La donna stravagante/Atto III
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto II | Atto IV | ► |
ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Altra camera.
Don Riccardo da una parte, e don Rinaldo dall’altra.
Meco nel tollerarmi.
Riccardo. Come la cosa è andata?
Rinaldo. Andò come potevasi sperar da un cuor ferino;
Andò qual per mio peggio comanda il mio destino.
Che non fe’, che non disse un labbro innamorato?
Mi vide al di lei piede la barbara prostrato.
Finse pietà l’ingrata; mi dier lusinga i vezzi;
Ma ricambiommi alfine coll’onte e coi disprezzi.
Molto soffersi, e molto; alfin la mia speranza...
Riccardo. Non mi vantate in faccia la stolida costanza.
Della nipote ardita cerco disfarmi, è vero:
Potrebbesi sperare che si cambiasse un dì,
Ma voi veder non posso ingiuriar così.
Amo l’onesto, il giusto; odio un ingrato eccesso;
Tinto di simil macchia abborrirei me stesso.
Qual parlerei, lo giuro, ad un nipote, a un figlio,
Tale a voi, don Rinaldo, propongo il mio consiglio.
Scordatevi l’ingrata, lasciate di seguirla,
E a me lasciate, amico, la cura di punirla.
Rinaldo. Per cagion mia, vi prego, non la punite.
Riccardo. Ancora
Ad onta degl’insulti l’audace v’innamora?
Rinaldo. Sì, lo confesso.
Riccardo. E siete, qual uom di sangue oscuro.
Insensibile ai torti?
Rinaldo. Ah questo no, vel giuro.
Amo la donna ingrata; ma cavaliere io sono.
Consigliami l’onore lasciarla in abbandono.
Costimi ancor la vita, saprà ch’io son disciolto;
Più non mi avrà d’intorno, più non vedrolla in volto.
Ma se per mia sventura amarmi ella non puote,
Per me del zio lo sdegno non soffra una nipote.
A me più non si pensi da voi, da lei, dal mondo,
E il suo rossor non crescami delle mie pene il pondo.
Compatitemi. Addio.
Riccardo. Dove sì mesto in viso?
Rinaldo. A rendermi per sempre dalla crudel diviso.
Riccardo. Come ciò far pensate?
Rinaldo. Avrà con brevi detti
La libertà in un foglio del cuore e degli affetti.
L’avrà senza rimorso; potranno a lor talento
Quegli occhi traditori altrui render contento;
Ed io, che invidia sempre avrò dell’altrui sorte,
Attenderò il rimedio dal tempo, o dalla morte.
E voi, se a me congiunto il ciel non vuol che siate,
Siami permesso il dirvi, che alla nipote umano
Esser vogliate, ad onta di un cuor barbaro e strano;
Ch’ella, se tal fu meco, lo fu per mia sventura.
Altrui sarà quell’anima più docile, men dura.
Fu meco sconoscente, m’insulta, mi martella;
Giurato ho di lasciarla; ma dirò sempre: è bella, (parte)
SCENA II.
Don Riccardo, poi donna Rosa.
Tennemi in guardia sempre colla ragione il core.
Ogn’altro mal che provasi, se dal destin proviene,
La sofferenza apprendere dalla virtù conviene.
Ma i procacciati mali di un misero talento
Dal mondo non può esigere1 nemmen compatimento.
Io merto esser compianto, io che per mia sventura
D’una famiglia ho il peso, queste due donne ho in cura;
Ma non andrà gran tempo, che fuor da questo tetto
Vorrò vederle entrambe, fosse anche a lor dispetto.
Ecco a me la minore, men dell’altra orgogliosa.
Rosa. Signor, voi mi lasciaste inquieta e sì dogliosa.
Che fui da quel momento finor fuor di me stessa.
Da mille doglie afflitta, da mille dubbi oppressa.
L’unico ben ch’io bramo, è l’amor vostro, e questo
Togliemi senza colpa il mio destin funesto.
Riccardo. No, figlia, non iscemasi il mio sincero affetto.
Ebbi, non so negarlo, di voi qualche sospetto;
E alfin la diffidenza non condannar bisogna,
Se d’altri in me la genera l’inganno e la menzogna.
Vo’ che si scelga stato. La resistenza è vana;
E chi svelar ricusa l’interno suo desio,
Vedrà il proprio destino dipendere dal mio.
Ebbi per donna Livia finor tal convenienza.
Che mertano i riguardi di onesta preferenza.
Ma questi han da aver fine: pensate a voi soltanto,
La soggezion del sangue lasciatela da un canto.
