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zionalistico della sua dottrina. Egli chiama ora il Cristianesimo la religione assoluta: ma perchè pone come conclusione e culmine del pensiero cristiano la sua filosofia; e dedica una gran parte della Filosofia della religione alla giustificazione del dogma cristiano, perchè in esso è rappresentato, secondo lui, il dramma eterno dello spirito. Anche il rapporto tra religione e filosofia, così essenziale, è posto in termini sibillini; vi sono dei passi nella Filosofia della religione dove è evidente lo sforzo d’avvicinare la sua teoria dei tre momenti dello spirito al dogma cristiano e di assimilare la sua idea pura al concetto d’un Dio personale. Tutte queste volute oscurità, queste ambiguità dialettiche, questa premura di mettere in luce i punti d’accordo, non solo non aggiungono nulla al valore religioso dell’hegelianismo, ma non fanno anzi che renderci dubbiosi circa la sincerità e la profondità del sentimento religioso di Hegel stesso. Un’anima diritta e sinceramente religiosa avrebbe respinto da sè queste ipocrisie col più alto disdegno.

Non basta quindi il sentimento profondo, che Hegel ha avuto dell’unità immanente, per fare della sua filosofia una filosofia religiosa. A me la concezione hegeliana nel suo complesso ha sempre richiamato quella famosa visione apocalittica di Giampaolo Richter quando i morti si levano dalle tombe e chiedono al Cristo: Dove è il Dio che ci hai promesso? Ed il Cristo dopo avere percorso e scrutato l’universo, con amarezza risponde: Non vi è Dio in nessuna parte! Così è del mondo hegeliano. Percorriamolo in tutte le sue parti dall’idea pura alle creazioni più alte dello spirito: noi potremo sentirvi in ogni parte il lavorìo d’una ragione onnipotente e della sua dialettica inesorabile: ma Dio, ciò che noi chiamiamo Dio, non vi è in nessuna parte.