La filosofia religiosa dell'hegelianismo
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La filosofia religiosa dell’hegelianismo1
Due tendenze sembrano contendersi nella storia dello spirito il dominio del campo speculativo: la tendenza metafisico-religiosa e la tendenza empirico-naturalistica. La prima è assorta nel pensiero dell’Unità, del soprasensibile, del trascendente e sembra a questo sacrificare spesso i diritti della realtà sensibile, nella quale viviamo: e le maggiori difficoltà ad essa vengono appunto dal problema come mai accanto all’Unità assoluta possa coesistere ancora alcunchè di finito: questo è il problema, che sta a fondamento delle interminabili controversie intorno alla creazione, all’origine del male, alla libertà ed alla grazia. La seconda oblia invece nella contempazione della molteplicità sensibile l’esigenza dell’Unità: la quale anche nelle sistemazioni più rigorose, come p. es. nel monismo materialistico, si riduce ad essere poco più che il nome di una molteplicità assoluta. Allora invano il pensiero si affatica a cercare in questa molteplicità assoluta di esseri un’unità, che sia un ordine e che renda possibile quella distinzione e quella gradazione di valori, del vero e del falso, del bene e del male, senza di cui la nostra vita non è concepibile e la stessa filosofia perde ogni senso ed ogni ragione d’essere. Nella filosofia di Giorgio Federico Hegel noi abbiamo l’audace tentativo di risolvere questo secolare conflitto soddisfacendo e conciliando entrambe queste tendenze: tentativo di conciliare l’inconciliabile, che ad essa conferisce il suo speciale fascino e ne costituisce nel tempo stesso il tormento perenne e l’insanabile debolezza.
Queste due tendenze — il profondo senso dell’unità e il senso realistico del finito e del concreto — coesistono nello stesso carattere intellettuale di Hegel e vengono chiaramente alla luce già nella speculazione teologica del primo periodo, che ora grazie alle pazienti indagini d’un suo recente biografo, possiamo seguire con una certa sicurezza. Pochi filosofi hanno così energicamente affermato il concetto dell’unità della realtà come lo ha fatto Hegel. Nella sua giovinezza questo senso dell’unità prende la forma d’un entusiasmo religioso: è l’entusiasmo per l’Uno tutto, contrapposto al dualismo tradizionale, che disgiunge Dio dal mondo. In una sua poesia giovanile, diretta ad Hölderlin, Hegel ha dato a questo sentimento un’espressione quasi mistica. Il silenzio d’una placida notte lunare apre qui ad Hegel il senso della natura e lo eleva alla contemplazione dell’Uno.
Intorno a me ed in me è pace. Nei travagliati uomini
La non mai stanca cura dorme. Essi danno libertà
E pace a me. Grazie a te, o mia
Liberatrice, o notte! Con bianco velo di nebbia
Circonda la luna gli indecisi limiti
Dei monti lontani. Amica splende dal basso
La chiara striscia del lago...
Il mio occhio si leva alla volta dell’ eterno cielo
A te, o splendente astro della notte!
Ed un oblio di tutti i desiderii, di tutte le speranze
Discende a me dalla tua eternità.
Io mi immergo nell’essere infinito,
Io sono in lui, sono tutto, sono lui solo.
Si spaurisce il pensiero che ritorna,
Trema dinanzi all’infinito e pieno di stupore
È incapace d’afferrare il senso profondo della sua visione.
Ma anche nella filosofia posteriore, per quanto l’entusiasmo mistico passi in un freddo razionalismo, il concetto dell’unica vita infinita resta uno dei. concetti fondamentali del sistema, la cui energica affermazione riveste spesso un carattere quasi religioso.
Tuttavia questo energico sentimento dell’unità, in Hegel, non si traduce in una concezione mistica, trascendente, come avviene per es., in Spinoza. Hegel era una natura troppo realistica per perdersi in speculazioni trascendenti: fin dai primi anni il suo occhio è già volto verso la comprensione della realtà immediata della vita e della storia. Ben egli riconosce che ciascuna di queste realtà concrete è, isolatamente considerata, un elemento morto e senza senso; ma per giungere alla realtà vera e vivente non è necessario, secondo Hegel, andare al di là del finito: l’assoluto, l’infinito non è che la sintesi dialettica di tutte le realtà finite. Anzi lo stesso svolgimento rigoroso del suo principio dell’unità gli serve per opporsi ad ogni dualismo metafisico che ponga al di là del mondo naturale ed umano un’unità trascendente, una legge, qualche cosa che non si lasci ridurre con la realtà del mondo in un unico processo.
Se noi, dice Hegel, consideriamo le cose finite, così come l’esperienza le concepisce, vediamo che esse non sono quelle realtà ferme e fisse che sembrano nel primo momento; vediamo che sono esseri pieni di intime contraddizioni, esseri che si annullano da sè in quanto divengono, passano in altro, si dissolvono in un ordine più vasto di rapporti. La ragione filosofica, seguendo, per così dire, l’esigenza stessa che le cose finite rivelano nelle loro contraddizioni, le collega in un’unica concatenazione vivente, che in sè concilia le loro opposizioni e che è, nella sua totalità, la loro realtà assoluta.
