegni e ne volle una simile a Pietroburgo, la quale, in memoria di Palermo e dell’architetto, chiamò sala Arenella. Morì a 53 anni, nel 1865.
Nella facoltà di scienze fisiche e matematiche insegnava astronomia don Domenico Ragona Scinà, nominato nel 1850 direttore della Specola, dopo che fu destituito Gaetano Cacciatore, figlio del celebre Niccolò. E quando nel 1860 tornò il Cacciatore alla Specola, il Ragona Scinà, dopo alcuni anni, fu mandato all’Università di Modena. Giuseppe Inzenga era sostituto alla cattedra di agricoltura. Vera competenza in fatto di scienza agraria, aveva fama di liberale e di spirito spregiudicato in fatto di religione. Scriveva versi dialettali, che rispecchiano queste sue tendenze, non sempre di buona lega. Anche in tarda età, vegeto o robusto, dirigeva l’istituto agrario Castelnuovo ai Colli, che la munificenza del principe Carlo Cottone lasciò a scopo di pubblico insegnamento. Dirigeva inoltre gli Annali dell’agricoltura siciliana, effemeride non priva di valore. Indomabile nella sua avversione ai Borboni, fu più tardi indomabile avversario della parte moderata, del Papa e dei preti. Era un libero pensatore, cui piaceva la vita allegra e gioconda. Insegnava botanica ed era direttore dell’Orto, don Vincenzo Tineo, che di numerose scoverte aveva arricchite le scienze naturali. Prima d’insegnar botanica, il Tineo aveva dettate lezioni di materia medica. Altro esempio d’intelletto versatile fu più tardi Agostino Todaro, che gli successe nell’insegnamento della botanica. Insigne avvocato prima, da competere coi maggiori, e poi insigne botanico, morì nel 1892, senatore del Regno.
Ricorderò fra i professori della facoltà giuridica Giuseppe Mario Puglia, sostituto alla cattedra di diritto penale, avvocato animoso, che difese il Garzilli e i suoi compagni della Fieravecchia e poi Francesco Bentivegna e Mariano Siragusa, e aveva assunta la difesa di Giovanni e Francesco Riso, per i fatti della Gancia. Le poche e commosse pagine, che di lui scrisse Giuseppe Falcone, rivelano l’ingegno e la mirabile attività del Puglia, che fu deputato di Palermo e mori nel 1894. Giovanni Bruno insegnava economia, non politica o sociale, ma civile fin dal 1846; deputato e giornalista nel 1848 e amico di Ferrara e di Crispi, fu persona colta e antico apostolo del libero cambio e delle casse di risparmio. Benché avesse sottoscritto anche egli la nota ritrattazione, era tenuto d’occhio dalla polizia, anzi si asseriva che un poliziotto travestito assistesse alle lezioni di lui. Certo è che il giorno 18 marzo del 1858 gli fu mandato da Maniscalco questo monito: "il direttore del dipartimento di Polizia avverte il sig. professore Bruno di essere più castigato nel linguaggio quando sulla cattedra svolge alcune teorie di economia, nelle quali balenano concetti arditi, che infiammano una gioventù ardente e facile a concitarsi alle idee, che sconfinano in esagerazioni politiche„.
Liberista, era molto applaudito dagli studenti. Nel 1852 sostenne una lotta per la libertà del panificio, e negli anni 1859-1863 pubblicò la sua opera maggiore: Scienza dell’ordinamento sociale. Mori regionista, anzi autonomista convinto, a Palermo, nell’aprile del 1891.
Questi professori, che ho voluto rammentare, erano i più amati dalla scolaresca, mentre il più odiato era Giuseppe Danaro, sostituto alla cattedra di codice civile, già liberale, poi ultraborbonico e infine prefetto di polizia. Da principio credette conciliare i due uffici, ma gli studenti prima lo fischiarono, poi disertarono le sue lezioni ed egli fu costretto a lasciare la cattedra.
A Palermo fiorivano, meno che a Napoli, gli studi privati, e soli pochi professori universitari! avevano studio nelle proprie case. Tra gì’ insegnanti privati mi limiterò a ricordare il professore Luigi Sampolo, che dettava dotte lezioni di diritto civile e il cui studio era il più frequentato, nonché l’avvocato Niccola Uzzo, che insegnava procedura civile. Il Sampolo era fratello di Pietro e lo supplì per pochi mesi nel 1863. L’Uzzo, autore di opere non ispregevoli, fu nominato nel 1859 insegnante provvisorio di procedura civile all’Università.