Come se sola foste, svelate a me la brama;
Ditemi a quale stato l’inclinazion vi chiama.
Fidatevi del labbro di un zio, di un cavaliero:
Il vostro cuor, nipote, apritemi sincero.
Rosa. Al ragionar discreto di un zio d’amor ripieno,
Non vo’ che altri timori si destin nel mio seno.
Signor, se voi sdegnate di me più lunga cura,
Giust’è che mi solleciti di uscir da queste mura.
Non gradirei, per dirla, la noia di un ritiro;
Intender voi potete lo stato a cui aspiro.
Riccardo. Più gentilmente accorto un labbro rispettoso
Svelar non mi poteva la brama di uno sposo.
Sì, l’avrete; non pochi sono i partiti onesti
Che offerti sono. Il meglio si sceglierà fra questi.
E vaglia a consolarvi, che i pregi vostri ammirano,
E che alle nozze vostre i più felici aspirano.
Della maggior germana superba stravaganza
Vanterà meco invano la folle maggioranza.
Quando ritorni il zio con uno sposo eletto,
Si accetterà da voi?
Rosa. Sì, mio signor, l’accetto.
Riccardo. Bene; la suora vostra quel che sa dir, si dica:
Chieda ragione invano, chi è di ragion nemica.
Di lei non vi spaventino onte, minacce, orgoglio:
Ella è che così merita; son io che così voglio, (parte)
SCENA III.
Donna Rosa.
E il ben ch’egli trascura, per altri si destina.
La morte, dir si suole, d’ingorda belva ardita
Può all’innocente agnella assicurar la vita;
Così della germana, che meco è un fier mastino,
Faran le metamorfosi migliore il mio destino.
Eccola in compagnia di due che l’assomigliano;
Saggia com’esser puote, se i stolti la consigliano?
SCENA IV.
Donna Livia, don Properzio, don Medoro e detta.
V’abbiam finora invano cercata in più d’un loco.
Rosa. Da me che può volere sì nobil compagnia?
Livia. Passar un’ora insieme si vuole in allegria.
Properzio. Riverir donna Rosa.
Medoro. Goder la sua presenza.
Rosa. Sorella, un’altra volta. Signori, con licenza.
(in atto di partire)
Livia. State qui, scioccarella.
Rosa. Domandovi perdono...
Livia. Sì, sì, restar negate, lo so, perch’io ci sono.
Possibile che sempre sdegnata abbia a vedervi
Meco senza ragione?
Rosa. Starò per compiacervi.
Properzio. Malinconia, ritiro, non son cose da voi. (a Rosa)
Medoro. Se siete addormentata, vi sveglieremo noi. (a Rosa)
Livia. Germana, vi assicuro, dicono cose tali
Che ridere farebbero chi avesse cento mali.
Rosa. Mi rallegro con voi, poichè vi veggo in viso
Succedere allo sdegno coll’allegrezza il riso.
(Provato ho don Rinaldo. Ei non mi fugge più), (da sè)
Rosa. (O non sa qual destino a lei sorte minaccia,
O prova il suo dispetto a simulare in faccia), (da sè)
Properzio. Ma che facciam qui in piedi?
Medoro. Seggan le dame almeno.
Livia. (Venisse don Rinaldo a consolarmi appieno!
È ver che lo lasciai scontento, ma già sono
Certa, ch’ei dee tornare a chiedermi perdono). (da sè)
Properzio. Degnatevi. (a donna Rosa)
Medoro. Sedete. (a donna Livia)
Livia. Tutti seder possiamo.
Rosa. Eccomi.
Livia. Che s’ha a fare? giocar?
Medoro. No, mormoriamo.
Livia. Di chi?
Properzio. Di tutto il mondo.
Rosa. Par che ragion lo vieti.
Medoro. Facciam quel che si pratica; mormoriam dei poeti.
Livia. Sì, sì, ci ho proprio gusto. Oggi mi trovo in vena.
Parliam delle commedie vedute in sulla scena.
Rosa. Germana, compatitemi, tal uso non mi piace;
Perchè trattar gli autori con critica mordace?
Properzio. Se sempre si lodassero, si perderian gli autori:
La critica è quel pungolo che rendeli migliori.
Medoro. Allor che una commedia si sprezza a voce piena,
Allor si dà il poeta a lavorar di schiena.
Rosa. Se prevalesse al pubblico un simil sentimento.
Mai, per sperar di meglio, vedrebbesi contento.