Questa non è quindi, per Hegel, un Dio trascendente, al quale si contrapponga il mondo finito come creazione o come parvenza; ma un’unità che si dispiega in una successione necessaria di realtà viventi, ciascuna delle quali è veramente quello che è solo in quanto è stretta con le altre in un unico sistema di vita; che tuttavia può essere definito solo mercè la molteplicità dei suoi contenuti. La filosofia ci eleva appunto alla visione di questa unità divina facendo passare dinanzi a noi tutta l’infinita molteplicità della realtà naturale e spirituale, conciliandone le opposizioni, togliendo ogni singolo dal suo isolamento per metterlo a suo posto nella catena dell’eterno divenire. A questo concetto hegeliano dell’Unità che non è nulla in sè, ma solo vita e movimento del suo contenuto, corrisponde il concetto hegeliano dello spirito, che non è sostanza, ma unità vivente, che concilia in sè, senza annullarle, tutte le forme della realtà, il bene come il male, la verità come l’errore, e che anzi solo per mezzo di esse si realizza: «lo spirito è l’unità vivente del molteplice». È vero che qualche volta Hegel, specialmente nella sua Filosofia della religione, insiste tanto su questo aspetto dell’Unità, che sembra voglia dissolvere in essa le cose: ma non bisogna arrestarsi a queste espressioni isolate, nè lasciarsene ingannare; l’unità è sempre ancora per lui l’unità concreta dello spirito che si manifesta e non è altro che questo manifestarsi considerato nella sua totalità e nella sua necessità.
Questo svolgimento ha luogo, come è ben noto, attraverso i tre momenti dell’idea pura, della natura e dello spirito finito. L’idea pura è l’insieme astratto delle leggi universali della natura e dello spirito: la natura è lo spirito che si è posto dinanzi a sè nella forma dell’esteriorità: il suo destino è di darsi in olocausto perchè dal suo rogo balzi la psiche e lo spirito si manifesti a sè come spirito finito, coscienza. Allora comincia la terza fase dello svolgimento, attraverso la quale lo spirito si eleva alla piena coscienza del suo essere e procede, come il sole, sulla via della sua libertà. Il punto più alto di questo processo è la vita religiosa, in cui la coscienza finita si eleva alla conoscenza della sua natura assoluta, alla contemplazione dell’intero processo e della sua necessità, cioè alla contemplazione di Dio.
Noi siamo dinanzi, come ognun vede, ad una forma grandiosa di panteismo idealistico, che è ben al disopra del panteismo naturalistico volgare, il quale identifica Dio con l’unità fisica delle cose. Qui il principio dell’essere è lo spirito, è una ragione universale, che per una serie di momenti necessarii, attraverso la natura, la vita cosciente, la moralità e la religione, rivela sè a sè stessa nella sua natura eterna ed infinita. Quindi tutto, anche ciò che nell’apparenza immediata ce ne sembra più lontano, è forma e vita di spirito; e la rivelazione più perfetta di quest’attività universale è quella che ha luogo nelle grandi correnti spirituali della vita umana collettiva, che sono per Hegel la più vera e propria forma della realtà. Così ci possiamo spiegare come la concezione hegeliana, che pure è in sè decisamente irreligiosa, abbia potuto esercitare un’indiscutibile attrazione sopra spiriti profondamente religiosi. Questo concetto di un Dio che è e vive nelle sue stesse creature, e soffre nei loro dolori e vince nei loro trionfi, che abbraccia in sè e raccoglie nella sua vita infinita tutti i momenti della spiritualità umana, è parso a molte anime religiose — anche fuori dell’hegelianismo — più umano e più cristiano che il concetto di un Dio relegato nella sua misteriosa immensità e separato dalle sue creature da una distanza infinita. Basti ricordare fra tutti Gustavo Teodoro Fechner.
Tuttavia, se ben si osserva, anche questo aspetto religioso della filosofia hegeliana è esso stesso una conseguenza ed una testimonianza dell’ambiguità che è nel suo punto di vista fondamentale. Hegel aduna nella sua realtà assoluta, che è lo spirito, due caratteri inconciliabili: e può mantenerli, soltanto perchè insiste or sull’uno or sull’ altro, secondo l’opportunità del momento. Da una parte questa realtà considerata nella sua unità razionale, deve essere un’unità assoluta, perfetta, perchè tutte le sue parti sono egualmente momenti della perfezione assoluta ed eterna dello spirito: dall’altra non può essere per lui se non la realtà che si svolge davanti a noi nello spazio e nel tempo, realtà imperfetta, intessuta d’apparenza e di verità, in gran parte irriducibile alla ragione.
Da questa forzata sovrapposizione nascono molte conseguenze, essenziali anche sotto l’aspetto religioso. Se ogni momento della realtà è un momento della ragione assoluta, tutto ciò che è, è razionale, buono e perfetto: ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale. Ora di fronte a questa affermazione, che è conseguenza rigorosa e diretta del principio hegeliano, abbiamo la stessa confessione di Hegel, che vi sono nella realtà molte cose le quali non possono in nessun modo venir fatte rientrare in quest’ordine. Così, p. es., quando Hegel costruisce il concetto dello Stato, mostra che a questo concetto è essenziale la personalità del monarca, cioè che lo Stato deve essere essenzialmente monarchico. Così vuole la ragione eterna delle cose. Ma vi sono anche repubbliche. Non importa, dice Hegel, queste sono accidentalità irrilevanti. Ma in un mondo che è pura ragione, donde queste accidentalità? Ad un critico che gli oppose, nei primi tempi, questa obbiezione, Hegel rispose con la derisione e lo scherno: cioè in realtà non rispose perchè non poteva rispondere.
Fra ciò che non può entrare in questo ordine razionale, che è l’ordine assoluto, vi è anche qualche cosa che è essenziale per il pensiero hegeliano, lo stesso divenire storico. Lo svolgimento dello spirito nella realtà, come Hegel lo pensa, non è nel suo aspetto essenziale uno svolgimento nel tempo; è un processo di generazione eterna, in cui tutto è simultaneamente presente ed ugualmente perfetto. Ed è una generazione dialettica, logica: vale a dire avviene per un passaggio logico da concetto a concetto. Ora per quanto Hegel si sforzi di mettere in evidenza il carattere dialettico dello svolgimento dello spirito, è pure innegabile che questo processo è, almeno nella natura e nella storia, anche un divenire nel tempo. Abbiamo quindi la sovrapposizione di due processi che si intrecciano e si confondono in un processo unico pieno di contraddizioni: il processo dialettico, che spiega la concatenazione degli esseri come una serie di relazioni logiche; il processo temporale che è un processo causale e che la scienza positiva determina con tutt’altri metodi e tutt’altri risultati. E non vi è nemmeno la possibilità di accordare le due serie considerando la serie temporale come l’aspetto fenomenico dell’altra: anche la successione temporale deve avere carattere assoluto e deve ridursi al processo dialettico. Prendiamo, p. es., la storia geologica della terra: essa è per Hegel un processo dialettico di momenti (il momento granitico, calcareo, ecc.); la spiegazione scientifica, causale che ne dà la geologia è per lui senza valore.