Gli studenti non formavano a Palermo, come a Napoli, un piccolo mondo a sè, nè abitavano in quartiere speciale della città. Si allogavano alla meglio in qualche locanda di più che mediocre ordine, o in qualche convento di frati, specialmente nella cosiddetta infermeria dei Cappuccini, o in pensioni, ed erano da essi preferiti i paraggi più vicini all’Università e le molte locande di Lattarini e dell’Albergheria. Non avevano ritrovi speciali, ne erano fatti segno alle continue vessazioni della polizia, come a Napoli e a Catania. Di certo la polizia li teneva d’occhio, e chi entra oggi nell’atrio dell’Università trova a man diritta una porta, chiusa da trentotto anni. Quella porta dava in una stanza, dov’erano permanentemente un ispettore di polizia e due agenti di sicurezza, messi là per accorrere, se mai nell’atrio si fosse fatto chiasso fra una lezione e l’altra, o si fosse fischiato qualche professore. Non erano però temuti, anzi spesso prendevano anche loro una parte di fischi, senza riuscire a scoprire i fischiatori. Ma quei fischi e quei tumulti erano un nonnulla rispetto ai tumulti di oggi. Gli studenti potevano prendersi giuoco della polizia, fino a un certo punto. Essendo pochi, era facile saperne vita e gesta. Nella stessa Università esisteva un oratorio, con obbligo agli studenti d’intervenirvi, occorrendo un certificato del prefetto di spirito, per conseguire i gradi accademici: l’oratorio non era mai affollato, ma i certificati non si negavano. La polizia lasciava correre, ma i giovani non ne abusavano. L’Università presentava una vita piena di moto, perchè la popolazione scolastica non era formata solo da studenti, ma ad essi si aggiungeva un numero notevole di uditori estranei, i quali amavano lo studio di alcune scienze e ne seguivano i corsi. Le tendenze politiche più liberali erano quelle della scolaresca: tutti sognavano una Sicilia libera da Napoli e dai Borboni, e molti, negli anni più vicini al 1860, un’Italia libera con Vittorio Emanuele, o costituita in repubblica. Mazzini esaltava quei cuori avidi d’ideali; ma negli ultimi tempi la tendenza monarchica con Casa di Savoia prese il disopra sulla tendenza mazziniana. Però non giova anticipare la narrazione. Non ostante le distanze, i pericoli e la vigilanza di Maniscalco, penetravano fra i giovani le opere politiche di maggior conto, soprattutto quelle degli esuli scrittori siciliani. La storia di Giuseppe Lafarina, pubblicata a Capolago nel 1850, ebbe fra i giovani larghissima diffusione, e molti recitavano pagine intere di quel libro emozionante. Coloro, fra i librai, che riuscivano a far penetrare in Palermo l’Assedio di Firenze del Guerrazzi, facevano non iscarsi guadagni. Conosco frati in Palermo, mi scrive il Pitrè, ch’ebbero e lessero e fecero correre per lungo e per largo quel libro. Molto affiatamento era tra i giovani e i professori, e se ad ogni minaccia di dimostrazioni, l’ateneo era il primo ad essere chiuso e seguiva l’arresto di qualche studente, i compagni e i professori facevano a gara perchè fosse liberato. Tra i più attivamente cercati era quel grande audace di Cocò (Niccola) Botta da Cefalù, che noto come studente cospiratore, era costretto a barattare di continuo abiti coi fidi compagni ed a mutar sempre nascondigli, per sottrarsi alla vigile e sempre agitata polizia. Se l’insegnamento non era completo, ne libero; se molti professori erano mediocri; se mancavano i gabinetti e difettavano le cliniche, questo non impedì che venissero su uomini di valore. Oggi le cattedre sono cresciute, abbondano i professori nominati per concorso, i gabinetti sono largamente forniti, l’insegnamento è libero, ma l’Università siciliana ritrae tutte le magagne dell’Università italiana, in genere: è folla senza ideali, è fabbrica di laureandi, che aspirano al diploma, e se non l’hanno, tumultuano, abbandonandosi ad eccessi del tutto ignoti agli studenti di quarant’anni fa.
