La donna stravagante/Atto IV

Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Cecchino ed il Servitore s’incontrano.

Cecchino. Oh, volentier t’incontro. Le cose come vanno?

Donna Rosa è contenta? Le nozze si faranno?
Servitore. Per quello che ho potuto intendere dall’uscio,
Per ora donna Rosa non vuole uscir dal guscio.
Il cavalier propostole è ricco, è grande, è nobile;
Ma è vecchio ed ha, per dirla, in faccia un brutto mobile.
È stravagante, è altiero, parla e pensa a sproposito.
Cecchino. Questo per donna Livia è un partito a proposito.
Servitore. Dov’è la capricciosa, che non si vede?
Cecchino.   Scrive.
Servitore. Volea dal mio padrone passar con le cattive,
Ma io che aveva l’ordine di non lasciarla entrare,
Affè, l’ho canzonata, e mi ho fatto stimare.

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Cecchino. Oh, se l’avessi intesa quando tornò! quai furie!

Contro di don Riccardo scaricò mille ingiurie;
Poi si placò, si pose a scrivere un viglietto;
Dissemi che aspettassi, ed io son qui che aspetto.
Servitore. Aspettala a tuo grado, ch’io non la vo’ d’intorno.
Andai per un affare, al posto or fo ritorno.
Cecchino. Sono serrati ancora?
Servitore.   Sì, v’è ancor la fanciulla.
Tenta di persuaderla, ma già non si fa nulla.
Cecchino. Per altro egli è un sistema, mi pare, inusitato,
Specialmente fra nobili. Mi son maravigliato
Sentir che don Riccardo, ch’è un cavalier prudente,
Volesse in tal incontro la giovine presente.
Servitore. È ver, doveva in prima concludere il contratto,
Poi chiamar la nipote; ma so perch’ei l’ha fatto.
Con un ch’è ricco e nobile vorrebbe accompagnarla.
Ma strano conoscendolo, non vuol precipitarla.
In prima egli ha voluto veder s’ella è contenta.
Acciò la poverella un di non se ne penta.
Oh, se così facessero i padri colle figlie,
Al mondo non vedrebbonsi cotante maraviglie.
Se amor facesse i sposi, sarebbon più contenti,
Nè tanti si vedrebbono più amici che parenti.
Cecchino. Ecco la mia padrona.
Servitore.   Non vo’ mi veda in faccia.
Cecchino. Talora io me la godo.
Servitore.   Sì, sì, buon pro ti faccia. (parte)

SCENA II.

Cecchino, poi donna Livia.

Cecchino. Con lei sono avvezzato; la so blandir da scaltro;

Quello ch’io talor soffro, non soffrirebbe un altro.
Ma se colle stranezze mi provoca e m’aizza,
Con qualche regaluccio mi medica la stizza.

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Livia. Cecchino.

Cecchino.   Mi comandi.
Livia.   Reca questo viglietto
A don Rinaldo subito, e la risposta aspetto.
Cecchino. Sarà servita.
Livia.   Osserva nel leggerlo ben bene,
Quali moti egli faccia.
Cecchino.   (Da ridere mi viene.) (da sè)
Livia. Sappimi dir, se lieto ei ti rassembri in viso;
Se avesse mai di lagrime l’occhio dolente intriso;
Se nell’aprire il foglio, la man gli tremi, e come
Leggere ansioso mostri di donna Livia il nome.
Guarda, osserva, raccogli, se il foglio mio gli è grato.
Cecchino. E se me lo rendesse il Cavalier stracciato?
Livia. Se tal disprezzo io soffro, non mi venir più innante.
Ma nol farà; son certa che don Rinaldo è amante.
È un amator sdegnato; tal della donna è il vanto;
Forzato è dalla speme venir biscia all’incanto.
Vanne, ritorna lieto, quale il cuor mio ti aspetta.
Cecchino. (Oh, di superba femmina prosunzion maledetta!
Pretende che l’amante di tutto abbia a scordarsi.
Se don Rinaldo è un uomo, stavolta ha da rifarsi.
Lo goderei, lo giuro, vederlo ricattato,
A costo anche di perdere, e di essere picchiato.)
(da sè, indi parte)

SCENA 111.