Questo è ciò che ha condotto Hegel a quell’atteggiamento sprezzante verso la ricerca scientifica, che si è perpetuato nella sua scuola. Egli respinge come irrilevanti i tentativi d’una cosmogonia naturale, iniziati da Kant nel 1755 con la sua Storia del cielo, respinge la teoria dell’evoluzione naturale degli organismi, considera con disdegno i primi tentativi d’una geologia scientifica. E lo stesso contrasto si perpetua anche nella storia umana, che non è per Hegel successione causale di fatti, ma processo dialettico. A che cosa conduca la concezione dialettica della storia, lo vediamo già in Hegel con le sue costruzioni fantastiche della storia e della storia filosofica e religiosa: e continuiamo a farne l’esperienza anche oggi con quel forzato connubio di. storia e di filosofia, del quale la filosofia deve dolersi, ma anche la storia, io credo, non ha molto da rallegrarsi.
L’impossibilità di far coincidere il divenire reale delle cose con quel processo dialettico, in cui consiste, secondo Hegel, la realtà assoluta del mondo, si rivela del resto anche sotto un altro aspetto per noi molto più interessante. Il divenire reale è progredire, è sforzo verso un fine; senza di ciò non sarebbe possibile distinzione di bene e di male, di vero e di falso. Ma se, come Hegel vuole, la realtà è l’assoluta manifestazione dello spirito e tutto in essa è razionale e perfetto, donde la distinzione di valore? Bene e male, vero e falso sono soltanto più distinzioni interne, che scompaiono dal punto di vista dell’assoluto.
Questa conseguenza irreligiosa della dottrina hegeliana non era sfuggita ai teologi contemporanei: quindi la costante preoccupazione di Hegel di rispondere a queste critiche, di ribattere queste accuse. Ed in questa difesa dobbiamo ammirare l’abilità sua nel ritorcere le accuse contro i suoi avversarii — come nello sfuggire sempre il punto essenziale della questione. La sua difesa si riduce sempre ad un argomento di procedura, a negare cioè la competenza dei suoi giudici: ai quali, non senza qualche arroganza, nega anche la capacità di comprendere la sua dottrina. Ma quando sembra proporsi di entrare nel cuore della questione e noi attendiamo con curiosità la soluzione del difficile assunto, allora svolta a difendere il panteismo di Spinoza o della Bhagavadgita, che sono tutt’altra cosa.
E che in realtà nell’intimo del suo pensiero Hegel inclinasse verso una concezione prettamente naturalistica, a confondere cioè tutte le distinzioni di bene e di male nel corso inesorabile d’un divenire universale, appare chiaramente da più d’un indizio. Già appare nella sua speculazione giovanile dalla critica della morale cristiana e della morale kantiana, come quelle che accentuano il contrasto morale fra la volontà e la legge; mentre l’ideale suo è la concezione greca della vita con la sua serenità, con la sua dedizione tranquilla al fato. E nella decima tesi della sua Dissertazione del 1801 dice: Principio della morale è la riverenza del fato. Con questa tendenza ad adagiarsi nel semplice riconoscimento di ciò che è si connette anche l’avversione di Hegel contro tutto ciò che è dover essere, aspirazione verso l’ideale; avversione alla quale ha dato un’irosa espressione nella prefazione alla Filosofia del diritto, Mentre Kant e Fichte sono profeti, il cui occhio è volto verso l’avvenire, Hegel è l’apologista del presente. Manca alla sua filosofia quel senso d’insoddisfazione perenne del presente, che è in fondo aspirazione verso una realtà infinita; per Hegel quello che deve essere già è: la ragione è già in massima parte realizzata nel presente. Quindi anche la filosofia non ha altro compito che di penetrare la realtà data, di comprendere ciò che è, senza pretendere di dettar leggi a ciò che deve essere. È interessante vedere che Hegel aveva già svolto questa conseguenza del suo pensiero in quella critica della costituzione tedesca che aveva scritto vent’anni prima. «I pensieri di questa mia opera, scrive Hegel, non possono avere altro fine ed effetto che di comprendere ciò che è e quindi indurre a sopportarlo in pace. Perchè non è ciò che è che ci rende inquieti e dolorosi, ma il fatto che esso non è come dovrebbe essere. Ma se noi conosciamo che esso è come non può non essere, allora conosciamo anche che è come dovrebbe essere».
Così si contrastano, senza potersi conciliare, nel concetto dello svolgimento dialettico dello spirito, due motivi, due esigenze: l’una che tende a farne un circolo eterno di vita, una beata divinità immobile; l’altra, per cui esso necessariamente si risolve nel divenire d’una molteplicità che muta, progredisce e tende al bene attraverso il male, al perfetto attraverso l’imperfetto. Il pensiero hegeliano subisce qui il destino che non può evitare qualunque tentativo umano di metterci dinanzi all’Assoluto. Esso costruisce questo Assoluto con elementi dell’esperienza — perchè altri non ne abbiamo — e così si mette in opposizione con l’esperienza e con la scienza, che non riconoscono nulla di assoluto. E nello stesso tempo introduce in sè una contraddizione insanabile: perchè qualunque concetto, per quanto alto esso sia, si rivela in ultimo sempre incapace di esprimere adeguatamente l’ Assoluto. Tutto ciò che è mortale — dice Goethe — non può essere altro che un simbolo.