Col reale decreto del 7 maggio 1838 veniva estesa alla Sicilia la legge del 12 dicembre 1816 sull’amministrazione civile nelle provincie napoletane, uguagliandosi l’amministrazione dei municipi di Palermo, Messina e Catania a quella stabilita per la città di Napoli, ma conservandosi al sindaco di Palermo il titolo di Pretore, e di Patrizio a quelli di Messina e di Catania. Per effetto di quel decreto, il comune di Palermo fu amministrato da un Corpo di Città, composto del Pretore e di sei Eletti col titolo di Senatori, corrispondenti alle sei sezioni, in cui era divisa la città, coadiuvati da un cancelliere, da un controllo (ragioniere), un tesoriere e un archivario. Eranvi inoltre un maestro di cerimonie con alcuni paggi, un capitano della minuscola guardia urbana ed altri impiegati subalterni, nonché una cappella senatoria. Questo Corpo di Città ritenne il titolo di Senato, e il Consiglio, che poteva considerarsi come la retta rappresentanza della città, fu composto di trenta cittadini e si chiamò, come nel continente, Decurionato.
I comuni erano distinti in tre classi, secondo che avevano seimila o più abitanti, o erano sedi di Intendenza, Corte di Appello o Corte Criminale, o avevano una rendita ordinaria di ducati 5000. Con tali norme il comune di Palermo, che allora contava poco meno di 180 000 anime,1 venne classificato fra quelli di prima classe, pei quali il sindaco, gli eletti e i decurioni erano di nomina sovrana, su proposta del ministro dell’interno. E mentre poi i sindaci, gli eletti e i decurioni, che non adempivano al loro ufficio, potevano essere ammoniti dall’intendente e provvisoriamente sospesi, per quelli di Napoli, Palermo, Messina e Catania, la sospensione non poteva essere ordinata se non dal Re, ed apparteneva anche al Re la facoltà di destituirli, su proposta del ministro dell’interno.
Ho innanzi ai miei occhi l’ultimo stato discusso del comune di Palermo per gli esercizi dal 1856 al 1860, È da avvertire innanzitutto, che, per le difficilissime condizioni in cui era ridotta la finanza comunale dopo la rivoluzione, con rescritto del 23 ottobre 1854 il vicepresidente della Gran Corte dei conti dei domimi oltre il Faro, barone Pietro Scrofani, venne nominato regio delegato per la compilazione dello stato discusso pel quinquennio anzidetto. Il bilancio è suo, non del Decurionato, che l’accettò tal quale, e il pretore e i senatori l’eseguirono. A tutto il 1855, dunque, l’erario comunale di Palermo presentava l’enorme deficienza di ducati 260 000, pari a lire 1 105 000. I creditori erano molti e insistevano per essere soddisfatti. Il regio delegato riusci a formare, dopo molto lavoro, un bilancio, con un’entrata ordinaria di ducati 219 404 (lire 932 467), e straordinaria di ducati 229 727 (lire 976 339): in totale ducati 449 131 (lire 1 908 806).
La maggiore entrata era costituita dai dazi di consumo, dalle tasse e dalle privative, che rendevano complessivamente la somma di ducati 382 075, mentre ben poca cosa erano le entrate provenienti dalle multe per contravvenzioni di polizia o per la tassa per occupazioni di spazi ed aree pubbliche, conosciuta sotto il nome di posti fissi e volanti.
Sembra incredibile, che fino all’anno 1866 non esistesse pel comune di Palermo un regolamento per la polizia urbana e rurale della città e del territorio. Invano Filangieri ne aveva fatte le più vive premure all’intendente della provincia ed al pretore. Né è meno credibile che fino al 1854 un privato, il barone Xaxa, avesse riscosso la tassa dell’uno per cento sul carbone, detta dritto del tumoliere, obbligando tutti coloro che recavansi in Palermo per ismaltirvi del carbone, a servirsi di un suo tomolo, e a corrispondergli l’uno per cento sulla derrata! Morto il barone, il comune aveva avocato a sé questo diritto, ma l’intendente con sua ordinanza del 27 maggio 1854 credette di sopprimerlo.
Si verificavano cose inverosimili. Fino al 1866 un altro privato, sotto il nome di "aggiustatore pubblico dei pesi e misure„ esercitava l’ufficio di verificatore e ne riscuoteva i diritti. Ed anche più notevole abuso era quello del Monte di Pietà, che esigeva, per suo conto, la tassa de’ posti fissi e volanti, secondo le antiche concessioni, e ci volle un regio delegato per proporre che, a norma di legge, la tassa venisse avocata dal comune. È anche da notare, che né il comune, né il regio delegato credettero di giovarsi mai della sovrimposta addizionale alla contribuzione fondiaria, la quale era consentita dalla legge nella misura di sole grana due per ogni ducato e che avrebbe prodotta una discreta entrata. E la conseguenza era che, mentre sulla generalità dei cittadini pesavano i dazi sui consumi e le tasse, i proprietari fondiari non concorrevano quasi punto all’erario comunale.