Livia. Il pubblico per altro composto è di tal gente,
Che suol con vari capi pensar diversamente.
Alcuni sprezzan l’opere che ad altri paion belle;
Alcuni le sprezzate sollevano alle stelle;
Se vari i geni sono, anche il giudizio è vario;
E il mio della corrente va sempre all’incontrario.
Livia. Una commedia sola fra quante ne ho vedute.
Rosa. (Sentiam le prove solite di stravagante umore), (da sè)
Medoro. La vostra favorita qua! è?
Livia. Il Raggiratore2. (tutti ridono)
Properzio. Se sa chi la compose che abbiate tal concetto,
Vi manda a regalare almen con un sonetto.
Medoro. Dubito che l’autore, con vostra permissione,
Sia amico vostro, e abbiate per lui della passione.
Livia. È vero, io lo conosco, per lui ho della stima.
Ma quando a me non piace, sono a dir mal la prima.
Rosa. Sì sì, quando a lui riescono le opere infelici,
Son primi a lamentarsene i suoi migliori amici.
Lo sa che amor li stimola ad un linguaggio amaro,
Ma questo amor talvolta gli costa troppo caro.
Livia. Dunque cotal commedia ragione ho di lodarla.
Rosa. Doveasi con prudenza lasciar di nominarla.
Livia. Germana, la credete sì trista e scellerata?
Rosa. Giudicheralla il mondo allor che sia stampata.
Properzio. Che intreccio saporito, che fin maraviglioso!
Medoro. L’ha preso dal Destouches3, nel suo Vanaglorioso.
Properzio. Dunque, per quel ch’io sento, così pessimo ed empio
Ch’egli è il Raggiratore, ha più di un buon esempio.
Famoso è quel Francese che diede il scioglimento,
E al nostro autor si nega il suo compatimento?
Sapete la sua colpa? Eccola, egli non suole
Copiar mai da nessuno gl’intrecci e le parole:
Una sol volta il fece, e questi è il suo delitto.
Con più attenzion dell’altre4 questa commedia ha scritto.
Livia. Lasciam questo proposito, che alfin non val niente.
Troviam materia nuova di star più allegramente.
Oggi mi sento il cuore di tal letizia pieno,
Rosa. Da che provien, germana, tal gioia inusitata?
Livia. Dall’esser da chi s’ama temuta e rispettata.
Properzio. Amor rallegra i cuori.
Medoro. Amor rende tai frutti.
Livia. Ma quel piacer ch’io provo, non si ritrova in tutti.
SCENA V.
Cecchino e detti.
Livia. Oh mio Cecchino, che vuoi da me?
Cecchino. Qual soglio,
Eccomi nuovamente apportator d’un foglio.
Livia. Recalo a me.
Cecchino. Tenete. (le dà il foglio)
Livia. (Oh foglio a me diletto!
Nuovo piacer preveggo. Nuovi perdoni aspetto).
(apre il foglio)
Rosa. (Stupida la rimiro). (Ja 5è)
Properzio. Giubila di contento, (a donna Rosa)
Medoro. Nuove felici, è vero? (a donna Licia)
Livia. (Misera me, che sento?) (da sè)
Rosa. Si turba.
Properzio. Si scolora. (a donna Rosa)
Medoro. L’occhio non par più quello.
(a donna Rosa)
Cecchino. (Dubito questa volta non donimi un anello). (da sè)
Livia. (Possibil che mi lasci? Ah! da’ suoi detti il temo.
Ingratissimo foglio! ah, dalla bile io fremo). (da sè)
Rosa. Che vuol dir donna Livia?
Livia. Un improvviso assalto
Di convulsioni al capo.
Properzio. Che? vanno i fumi in alto?
Rosa. Quel foglio havvi destato l’intempestivo umore?
Rosa. Datelo a me, che allettami l’odore, e non mi offende.
Livia. Donna curiosa invano di leggerlo pretende, (s’alza adirata)
Medoro. Se cosa è che vi spiaccia, a noi non la celate.
Properzio. Deh, parlateci almeno.
Livia. Non vo’ parlare. Andate.
Rosa. Vi licenzia, signori.
Properzio. Noi non andrem per questo.
Rosa. Restate, se vi aggrada, io più con lei non resto.
Non vo’ che mi rimproveri curiosità malnata:
Livia è fuor di se stessa, quel foglio l’ha sdegnata.
(Qualche desio, confesso, ho di saperlo in petto;
Ma provocar non voglio, restando, il suo dispetto.
Sia pur qual esser vuole quel cor, lieto o sdegnoso.