Se noi passiamo ora a considerare più in particolare le idee di Hegel sulla religione, noi riscontriamo in esse la stessa dualità di esigenze e di tendenze: là dove Hegel ci descrive la scissione interiore dell’anima umana, che ha nella sua esistenza temporale dei giorni, in cui è trascinata dai suoi interessi e dalle cure mondane e in altri giorni mette da parte tutte queste cose, si raccoglie in sè e liberata dalle cose finite ed inferiori vive con sè e la sua vera essenza, egli descrive anche, senza volerlo, la scissione intima della sua filosofia.
Che Hegel abbia non solo compreso, ma anche sentito profondamente il fatto religioso, dopo quanto si è detto non ci deve far meraviglia. Anch’egli è in certi momenti veramente ebbro del divino. L’unità dello spirito strappa a lui gli stessi accenti di venerazione religiosa che hanno i mistici per il loro Dio. L’Assoluto è la sola realtà vera, la sorgente infinita da cui tutto esce ed in cui tutto rientra ed è conservato in eterno. Di fronte all’Uno nulla conserva una sostanzialità vera: tutto è apparenza. Le forme finite sono soltanto una specie di apparenza che lo spirito pone in sè come un limite per superarlo e conquistare la sua piena rivelazione a sè stesso, che è anche la sua libertà. Quindi il finito veramente non è: è solo un trapasso, un andare oltre se stesso: solo lo spirito assoluto è, e l’atto suo è l’eterna negazione di quella negazione che è il finito. «Tutta la sfera del finito e del sensibile si dissolve, nella vera fede, dinanzi al pensiero ed alla contemplazione dell’Uno che sono qui una cosa sola. Tutte le miserie della soggettività ardono in questo fuoco divorante ed anche la coscienza di questa dedizione e di questo annullamento è annullata».
Nessun filosofo ha levato alla religione un inno così entusiastico, come nelle pagine ispirate con cui comincia la sua Filosofia della religione. La religione è quella sfera della coscienza nella quale tutti i problemi del mondo sono risolti, le contraddizioni del pensiero appianate, i dolori del sentimento acquietati, è la sfera dell’eterna verità, dell’eterno riposo, dell’eterna pace. Tutte le forme e le complicazioni dei rapporti umani, tutte le attività e i godimenti, tutto ciò che per l’uomo ha valore, tutto ciò in cui l’uomo cerca la sua felicità, la sua gloria, il suo orgoglio, trova il suo ultimo centro nella religione, nel pensiero e nel sentimento di Dio... Tutti i popoli sanno che la coscienza religiosa è la verità della loro vita ed hanno sempre considerata la religione come la loro dignità e come il sabbato della loro vita. Tutto ciò che desta in noi dubbio ed angoscia, ogni dolore, ogni cura, ogni interesse per il finito, tutto noi abbandoniamo sulle mobili sabbie del tempo: e come noi sulle più alte vette d’un monte, lungi dalla vista delle cose finite consideriamo dall’alto con calma i limiti delle pianure lontane e del mondo, così l’uomo, strappato alla dura realtà, non vede più con il suo occhio spirituale nella realtà che un’apparenza, la quale in questa pura regione riflette le sue luci, le sue ombre e le sue distinzioni nel raggio del sole spirituale, dove esse si attenuano in un’eterna pace. In questa regione dello spirito scorrono i flutti dell’oblìo a cui Psiche beve per seppellirvi i suoi dolori: e le oscurità di questa vita si mitigano in essa come in una visione di sogno e si illuminano in un’aureola di luce che circonda lo splendore dell’eterno.
La vita religiosa balena prima alla coscienza sotto forma di sentimento: che è per Hegel la forma infima della vita religiosa. In un grado più alto, che costituisce la religione vera e propria, la visione religiosa si esprime per mezzo di rappresentazioni simboliche: la religione è allora, come Hegel si esprime, la storia eterna dello spirito nelle figure concrete del processo rappresentativo. Queste convertono la verità filosofica in verità storica: la rivelazione eterna dello spirito allo spirito diventa una rivelazione esteriore per opera di mediatori, di uomini divini, la cui storia costituisce l’elemento centrale della religione. Il progresso del pensiero libera la religione da questo ultimo velame e mette in luce il sistema delle verità eterne; abbiamo allora una forma di religiosità superiore, la filosofia. Sui rapporti della religione e della filosofia nel sistema hegeliano molto si è discusso in vario senso; ma la verità è questa, che Hegel prende la parola religione in due sensi, dei quali l’uno comprende tutte le forme di conoscenza dell’Assoluto e perciò anche l’arte e la filosofia, l’altro comprende la sola religione vera e propria, la religione rappresentativa. Se per chiarezza chiameremo la religione nel primo senso religiosità, diremo che nel progresso dalla religione alla filosofia lo spirito passa dalla religiosità simbolica rappresentativa, alla religiosità filosofica.
La filosofia ha quindi per Hegel carattere religioso. Essa non è la saggezza del mondo, dice Hegel, ma la conoscenza delle cose che non sono di questo mondo; non è la conoscenza delle masse esteriori, dell’esistenza e della vita empirica, ma dell’eterno, della natura di Dio e di ciò che discende dalla sua natura. Il contenuto della religione e della filosofia è lo stesso: ma come di alcune stelle dice Omero, che hanno un nome nella lingua degli Dei ed un altro nella vita degli uomini, così vi sono per lo stesso contenuto due lingue: l’una del sentimento e della rappresentazione — la religione — ; l’altra del pensiero razionale — la filosofia. La superiorità della filosofia non importa che la religione debba scomparire: la religione non sparirà come non è sparita l’arte: la religione razionale rimarrà sempre il patrimonio di pochi. Ma vuol dire invece che la filosofia deve esercitare una costante azione purificatrice ed elevatrice sulla religione. Quindi non è la religione che deve giudicare della filosofia, ma la filosofia che deve giudicare di sè e della religione: quando la religione si arroga di giudicare la filosofia dal suo punto di vista, è il punto di vista inferiore che giudica il superiore. La religione deve anzi cercare nella filosofia la guida e il principio del suo progresso: la religione, dice Baader (citato da Hegel) non è cosa solo del cuore, ma anche e soprattutto della ragione: e non può essere stimata ed amata se non è anche razionalmente apprezzata.