Per il personale dell’amministrazione si spendeva relativamente poco, pur essendo abbastanza numeroso. Vi erano 47 impiegati e 19 alunni nella cancelleria centrale; 32 impiegati nelle cancellerie delle sei sezioni; 9 commessi presso gli eletti dei comuni riuniti e 12 uscieri. Si spendevano ducati 12 938, più ducati 2067 per cancellerie. Queste cifre rivelano un grande disquilibrio tra il numero degl’impiegati e i loro assegni; alcuni avevano assegni affatto irrisorii. Con un rescritto del 20 aprile 1858 approvavasi il progetto compilato dallo Scrofani, e si disponeva che il Decurionato, nel termine improrogabile di tre mesi, proponesse un nuovo organico, limitando il numero degli impiegati al preciso bisogno, e regolando i loro stipendi nei termini della legge amministrativa. E non meno meritevole di considerazione è il fatto che l’intendente della provincia, don Francesco Benso, duca della Verdura, di fronte ad ordini sovrani così perentori, si limitasse filosoficamente a trascrivere al pretore il reale rescritto pel corrispondente adempimento, perchè nel più breve termine possibile ne facesse eseguire la stampa!
Oltre agli stipendi per gl’impiegati degli uffici, bisogna notare quelli per altri agenti subalterni, come il massaro, i due orologiari, il notaio comunale e il ministro delle Quarantore, retribuiti complessivamente con annue lire 867.
Al pretore era concessa l’indennità annua di ducati 1440, e l’indennità di ducati 300 per la festa da celebrarsi il 14 luglio nel palazzo di città, in onore di Santa Rosalia, mentre ai sei senatori era data una indennità di ducati 2592, poco meno di due mila lire per uno, come a Napoli. Vi era inoltre l’assegnamento al pretore e senatori di annui ducati 790 per le funzioni civili e religiose, alle quali avevano l’obbligo d’intervenire in forma pubblica. Queste funzioni non erano meno di trentotto all’anno e le indennità servivano specialmente per la manutenzione di carrozze e livree, per l’affitto dei cavalli, pei trombettieri e tamburi che precedevano il corteo, per le mercedi ai cocchieri e a ogni altro servidorame, per la cera e per altre spese. Cosi fra stipendi, indennità ed assegnamenti, si erogava la non lieve somma di lire 88 982,25, sopra un bilancio che non arrivava, come si e visto, tra ordinario e straordinario, a due milioni di lire. Eccessive ed innumerevoli le spese pel culto. Il comune pagava il predicatore quaresimalista piuttosto largamente, il mantenimento della cappella senatoria, il santuario e la collegiata del monte Pellegrino, il capitolo e il clero delta cattedrale, i parroci, cappellani ed altri ministri del culto, la cappella di Santa Rosalia alla cattedrale medesima, quella dell’Immacolata nella chiesa di San Francesco, il cereo a Maria Santissima di Trapani, il Te Deum del 12 gennaio nella cattedrale, l’altro Te Deum per la commemorazione dei terremoti del 1783 e del 1823, la festa di Santa Rosalia in luglio, l’assegnamento alla cattedrale e alla cappella di Sant’Antonio pel Santo Sepolcro, le prestazioni di cera in denaro, la celebrazione di varie feste religiose, alla cattedrale, a diverse chiese e conventi, ed a compagnie; e varie sovvenzioni ed esiti diversi ai conventi de’ padri cappuccini, dei frati di Sant’Antonino, di Santa Maria di Gesù, delle vergini cappuccinelle e alle due congregazioni sotto il titolo dell’esposizione e dell’elevazione del SS. Sacramento; e pagava infine una sowenzioile speciale ai padri cappuccini, l’illuminazione delle lampade innanzi all’immagine di Maria SS. ai Quattro Venti. È questa veramente la parte caratteristica di quel bilancio. La metà di questa somma era assorbita dal capitolo della cattedrale e dai parroci della città, i quali erano, e sono anche oggi, di nomina municipale.