So quel che il zio mi disse, sull’amor suo riposo).
(da sè, e parte)
SCENA VI.
Donna Livia, don Properzio, don Medoro e Cecchino.
Medoro. L’altra ha i deliri suoi, (a Properzio)
Properzio. Ora, se il ciel s’annuvola, a che restiam qui noi?
Cecchino. (Bella conversazione! nessun dice parola). (da sè)
Livia. Signori, con licenza. Desio di restar sola.
Properzio. Bel complimento invero!
Medoro. Andrem, quando vi piace;
Ma il cuore ai buoni amici si spiega, e non si tace.
Livia. Voglio tacer, v’ho detto.
Medoro. Quel foglio disgraziato
Qualche dolor vi reca.
Properzio. Qualche spiacer vi ha dato.
Livia. (Mi seccano). (da sè)
Properzio. Se a noi fate la confidenza...
Medoro. Se vi spiegate a noi...
Livia. Mi pare un’insolenza.
Se a dir mi provocate...
Properzio. Padrona. (parie)
Medoro. Riverisco. (parie)
SCENA VII.
Donna Livia e Cecchino.
Cecchino. Mel diede don Rinaldo.
Livia. Disseti nulla in voce?
Cecchino. Nulla.
Livia. Oimè! mi vien caldo.
Apri quella finestra, e non tornar fin tanto
Che qui non ti richiami.
Cecchino. (Oh oh, vi è del mal tanto).
(si ritira)
Livia. Indegnissimo foglio! perfido chi ti ha impresso!
Cento insulti ha sofferti, e si risente adesso?
Dopo il perdon ch’ei m’ebbe richiesto, ed ottenuto,
Per più leggiera offesa sì indocile è venuto?
Leggiamole di nuovo queste superbe note:
Ah, di rossor nel leggerle si tingono le gote.
Io soffrirò che tale un amator mi scriva?
Da me ottener non speri perdono infin ch’io viva.
Signora. L’idol suo più non mi chiama? indegno!
Della signora aspettati a tollerar lo sdegno.
Signora. A tollerarvi son da lung’uso avvezzo,
Ma giunse ad istancarmi quest’ultimo disprezzo.
Che dissi mai stamane, che fosse oltre l’usato?
Ah sì, l’aspra catena cangiar l’ho provocato.
Ma ch’io da scherzo il dissi, non s’avvisò lo stolto?
Ah, che trascorre il labbro, allor che parla molto!
S’egli da me tornasse, direi che tal non fu...
Ma che da me non torni; non vo’ vederlo più.
(adirata, poi sospira)
Io, pria di più vedervi, mi eleggo di morire.
Morrà, se non mi vede. Ma vuol morir, protesta,
Eh, di sdegnato amante solita frase è questa.
Ritornerà, son certa; amor vince l’orgoglio;
Ma torni pur l’ingrato, più rimirar nol voglio.
(adirata, poi sospira)
Lo dissi a don Riccardo. Giurai sull’onor mio.
Recavi questo foglio un sempiterno addio.
Questo è troppo. (siede) Narrarlo a don Riccardo istesso?
Debolezza da stolto, indegna del suo sesso.
Di me che dirà il zio? che dirà il mondo tutto?
Ah, delle mie stranezze ecco alla fine il frutto.
(resta alquanto sospesa)
Cecchino.
Cecchino. Mia signora.
Livia. Don Rinaldo dov’è?
Cecchino. Non lo saprei davvero.
Livia. Voglio un piacer da te...
Cecchino. Mi comandi.
Livia. Va tosto girando la città...
Guarda un po’ s’egli fosse sotto al balcon. Chi sa?
Cecchino. Non crederei, signora.
Livia. Perchè?
Cecchino. Perchè sdegnato,
Allor che alle mie mani quel foglio ha consegnato.
Dissemi: Del mio duolo abbi pietà ancor tu;
Non mi vedrai, Cecchino, non mi vedrai mai più.
Livia. Questo di più a te disse, e a me lo taci, indegno? (s’alza)
Ah, merti ch’io principi sfogar teco il mio sdegno.
Cecchino. Non me lo ricordava. (forte ritirandosi)
Livia. Accostati.
Cecchino. Ho timore.
Livia. Vieni qui.
Cecchino. Dell’orecchio mi pizzica il bruciore.
Cecchino. Subito.
Sana quest’altra orecchia non conservare io dubito.
(va a prendere da scrivere)
Livia. Mi avvilirò a tal segno? gli scriverò? si faccia;
Ma il foglio mio contenga un’onta, una minaccia.