Hegel ha parole eloquenti sopra questo problema tanto contrastato dei rapporti fra religione e filosofia, per mostrare la necessità di un rinnovamento intellettuale della religione. Giustamente egli condanna la religione puramente sentimentale: non è il sentimento, ma il pensiero che fa un uomo capace di religione. Così condanna ogni concezione che lasci sussistere nell’uomo il dissidio tra fede e ragione o che lo risolva in modo unilaterale negando l’uno o l’altro dei termini. Quando la religione e l’intelligenza entrano in conflitto, se la differenza non è conciliata nella conoscenza (scrive Hegel) essa conduce alla disperazione: che è pur essa una conciliazione unilaterale. È una conciliazione in cui si fa getto dell’un lato e ci si attacca fermamente all’altro, senza tuttavia giungere alla vera pace. O lo spirito così scisso rigetterà le esigenze dell’intelletto e tornerà al sentimento religioso nella sua semplicità. Ma questo lo spirito non può senza far violenza a se stesso. Perchè l’indipendenza dello spirito vuole soddisfazione e non può essere compressa con la violenza: lo spirito sano non può rinunciare alla libertà del pensiero. Allora il sentimento religioso si muta in sentimentalità ed ipocrisia: l’anima è in perenne stato di malessere. L’unilateralità opposta è l’indifferenza verso la religione che viene messa da parte ed alla fine combattuta. Questo è il risultato cui arrivano le anime superficiali. La conciliazione non può avvenire se non nel senso d’una interpretazione razionale della religione. Lo spirito è uno: la religione è opera di Dio, ma anche la filosofia. La chiesa ed i teologi possono bene, quando si dà alla loro dottrina un significato razionale, disdegnare questo aiuto della ragione o trovarlo imbarazzante: possono anche respingere con orgogliosa ironia e schernire gli sforzi della filosofia, che non sono diretti contro la religione, ma hanno piuttosto per oggetto di dare un fondamento alla sua verità. Ma questo disdegno è un disdegno stolto ed impotente. Una volta sorto il bisogno di conoscere e con esso il conflitto della filosofia e della religione, la conciliazione non può essere data che dal trionfo dell’intelligenza.
E questa opera di elevazione intellettuale non deve essere opera soltanto dell’individuo, ma anche e sopra tutto dello Stato. Con veduta profonda Hegel condanna la superficiale teoria della libera chiesa in libero Stato. L’uomo non può servire lealmente due padroni a tendenze opposte: in tal caso il cittadino non prende sul serio o il suo rapporto con lo Stato o quello con la chiesa. Lo Stato e la religione debbono compenetrarsi e vivificarsi a vicenda: come nell’individuo, così nella nazione non è possibile scindere l’anima in due parti indipendenti, l’anima politica e l’anima religiosa. Quindi non vi è mutamento di Stato e di costituzione senza fare una riforma ed è pazzia il voler separato il diritto e le leggi dalla religione solo perchè manca la capacità di discendere nelle profondità dello spirito religioso e di elevare questo spirito alla sua verità. Non giova che le leggi e l’ordinamento dello Stato siano trasformati in organizzazione giuridica razionale, se non si abbandona nella religione lo spirito della servitù. Si può comprendere perciò come Hegel respingesse ogni illusione di fortificare lo Stato per mezzo d’una religione fondata sui principii della servitù spirituale, com’è la religione cattolica. «La religione cattolica (scrive Hegel) è stata ed è ancora spesso altamente lodata come quella per cui solo viene assicurata la stabilità dei governi; ma in realtà ciò è vero solo di quei governi che si fondano sulla servitù dello spirito, cioè su istituzioni di violenza e su una condizione di corruttela e di barbarie morale».
Anche da questa rapida esposizione è facile vedere (tralasciando tante altre sue osservazioni sulla fede, sul culto, sul sacrificio, sulle religioni naturistiche e storiche, che conservano anche oggi un alto valore) con quanta finezza e profondità Hegel consideri storicamente il fatto religioso: sotto questo rispetto è giusto considerare Hegel, accanto a Spinoza ed a Kant, come uno dei fondatori della filosofia della religione.
Ma ora viene il rovescio della medaglia. Su che cosa fonda Hegel, nella sua concezione filosofica, il valore della religione, che egli pone così in alto? Che cosa è questo Uno, di cui egli parla come un mistico? Noi l’abbiamo veduto: è lo Spirito, non come unità trascendente, ma come esistenza concreta e pienezza di determinazioni finite. Dio è lo spirito che si rivela nella concatenazione dialettica di tutte le sue determinazioni finite. Dio è lo svolgimento stesso del mondo, nella sua totalità e nella sua verità. Esso non ha un’esistenza a sè, indipendentemente dai contenuti nei quali si manifesta: lo spirito che non si rivela, dice chiaramente Hegel, non esiste. Se vi è un punto, nel quale Hegel è stato assolutamente costante a sè stesso, questo è l’avversione ad ogni concezione trascendente. Quindi l’attitudine polemica contro il pensiero di Kant, il quale pone sopra l’individuo la maestà della legge morale come presentimento e rivelazione pratica d’una realtà divina inaccessibile al nostro conoscere: come contro la teologia razionale, che, dice Hegel, «crede di porre Dio bene in alto quando lo chiama l’infinito ed insegna che tutti i predicati sono inadeguati all’infinito e che col riferirglieli si cade nell’antropomorfismo. Il vero è che rappresentando Dio come l’essenza suprema, essa fa di Dio un essere astratto, vuoto e senza realtà».