All’infuori di un capo maestro comunale, al quale si dava un salario di ducati 36, nulla spendeva il municipio per l’ufficio tecnico che, nonostante il pomposo titolo di Corpo degli Ingegneri, ora portato alla bellezza di 32, era costituito da un direttore e da quattro ingegneri di sezione, che avevano piccole indennità dirette, ma venivano pagati da un diritto del tre per cento da riscuotersi dagli appaltatori delle opere pubbliche comunali. Se nulla si spendeva per l’ufficio tecnico, pochissimo o quasi nulla, per l’istruzione elementare. Non si avevano che sei scuole lancastriane di mutuo insegnamento; due scuole serali, una nel villaggio Altarello di Baida ed una scuola per le fanciulle a Bocca di Falco, sotto la vigilanza di un direttore speciale: in tutto, gli alunni non sommavano a ottocento. I jnaestri prendevano complessivamente lire 765, poco più di 100 lire per uno all’anno, quelli delle scuole serali ducati 36 e il direttore ducati 120. Lo Scrofani aveva timidamente proposto di istituire altre due scuole serali, ma Castelcicala trovò che nelle angustie del bilancio non era ammissibile l’aumento di altri ducati 108 all’anno, e rimandò l’attuazione della proposta a miglior tempo, pur dichiarandola utilissima.
Ma se egli fu così zelante per una spesa tanto lieve, non lo fu per la Milizia Urbana, chiamata comunemente dei soldati di marina. Si componeva questa, come abbiamo detto, di un capitano, un sergente, un caporale, diciannove soldati e tre trombettieri. L’ufficio del capitano era onorifico. Parrà strano, che per diciannove soldati vi fossero tre trombettieri, ma questi erano i superstiti della banda musicale del Senato, soppressa nel 1855. I tre trombettieri furono aggregati alla milizia urbana, perchè non mancasse l’uso delle trombe e tamburi nei solenni cortei.
L’assistenza sanitaria era burlesca. Non vi era che un medico comunale, ma è da notare a titolo di lode, che i vaccinatori non potevano riscuotere il compenso, se non quando il senatore della sezione avesse personalmente verificato, in compagnia del parroco, che tutti i nati nell’ambito della propria giurisdizione erano stati vaccinati.
Si era più generosi per le istituzioni, che miravano all’istruzione superiore ed ai progressi delle lettere, delle scienze e delle arti. Ed invero il Decurionato sussidiava la biblioteca pubblica comunale, l’istituto dei sordomuti, l’istituto d’incoraggiamento, l’accademia già del Buon Gusto e divenuta poi di scienze, lettere e belle arti, e l’Università degli studi, per la quarta parte della cattedra di architettura decorativa e di disegno topografico. E se fra le istituzioni educative e promotrici della cultura dell’arte musicale si può noverare il teatro, il comune forniva la dotazione di ducati diciottomila al teatro Carolino.
La città era illuminata ad olio e l’illuminazione costava lire 127 500. Solo il Fôro Borbonico era illuminato a gaz, ma i rari fanali non si accendevano che nei tre mesi estivi. Per lo spazzamento della città e l’annaffiamento delle strade interne e da una parte delle esterne, la cifra era irrisoria, sole lire 13 277; e però non è da meravigliare, se, nonostante la passione dei palermitani per la nettezza, la città fosse tra le più sporche, ma sempre meno di Napoli, e quasi non vi fosse strada, dai cui balconi e finestre non pendessero biancherie o cenci ad asciugare.
Il regio delegato aveva introdotto, rispetto ai bilanci degli anni passati, una economia di ducati 46 585,66, ma quanti altri risparmi non sarebbe stato possibile ottenere! Egli ne fu impedito, sia da ostacoli incontrati da parte di altre amministrazioni nel fornirgli le debite spiegazioni, sia da inveterate tradizioni e pregiudizii popolari, che non credette opportuno di offendere. Egli avrebbe voluto far concorrere le opere di beneficenza della provincia al mantenimento degli stabilimenti pubblici della capitale; ma il Consiglio degli ospizi gli fece intendere di non potersi contare sui legati di messe, perchè destinati in suffragio delle anime purganti; non potersi far uso dei legati a favore di persone determinate, perchè di diritto privato, e non potersi fare assegnamento sulle opere di vera pubblica beneficenza, perchè ridotte in modo, da non potersene cavare il menomo costrutto. Aveva ritenuta maggiore del bisogno la somma di ducati 30 000 per l’illuminazione notturna della città e dintorni, e rivoltosi al pretore pei debiti chiarimenti, ne ebbe tale risposta da convincerlo, che allora solamente poteva farsi un’economia in questa spesa, quando sarebbe riuscito a chi toccava di superare gli ostacoli.