Donna Livia sola.

Questa volta m’indusse, più che l’amor, lo sdegno,

A usar contra mia voglia un atto di me indegno.
Il trattamento strano del zio meco incivile
Resemi coll’amante dolce, discreta, umile;
Prima che alle mie nozze non diasi il compimento,
Veder della germana non vo’ l’accasamento.

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E in pronto non avendo altro miglior partito,

La brama in don Rinaldo sollecita un marito.
L’amo ancor, non lo nego, ma d’irritarlo ho in uso;
Or con note amorose seco mi spiego, e scuso.
L’invito, lo addormento, e a far ch’egli mi creda,
Bastami che mi ascolti, mi basta ch’ei mi veda.

SCENA IV.

Donna Rosa e la suddetta.

Rosa. Oh incontro inopportuno! (da sè, arrestandosi)

Livia.   Venga, signora sposa.
Non lasci che i suoi titoli la rendano orgogliosa:
È principe, è marchese, è duca, è coronato
Lo sposo, che al suo merito le stelle han destinato?
Rosa. Sospendere potete lo scherno, amabil suora;
Comandano le stelle ch’io non lo sappia ancora.
Livia. Non si formò il contratto tra i fortunati eroi?
Rosa. Rinunzio a tal fortuna, e ve la cedo a voi.
Livia. Grazie dell’onor massimo che degnasi di farmi.
Dovrei di un sì bel dono sommessa approfittarmi;
Ma quel che dai begli occhi fu tocco e affascinato,
Me sdegnerebbe in cambio sposa mirarsi allato.
Rosa. Il cavalier propostomi è tal, ve lo protesto,
Che cambierebbe in meglio con sì felice innesto.
Livia. Non vi capisco.
Rosa.   Udite. Al cavalier sublime
Congiunte son di sangue le illustri case, e prime;
E ha tai dovizie e onori, e ha nome tal nel mondo,
Che a pochi in patria nobile può renderlo secondo.
Altra di me più saggia ne daria grazie al nume;
A me spiace il suo volto, dispiace il suo costume.
O pur dirò che il fato in me difetti aduna,
Che degna non mi rendono di simile fortuna.

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Chi sa che destinata per voi non sia tal sorte?

Miratelo, germana, escir da quelle porte.
Al zio che l’accompagna, spiegatevi: chi sa?
Par che per voi sia nato. Vel lascio in verità. (parte)

SCENA V.

Donna Livia, poi don Riccardo ed il Marchese Asdrubale.

Livia. Restami ancor in dubbio, se finga, o sia già sposa.

Posso appagar la brama, che rendemi curiosa.
Dissimular lo sdegno saprò, finchè del vero
Mi appaghi don Riccardo, che or vien col cavaliere.
Riccardo. Marchese, il cuor conferma quel che col labbro io dico;
Vi è noto qual vi sono fin da’ primi anni amico.
Bramai che a voi congiunto fosse il mio sangue invano,
E la nipote al nodo prestar nega la mano.
Marchese. Perchè pensate voi sdegnar voglia in consorte,
Cospetto! un cavaliere, un uom della mia sorte?
Riccardo. Sprezzo in lei non credete, ma un debole desio.
Marchese. Le prime dame aspirano, cospetto! ad un par mio.
Livia. (Per dirla, al primo abbordo ha un’aria che ributta,
Ma spesso il bel si cela, se l’apparenza è brutta). (da sè)
Marchese. Lo zio colla nipote voler può a suo dispetto.
L’uomo dev’esser uomo, farsi stimar, cospetto!
Livia. (Gli sta pur bene in bocca quel cospettar frequente!)
(da sè)
Riccardo. Non ponno ad uom felici riuscir nozze violente,
Ne d’amor foco accendere potrebbe un cuor di ghiaccio.
Acchetatevi, amico. Alfin...
Marchese.   Cospettonacio!
Livia. (Segno è d’animo grande quel risentire il caldo.
Tutti non hanno in seno il gel di don Rinaldo.) (da sè)
Riccardo. Che fa qui la nipote?
Livia.   Fo quel che piace a me.
Riccardo. Risposta di voi degna!