Ma se Dio è lo spirito e lo spirito non è che l’unità dialettica dei momenti della realtà, che cosa diventa in ultimo la religione? Non lasciamoci qui abbagliare dal linguaggio entusiastico di Hegel e cerchiamo di determinare con rigore e con chiarezza quale ne è l’oggetto. Oggetto della religione come della filosofia è, dice Hegel, Dio, la verità, l’assoluto: vale a dire la totalità dei momenti per cui lo spirito si eleva alla perfetta autocoscienza, considerata nella sua concatenazione necessaria. Ma la filosofia (e la religione, come sappiamo, non è che una filosofia in simboli) è soltanto una contemplazione passiva della realtà passata. Essa non aggiunge alcuna forma nuova: riflette e contempla l’attività dello spirito, in quanto questa si eleva per gradi alle creazioni della vita morale; e supera la vita morale non per creare alcuna nuova obbiettiva realtà di vita, ma soltanto per riflettere e contemplare la vita morale stessa e tutta la serie di momenti che l’antecedono e la preparano. Lo spirito ha perciò la sua rivelazione obbiettiva più alta nella vita morale: e la vita morale culmina per Hegel, come è ben noto, nella vita dello Stato. Quindi non deve recare meraviglia se Hegel, quando si tratta di proporre un oggetto vero e concreto alla venerazione religiosa, non può additarci altro che lo Stato.
Ed in questo senso infatti Hegel si è pronunciato nel modo più esplicito fin dagli inizi della sua speculazione teologica. Già fin d’allora la religione è per lui un semplice travestimento simbolico di verità morali: e poichè la verità morale è vivente solo nell’unità della vita collettiva, così Dio non è che il simbolo dell’unità morale di un popolo: il passaggio alla religione trascendente è una degenerazione. In questo senso già egli spiega nei suoi frammenti di Berna il passaggio dalla antica religione ellenica alla religione cristiana. La religione dei popoli antichi era religione di popoli liberi: l’uomo antico aveva nella patria e nelle sue leggi l’ideale più alto, al quale era pronto a sacrificare la sua individualità: egli non aveva bisogno di mendicare per sè un’immortalità personale. Per il repubblicano antico l’anima era lo Stato, che era per lui qualche cosa di eterno. Catone Uticense si volse a Platone solo quando ciò che per lui era l’ordine supremo delle cose, la libertà della sua repubblica, fu distrutto; allora cercò un rifugio in un ordine trascendente. Ma quando il corso naturale delle cose creò nel seno di quegli Stati liberi un’aristocrazia, a cui poco per volta il popolo abbandonò la cura della cosa pubblica, e dal cozzo di queste aristocrazie si levò l’ordinamento burocratico e militare della servitù romana, allora la via fu aperta al cristianesimo. Allora scompare l’immagine dello Stato come fine ideale supremo: l’individuo è fatto centro a sè e relegato nella sua piccola vita e nei suoi interessi privati. Allora veramente la morte diventa qualche cosa di terribile: è l’annientamento di tutto l’uomo. Ma la ragione umana non può rinunziare all’Assoluto: e questo lo trova allora in cielo, in un Dio che gli promette l’immortalità individuale. Abituato all’obbedienza, il cittadino si piega allora all’arbitrio straniero d’un Dio: la sua fiacca volontà non opera, ma spera in una realizzazione del suo ideale, che è posto lontano, alla fine dei tempi, in un mondo venturo. E questa realizzazione non è voluta come una conquista, ma mendicata come una grazia, comprata con l’obbedienza e con le opere: la pura religione morale del mondo ellenico diventa una religione trascendente, statutaria, ecclesiastica, corrotta. Qui abbiamo già i tratti essenziali di quel medesimo quadro che ritorna nella Fenomenologia, là dove Hegel tratteggia quello stadio della religione che egli chiama della coscienza infelice: in cui lo spirito, estraniandosi a sè stesso, trasfigura in una divinità esteriore il proprio eterno e serba per sè i caratteri dell’esistenza finita, che deve essere sottomessa e sacrificata al suo ideale sopraterreno. Il Cristianesimo è qui apertamente rappresentato come una religione di decadenza: il suo Dio infinito e trascendente è la triste e vuota unità, che simboleggia la negazione della vita. Se in mezzo a così profonda abbiezione Cristo appare come un liberatore, ciò è perchè egli ebbe un vero e profondo senso della sua unità con Dio, cioè col tutto, e così aprì la via a quella riconciliazione dell’uomo col tutto, che fu l’opera dell’evoluzione della coscienza cristiana.
Ed in quel sistema di Etica, che è la prima redazione del sistema hegeliano, stesa a Jena nel 1802, la forma più alta della vita non è la religione, ma lo Stato. Qui lo Stato, inteso nel senso antico come una comunione di vita collettiva, è la vera e suprema realizzazione dello spirito assoluto, è Dio sulla terra: la realtà morale dello Stato è chiamata l’assolutamente assoluto, il divino, ciò rispetto a cui la filosofia non può pensare nulla di superiore. Hegel qui non sente affatto il bisogno di porre sopra la vita collettiva quelle manifestazioni che più tardi comprenderà col nome di spirito assoluto: l’arte, la religione e la filosofia. La religione non è qui altro che l’intuizione del carattere divino dell’unità morale di un popolo: quest’unità rappresentata come individuo è il Dio di quel popolo.