I due ultimi pretori di questi anni furono il principe di Manganelli, don Antonio Alvaro Paternò, brav’uomo, ma una vera nullità amministrativa, e il principe di Galati, Giuseppe de Spuches, uomo di larga cultura, specialmente classica, che ebbe molte critiche per l’offerta fatta a Ferdinando II, della sella di Re Ruggiero, offerta dicevano alcuni, da lui subita. Il Galati, che fu nei nuovi tempi deputato di Caccamo, di cui portava pure il titolo, sposò in prime nozze la poetessa Giuseppina Turrisi Colonna, che gli mori dopo undici mesi. Era un uomo di studii, ellenista e poeta. Tradusse Euripide e scrisse poemi non senza pregi ed elegie greche e latine. Morì nel 1884, presidente dell’Accademia delle scienze e lettere: mite uomo, che nei giorni più agitati del 1860 si rifugiò a bordo di un bastimento nel porto di Palermo, e invitato da Garibaldi a rimanere a capo del nuovo Municipio, non volle accettare, secondo afferma Vincenzo di Giovanni, il quale nei funerali, celebrati nella chiesa dei Crociferi, ne disse l’elogio. Con un bilancio quale abbiamo esaminato, e con si rigorosa dipendenza da Napoli, il sindaco di Palermo era in verità il luogotenente, e neppure il principe di Galati potè fare tutto quel bene che desiderava. Erano in verità cariche decorative per le grandi cerimonie civili e religiose, anzi più religiose che civili, e durante la luogotenenza del Castelcicala, il pretore di Palermo fu il marchese di Spaccaforno, direttore per l’interno; come, durante la luogotenenza di Filangieri, il pretore effettivo fu lui stesso, il principe di Satriano.
Nei nuovi tempi invece Palermo ebbe sindaci di prim’ordine. Ricorderò i maggiori, morti tutti: Mariano Stabile, il quale, reduce dall’esilio, si dedicò alla trasformazione della sua città natale; Salesio Balsano, Domenico Peranni ed Emanuele Notarbartolo. Il sindacato del Peranni si ricorda principalmente per questo, ch’egli lasciò la cassa in buone condizioni e i servizii benissimo ordinati. Il Peranni, che fu amicissimo del Minghetti, mori nel 1876, senatore del Regno. Durante il sindacato del Notarbartolo, nel quale ebbe parte, come assessore, Emanuele Paternò, giovanissimo e più tardi sindaco anche lui di Palermo, fu cominciato il teatro Massimo e votate altre opere pubbliche; ebbe grande impulso l’insegnamento elementare e fu sottoposto a processo e condannato il vecchio tesoriere, sul quale le precedenti amministrazioni avevano chiuso gli occhi. Oggi Palermo, grazie al valore e alle cure di questi bravi uomini, è una delle più belle e salubri città d’Italia; è una città che non ha perduto il suo aspetto caratteristico, ma il nuovo si è così armonicamente innestato sul vecchio, che non sembra quasi possibile che prima del 1848 non vi fosse la via della Libertà, e la città finisse a Porta Macqueda e al ferriato di Villa franca; non sembra possibile che non esistesse fino al 1870 lo splendido Politeama, e fino al 1892 non esistesse il nuovo magnifico quartiere, dove fu l’Esposizione, e la passeggiata non si estendesse oltre la Favorita, fino a Mondello e a Partanna da una parte, e ai Colli dall’altra, in quell’incantevole foresta di agrumi, che sino a pochi anni fa era una palude, prosciugata da un consorzio di cittadini, a capo dei quali è un uomo illuminato e tenace, il senatore Francesco Lanza di Scalea. Quell’opera può dirsi oggi compiuta e la malaria, che infestava quelle contrade, è scomparsa. Da pochi e incerti fanali a gaz, che illuminavano nelle sere estive il Fôro Borbonico, alla presente illuminazione, per cui i Quattro Canti sono trasformati in un salone, e la villa Giulia in una féerie che non ha l’eguale nel mondo; quanto cammino! Palermo, che aveva acqua bastante sol per dissetarsi, ora n’è largamente fornita dalle sorgenti di Scillato, e ne va il merito in gran parte al sindaco marchese Ugo delle Favare, che ne fece il contratto. E di tutto questo progresso, compiuto in poco più di sei lustri, si vedono i segni nel bilancio comunale, aumentato ben dieci volte da allora. Se nel quinquennio 1856-1860 non era che di lire 1 908 806, nel 1897 era già salito a lire 19 382 347.