E poi se più s’irrita? Eh, non potrà durarla.
Se vede una mia carta, son certa, ha da baciarla.
Cecchino. Ecco qui l’occorrente.
Livia. Non ti partire.
Cecchino. Aspetto.
Livia. Ho cento dubbi in cuore; ho delle smanie in petto.
Vorrei, e non vorrei. Son di consiglio priva.
Ora spero, or pavento. Risoluzion: si scriva. (siede)
Perfido!
Cecchino. (Eh, bel principio!) (da sè)
Livia. Ah, si moderi il caldo.
(straccia il foglio)
Ma l’onor si sostenga. Scrivasi: Don Rinaldo.
Nuovo linguaggio e strano giunse al cuor mio nel foglio.
Che di dolore empiendomi... Non sappia il mio cordoglio.
(straccia la carta)
Cecchino. (Ho inteso. Donna Livia or or farà ch’io parta,
Dieci quinterni almeno a provveder di carta), (da sè)
Livia. Don Rinaldo, stupisco che un tal linguaggio nuovo
Giunga a me d’improvviso... I termini non trovo.
SCENA VIII.
Il Servitore e detti.
Livia. Che vuoi?
Cecchino. (Abbi giudizio).
(piano al servitore)
Servitore. Perchè?
Livia. Si può saper che cerchi?
Servitore. Con vostra permissione,
Cerco di donna Rosa.
Livia. Chi la vuole?
Servitore. Il padrone.
Livia. Si sa perchè?
Cecchino. (Se il sai, dillo pria di sdegnarla).
(al servitore)
Servitore. Credo, per quel che intesi, ch’ei voglia maritarla.
Livia. Maritar la germana? come lo sai? favella. (s’alza)
Servitore. Sentii parlar con uno...
Livia. Con un? come s’appella?
Cecchino. (Oh, stai fresco). (al servitore)
Servitore. Perdoni, non so più di così.
Livia. Pria di me la germana?
Servitore. Appunto, eccola qui.
SCENA IX.
Donna Rosa e detti.
(a donna Rosa)
Livia. Fermati. (al servitore)
Servitore. Non ho tempo. (Affè, mi fa paura). (parte)
Livia. Andate, graziosina, che il zio vuol maritarvi.
Rosa. S’egli lo vuol, si faccia; non vengo a consigliarmi5.
Livia. Prima di me ardirete sposa mostrarvi al mondo?
Rosa. Chi ci governa ha in mano il primo ed il secondo.
Livia. Ah, se vivesse il padre, non soffrirei tal torto.
Rosa. Ora lo zio comanda; e il genitore è morto.
Livia. Orfana saprò ancora farvi arrossire in volto.
Rosa. A chi comanda io cedo; vi lascio, e non vi ascolto.(parte)
SCENA X.
Donna Livia e Cecchino.
Ah, fosser noti almeno miei torti a don Rinaldo!
Ma non li cura ingrato. Sì, ancor vo’ lusingarmi,
Ch’ei torni a rivedermi, ch’ei vaglia a vendicarmi.
Calmisi il mio furore, soffra l’usato orgoglio;
A lui, che alfin m’adora, giunga un tenero foglio.
Lo formerò; ma in prima sappia lo zio indiscreto.
Che all’onta ch’io ricevo, protesto e non mi accheto.
Seguimi; non lasciarmi. Ho di te duopo; o numi!
(a Cecchino)
Come la sorte a un tratto cambiar fa di costumi!
No, perfida germana, no, tu non mi precedi.
Se anche gettar dovessimi di don Rinaldo ai piedi. (parie)
Cecchino. Oh, se vedessi questa, vorrei pur rider tanto!
Sarebbe un bell’esempio delle superbe al vanto.
È ver che donna Livia ha indocile talento.
Ma un cuor ch’è stravagante, si cambia in un momento.
(parte)
Fine dell’Atto Terzo.
- ↑ Così l’ed. Pitteri. Le edd. Guibert-Orgeas, Zatta e altre credettero di correggere: non puon esiger ecc.
- ↑ Vedasi la commedia che precede a questa, nel presente volume, e la Nota storica.
- ↑ Le vecchie edizioni stampano: Destouche.
- ↑ Guibert e Orgeas, Zatta e altri: dell’arte.
- ↑ Così, per distrazione goldoniana, nelle edd. Pitteri, Guibert-Orgeas e altre. Nell’ed. Zatta male fu corretto: consigliarvi.