Più tardi Hegel pose, è vero, le tre forme dello spirito assoluto sopra lo Stato: ma in realtà esse non sono (come abbiamo veduto) che una riflessione individuale sopra la totalità della vita dello spirito, la quale obbiettivamente culmina sempre nello Stato. Perciò anche allora la religione non è in fondo che un riflesso ed un complemento della vita nazionale d’un popolo: che ha per compito di rappresentare e di esprimere simbolicamente l’unità morale dello Stato. «La religione (è detto nell’Enciclopedia) è l’autocoscienza che un popolo ha della sua ragione nella sua sostanzialità assoluta»; e nella Filosofia della religione ciò che nella fase filosofica corrisponde al culto è la moralità politica, la partecipazione alla vita dello Stato. L’ideale politico e religioso rimane sempre per lui l’antica città greca, nella quale Stato e religione erano i due aspetti inseparabili d’un’unica vita: e lo stesso cristianesimo protestante sembra essere per lui soltanto la preparazione d’una religione nazionale germanica. Questo è del resto l’ideale, che sopravvive anche in una parte dell’attuale neo-hegelianismo: il quale pone il compito della filosofia religiosa nella creazione d’una religione nazionale che non sia, come il Cristianesimo, in diretta opposizione con lo Stato ed i suoi valori culturali, ma aiuti il compimento dei doveri nazionali e politici, confermi come un atto religioso il sacrifizio dell’individuo alla patria e sostenga la nazione nella sua lotta per l’esistenza contro le altre nazioni.
Volendo esprimere un giudizio conclusivo sul valore religioso della filosofia hegeliana, noi dobbiamo certo riconoscere che il fatto religioso occupa in essa un largo posto: e ciò si capisce. Il problema religioso fu il primo ad occupare il pensiero del giovane filosofo: la prima opera che intraprese a scrivere è una Vita di Gesù: sono i problemi religiosi che lo hanno condotto al problema filosofico. E lo spirito suo sentì profondamente il fatto religioso, come fatto storico, seppe riviverlo nei suoi momenti e nelle sue deviazioni e, nonostante il materiale manchevolissimo che era a sua disposizione, fu il primo vero storico della religione. D’altro lato però è innegabile che l’indirizzo realistico e naturalistico gli precluse totalmente la via ad una comprensione filosofica della religione: sì che mentre da una parte celebra la religione come la forma più alta di vita, la riduce in fondo dall’altra ad essere il misero strumento della vita politica d’un popolo. Questo dissidio tra l’apprezzamento della religione e la sua interpretazione filosofica non è del resto cosa nuova nè rara per chi conosca la storia della filosofia religiosa; basta ricordare lo spirito, per questo come per altri rispetti tanto affine ad Hegel, di Augusto Comte, spirito profondamente religioso, fondatore egli stesso d’una religione e che tuttavia nella sua filosofia non sa porre alla venerazione religiosa altro oggetto se non quel così poco venerabile essere che è l’umanità. Una religione senza fondamento trascendente è una vana parola: il principio d’ogni anima religiosa si riassume in fondo, come Schopenhauer dice, in questa semplice professione di fede: io credo in una realtà trascendente. Tutti i tentativi di tradurre questa aspirazione verso il trascendente in qualche cosa di umano e di finito hanno lo stesso valore dei tentativi di derivare la legge morale dal piacere o dall’interesse: la filosofia conferma qui la credenza secolare dell’umanità, che il termine di tutte le nostre aspirazioni, come la legge della nostra vita, sono al di là della vita.
Due fatti hanno concorso a creare un’aureola di religiosità all’hegelianismo: il fondamento idealistico del suo pensiero e l’accordo esteriore, da Hegel ostentato, fra la sua dottrina e la ortodossia. Ma quanto al primo punto bisogna intendersi sulla parola «idealismo» che ha due sensi ben distinti. Idealistica in senso gnoseologico è ogni dottrina, che pensa la realtà come un fatto od un complesso di fatti di natura spirituale: idealistica è in questo senso la concezione hegeliana come quasi tutta la filosofia dopo Kant; ma idealista in tal senso è anche ogni filosofo positivista o fenomenista che riduca la realtà a sensazioni. Idealistica in senso metafisico, ossia nel senso platonico, può dirsi invece solo quella filosofia che riconosce la realtà dell’ideale, del dover essere, del trascendente. È in questo senso che l’idealismo è il fondamento necessario d’ogni dottrina religiosa: ma in questo senso nessuna dottrina è così recisamente avversa all’idealismo come la dottrina hegeliana.