L’Università di Catania, chiamata Siculorum Gymnasium, aveva fama superiore a quella di Messina, e forse pari a quella di Palermo. I suoi professori avevano preso parte alla rivoluzione del 1848, anzi l’insegnante di diritto romano, Francesco Marletta, era stato presidente del Comitato catanese e poi Pari elettivo. Per ragioni politiche venne destituito nel 1852 Salvatore Marchese, giurista egregio, e uomo per carattere e per cultura veramente superiore. Non rientrò nell’Università che nel 1860, con decreto di Garibaldi; nel 1861 resse il dicastero della pubblica istruzione presso la luogotenenza di Palermo; fu deputato di Catania e mori senatore del Regno, ma non prese parte alle sedute del Senato, e credo non abbia nemmeno giurato. Era uomo di forti convincimenti patriottici e parlava poco. Nato in Misterbianco nel 1811, vi mori nel novembre del 1880. Sostituto del professore Scuderi, ancora giovanissimo, insegnò economia politica all’Università e, morto nel 1841 lo Scuderi, fu nominato per merito professore di diritto naturale. Nel 1848 fondò in Catania col detto Scuderi e Mario Rizzari il giornale l’Unità, donde la sua destituzione, restaurati i Borboni. Scrisse, fra l’altro, un libro sull’Università di Catania dalla sua fondazione al 1872, e dell’Università egli fu rettore per oltre un decennio, dal 1869 al 1880, e molto concorse al suo progresso, creando il consorzio del comune e della provincia per assicurarne le sorti. Furono destituiti anche il canonico Geremia e Giuseppe Catalano, ma vennero poi rimessi. Più devoto al Re fra i professori era l’abate Ferrara, il quale, dopo avere atteso al riordinamento della biblioteca di Casa reale, insegnò letteratura greca, prima a Palermo e poi a Catania. Ma degl’insegnanti di allora la figura più caratteristica era quella di Vincenzo Tedeschi Paternò Castello, della famiglia dei Francica, il quale, divenuto cieco all’età di tredici anni, invece di imparare a suonare il violino come voleva il padre, con l’aiuto di un buon lettore, si approfondì nelle scienze morali e tenne la cattedra di logica e metafisica. Le truppe borboniche, entrando in Catania, fecero crudele scempio della famiglia di lui. Insegnava matematiche sublimi una sommità della scienza: Giuseppe Zurria, morto di recente a 86 anni, dopo quarantaquattro d’insegnamento: mirabile esempio di diligenza, di bontà e di modestia. Anche negli ultimi anni, nessuna rigidità di stagione gl’impedì mai di far lezione; e pochi mesi prima di morire, a Mario Mandalari, direttore della segreteria di quell’Università che, in una fredda giornata di gennaio, lo pregava con affetto filiale di non esporsi alle inclemenze della stagione, rispondeva: "'U duviri, figghiu!„ La morte dello Zurria, avvenuta nel settembre del 1896, fu pubblico lutto a Catania. Vasta, svariata, multiforme, sebbene non sempre profonda cultura aveva il professore don Agatino Longo, che insegnava fisica, ed era cattolico osservantissimo; e scienziato di fama mondiale era Carlo Gemellaro di Nicolosi, celebre per i suoi studi sull’Etna. Egli insegnava geologia e mineralogia, dirigeva il gabinetto di storia naturale e fu anche rettore. Insegnavano i due fratelli Pulci: Francesco, ritenuto il più reputato medico di Catania, e Innocenzio, professore di letteratura italiana, ed erano abbastanza animosi nei loro insegnamenti. È giustizia ricordare Euplio Reina, buon chirurgo e ostetrico, e Salvatore Ursino, il quale insegnava codice civile confrontato col diritto romano: giureconsulto e magistrato di grande rettitudine, sedendo tra i giudici della Gran Corte Civile. Molto affiatamento esisteva fra i professori e gli studenti, che negli ultimi tre anni superarono la cifra di seicento. Oggi, secondo risulta dall’ultimo Annuario, sommano a 986; e mentre in quegli anni la facoltà di filosofia e lettere non ebbe alcun iscritto, oggi ne conta settantanove. Il maggior numero degli iscritti era allora nelle facoltà di giurisprudenza e di matematica, perchè in quelle facoltà erano i professori più valorosi. Nella facoltà di teologia ve ne furono due soli nel 1858, e cinque negli anni successivi.