Quanto, in secondo luogo, all’accordo col dogma cristiano, esso non rappresenta altro che una pagina poco onorevole nella storia personale di Giorgio Federico Hegel. Hegel è stato un’altissima intelligenza, ma una personalità poco stimabile. Egli ci presenta il fenomeno — non isolato del resto — d’un’attività intellettuale meravigliosa, non sorretta da alcuna elevatezza di carattere. I suoi fini nella vita sono stati puramente personali: la conquista d’una posizione, il successo, la dominazione. Quando nel 1811 ha raggiunto a Norimberga una posizione soddisfacente ed ha preso moglie, scrive all’amico Niethammer: «Il mio fine terreno è raggiunto: perchè con un impiego ed una buona moglie si ha tutto in questo mondo. Queste sono le cose principali che un uomo deve aver di mira: il resto non sono più capitoli, ma paragrafi e note». Singolari parole per un filosofo! Questo carattere ci spiega molti particolari dell’attitudine assunta da Hegel nella sua carriera, dalla associazione con Schelling a Jena fino al suo rapporto col cristianesimo ecclesiastico. Quando Hegel e Schelling si associarono a Jena per fondare il Giornale critico di filosofia, si sparse per Jena la voce che Schelling — allora già docente all’università e celebre — avesse fatto venire dalla nativa Svevia una specie di masnadiere per sostenerlo nella lotta contro Fichte: questo masnadiero era Hegel. Ed in realtà i due amici non sembrano proporsi nel giornale altro fine che questo: aggredire e deprimere con ogni mezzo, specialmente con lo scherno, tutti quelli che facevano loro ombra, per elevare sè stessi. Ed anche in questa associazione chi fa moralmente la più trista figura è Hegel. Quando venne, nel gennaio 1801, a Jena, Hegel aveva già la sua filosofia e vedeva chiaramente le deficienze di Schelling: tuttavia dichiara di adottarne la filosofia ed è più schellingiano di Schelling. Ciò si capisce: mentre Schelling era già un maestro celebre, Hegel era un ignoto ed aveva bisogno d’appoggiarsi ad un nome, ad un gruppo, per aprirsi la via. Ma quando, nel 1803, Schelling è chiamato a Würzburg, comincia la guerra subdola di Hegel contro di lui. E mentre Schelling, che fu ad Hegel amico generoso, s’informa affettuosamente dell’opera sua, la Fenomenologia, era già stesa e stampata la famosa prefazione in cui Hegel si separava dal suo amico con parole di disprezzo e di scherno. Non parlò poi della condotta di Hegel a Bamberga: mentre Fichte pronunziava a Berlino i famosi Discorsi alla nazione tedesca, Hegel dirigeva a Bamberga un giornale devoto a Napoleone e metteva fedelmente in pratica l’imperativo categorico hegeliano: servire sempre il padrone più forte. E quando dopo il 1818, a Berlino diventa il filosofo ufficiale della reazione prussiana, egli si vale della sua influenza politica per la diffusione della sua filosofia: si circonda di scolari servili ed arroganti, riempie le università di sue creature, le quali non hanno altro merito che di cantare in tutti i toni le lodi del maestro, e perseguita con animosità implacabile i suoi rivali. Ma il peggiore episodio di questo periodo è la sua denunzia di Fries, suo rivale fin dai tempi di Jena, che era stato sospeso per la sua partecipazione ai moti liberali studenteschi e che Hegel nella sua prefazione alla Filosofia del diritto denunzia pubblicamente al governo: fatto veramente turpe e disonorante che sollevò anche allora una generale indignazione. «È uno spettacolo doloroso, (scrive di lui un biografo benevolo, il Dilthey) vedere questo grande pensatore, uomo nel resto di carattere fermo e schietto, in una posizione ambigua che allontanò da lui i migliori uomini del tempo e lo accomunò coi peggiori. Egli pagò la sua potenza un grave prezzo. Egli diede anzitutto reale fondamento a quella condanna della filosofia ufficiale che va da Schopenhauer a Feuerbach ed a Nietzsche. Il disdoro, che Hegel e Schelling come filosofi di Stato hanno gettato sul nome puro della filosofia, è incalcolabile. È un tragico destino dei caratteri autoritarii nella vita scientifica che essi debbano pagare la loro influenza con compromessi e posizioni ambigue, che sono inconciliabili con le esigenze d’un pensiero indipendente ed obbiettivo».
Questo aspetto del carattere di Hegel ci spiega come nei rapporti dell’hegelianismo e del Cristianesimo egli si sia mantenuto sempre in una situazione equivoca, ad arte voluta ed a lui imposta dalla sua posizione ufficiale. Che Hegel non potesse prendere letteralmente il miracolo e la rivelazione si capisce. La via per un’intesa della filosofia con la religione non poteva essere che quella già aperta da Kant e cioè quella dell’interpretazione simbolica dei dogmi. La verità fondamentale della religione è per Kant la verità morale: i dogmi nascono dalla tendenza dello spirito a rappresentarsi sotto forma di persone e di eventi i rapporti e le idee fondamentali della vita morale. Ma mentre Kant procede per questa via con onesta chiarezza, Hegel aduna intorno a questo punto tutte le tenebre del suo pensiero e del suo linguaggio. Egli è abilissimo nel mostrare la debolezza intrinseca e il carattere arbitrario delle speculazioni teologiche, ma è altrettanto abile nel nascondere il carattere razionalistico della sua dottrina. Egli chiama ora il Cristianesimo la religione assoluta: ma perchè pone come conclusione e culmine del pensiero cristiano la sua filosofia; e dedica una gran parte della Filosofia della religione alla giustificazione del dogma cristiano, perchè in esso è rappresentato, secondo lui, il dramma eterno dello spirito. Anche il rapporto tra religione e filosofia, così essenziale, è posto in termini sibillini; vi sono dei passi nella Filosofia della religione dove è evidente lo sforzo d’avvicinare la sua teoria dei tre momenti dello spirito al dogma cristiano e di assimilare la sua idea pura al concetto d’un Dio personale. Tutte queste volute oscurità, queste ambiguità dialettiche, questa premura di mettere in luce i punti d’accordo, non solo non aggiungono nulla al valore religioso dell’hegelianismo, ma non fanno anzi che renderci dubbiosi circa la sincerità e la profondità del sentimento religioso di Hegel stesso. Un’anima diritta e sinceramente religiosa avrebbe respinto da sè queste ipocrisie col più alto disdegno.
Non basta quindi il sentimento profondo, che Hegel ha avuto dell’unità immanente, per fare della sua filosofia una filosofia religiosa. A me la concezione hegeliana nel suo complesso ha sempre richiamato quella famosa visione apocalittica di Giampaolo Richter quando i morti si levano dalle tombe e chiedono al Cristo: Dove è il Dio che ci hai promesso? Ed il Cristo dopo avere percorso e scrutato l’universo, con amarezza risponde: Non vi è Dio in nessuna parte! Così è del mondo hegeliano. Percorriamolo in tutte le sue parti dall’idea pura alle creazioni più alte dello spirito: noi potremo sentirvi in ogni parte il lavorìo d’una ragione onnipotente e della sua dialettica inesorabile: ma Dio, ciò che noi chiamiamo Dio, non vi è in nessuna parte.
Note
- ↑ Estratto dal volume pubblicato nel 1926 per le onoranze a B. Varisco.