La polizia teneva d’occhio la studentesca, trattandola con maggior severità, che non a Palermo e a Messina. Assai rigido era l’intendente Panebianco che non risparmiava nemmeno i proprii figli, da lui un giorno puniti, si disse, con l’arresto in casa. Si rileva dal bel libro di Emanuele de Marco,2 come l’autorità politica cercasse anche in questo l’aiuto del rettore, che doveva trasmettere alla polizia i nomi degli studenti, per il rilascio delle carte di soggiorno. Ed anche più in là si spinse il Panebianco con questa lettera, comicissima di certo, se giudicata coi criteri di oggi, e da lui diretta al rettore, in data 20 ottobre 1852, quattro giorni prima dell’arrivo del Re: "Per ordine superiore essendosi considerato che le barbe non sono più di moda, e che il portarle fuori d’uso, richiama tristi rimembranze, è necessario che tutti coloro, i quali amino comparire di buona morale, levassero dai loro volti quel segno. Epperò io mi rivolgo a lei, affinchè sotto la sua responsabilità, nessun professore, studente o impiegato della R. Università indugi all’osservanza dell’ordine suaccennato «.
Messina riebbe da Ferdinando II, nel 1838, la sua Università, che le era stata tolta due secoli prima dal vicerè, conte di San Stefano. Tranne la facoltà di matematica, pur non interamente completa, le altre facoltà, come si è detto, mancavano di insegnamenti anche principali, e il numero degli studenti era molto esiguo. Ne fu rettore fino al 1864 Luigi Bruno, che insegnava logica e metafisica; e, morto lui, gli successe il parroco Gaetano Messina, il quale insegnava teologia dommatica ed era uomo di soda cultura. Nella facoltà di lettere ricordo Giovanni Saccano, studioso della Divina Commedia e latinista insigne. Insegnava eloquenza don Mauro Granata, cassinese, purista e autore di un dizionario dantesco. Morì nei primi mesi del 1860, non essendosi mai riavuto dallo spavento, che provò nel giugno del 1859, quando, leggendo nel duomo l’elogio funebre di Ferdinando II, vi scoppiò una bomba con grande fracasso. Insegnava letteratura italiana Felice Bisazza, poeta ispirato forse più che qualunque altro isolano suo contemporaneo, e filosofia l’ontologo Catara-Lettieri. La cattedra d’incisione fu tenuta interrottamente da Tommaso Aloysio Iuvara, che creò allievi come il Di Bartolo, Micali e quel Saro Cucinotta, intimo amico di Vittorio Imbriani e mio, ucciso dai Versagliesi nel 1871, a Parigi, essendo stato guardia mobile per forza, durante la Comune. L’insegnamento della pittura e del disegno fu affidato sino al 1848 a Letterio Subba, artista d’ingegno vasto e multiforme. Ma avendo preso molta parte alla rivoluzione, fu destituito e gli successe Michele Panebianco, pittore e disegnatore distinto, il quale creò una scuola di valorosi alunni. Nel concorso fatto nel 1852 per il sipario del teatro di Santa Elisabetta, ora Vittorio Emanuele, vinse egli il premio col bozzetto, che si disse suggeritogli dal principe di Satriano, allusivo alle vicende del 1848: "Gerone, che concede la pace ai Cartaginesi, a patto di non sacrificar vittime umane„.
Negli ultimi anni occupava la cattedra di estetica Riccardo Mitchell, poeta vigoroso, galantuomo a tutta prova, cognato al Bisazza, ma da lui, che era ultra-borbonico, assai discordante; amico del principe di Galati, intimo di don Lionardo Vigo di Acireale e traduttore di Teocrito. La facoltà di medicina era, dopo quella di matematica, la meno incompleta; e tra gli insegnanti avevano maggior fama il Coco, naturalista ittiologo che insegnava materia medica; il Minà, professore di fisiologia; Pispisa, di patologia medica, e noto anche per i suoi spiriti liberali. Il padre del Pispisa, imprigionato per ragioni politiche, era morto in carcere. Ricordo inoltre il Catanoso, che insegnava istituzioni cerusiche ed era operatore arditissimo: a lui era successo il professore Garufi; e, più. insigne di tutti, il Pugliatti, che insegnava clinica chirurgica. Figura simpatica, e alla quale gli studenti si mostravano molto affezionati, era quella del bidello don Spiro Cortimiglia, che li aiutava a tenersi in guardia dalla polizia. Gli spiriti liberali prevalevano fra gli studenti per vecchia tradizione. Gli studenti si erano particolarmente distinti anche nei moti del settembre 1847 e del 1848. Fra ì più romorosi agitatori era lo studente di terzo anno di medicina Francesco Todaro di Tripi, oggi senatore del Regno e professore di anatomia all’Università di Roma. La polizia perciò non li lasciava tranquilli, ma non erano persecuzioni feroci: si limitavano ad arresti, che duravano poche ore, ma in compenso erano frequenti e l’Università non venne chiusa che una sol volta, dopo i moti dell’aprile 1860, come si dirà più innanzi.