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Livia.   Quel cavalier chi è?

Riccardo. Questi è il marchese Adrubale.
Livia.   (Asdrubale! mi piace).
Marchese. Chi è quella? (a don ’Riccardo)
Riccardo.   È donna Livia.
Marchese.   Cospetto! non mi spiace.
Riccardo. (Affè, se amor formasse sì strano matrimonio,
Pronubo a nozze tali vedrebbesi il demonio).
Marchese. Donna Livia è fanciulla?
Livia.   Lo son, per mia sventura.
Riccardo. Piacevi il bel costume? (al Marchese)
Marchese.   Parlatele a drittura.
Riccardo. (Quasi di farlo ho in animo, sol per escir d’imbroglio).
(da sè)
Livia. (Pentomi a don Rinaldo aver inviato il foglio). (da sè)
Riccardo. (Ma non ho cuor di unire destra a destra furente). (da sè)
Marchese. (Se non lo fa, cospetto!) (da sè)
Livia.   (Ah, che d’amore è ardente!)
(da sè)
Riccardo. Piacciavi, donna Livia, andar per un momento.
Sarò da voi fra poco.
Livia.   (Ardere anch’io mi sento). (da sè)
Parto per obbedirvi. Alle mie stanze aspetto,
Ma l’aspettar soverchio fremer mi fa.
Marchese.   Cospetto!
Che bell’ardir sublime, che spirito è codesto!
Livia. (Non ho veduto un uomo più amabile di questo).
(da sè, indi parte)

SCENA VI.

Il Marchese Asdrubale e don Riccardo.

Marchese. Perchè lontan la giovane mandar dagli occhi miei?

Riccardo. Perchè vi bramo in prima parlar senza di lei.
Marchese. Ben, che volete dirmi?
Riccardo.   Dirò, prima di tutto,

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Che amor sì repentino non fa sperar buon frutto;

Che a me venuto siete per la minor germana,
E parmi or tal richiesta irregolare e strana.
Marchese. A voi non è ben noto il mio temperamento.
Son uno che, per solito, si accende in un momento.
Chi sa pigliarmi a un tratto, di me fa ciò che vuole;
Difficoltà m’irritano, mi seccan le parole.
Sarò di donna Livia, s’ella è di me contenta,
Concludansi le nozze innanzi ch’io mi penta.
Riccardo. Non mi credea rinchiudersi in cavalier sì degno
Un cuor di simil tempra, volubile a tal segno.
A voi basta un sol punto per divenir marito;
Non vo’ arrischiar domani di vedervi pentito.
Questa maggior nipote m’inquieta, io lo confesso;
Ma a lei niente di meno serbo l’amore istesso.
All’imprudenza indocile, che forma il suo periglio,
Opponere mi giova la forza ed il consiglio.
Marchese. Oh cospetto, cospetto!
Riccardo.   Escir da questo tetto
Favorite per ora.
Marchese.   Dev’esser mia, al cospetto.
Riccardo. Ella è strana, signore.
Marchese.   Lo sono al par di lei.
Riccardo. I grilli suoi son perfidi.
Marchese.   Si cambieran coi miei.
Riccardo. Suol sdegnarsi per nulla.
Marchese.   Mi sdegno anch’io per poco.
Riccardo. Manderanno due mantici tutta la casa a foco.
Marchese. Tutti i consigli vostri al desir mio son vani.
Cospetto! ho già risolto.
Riccardo.   Ne parlerem domani.
Marchese. No, che il doman s’aspetti, male da voi si spera.
Riccardo. (Mi vo’ sottrar, se posso) ne parlerem stassera.
Marchese. Bene, fino alla sera sarò a soffrir costretto;
Perchè mi sento in seno... non lo so dir... Cospetto! (parte)

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SCENA VII.

Don Riccardo solo.

Da molti anni al Marchese amico esser mi vanto;

Strano il conobbi, è vero, ma nol credea poi tanto.
Era per donna Rosa tristo compagno, il veggio;
Ma unito a donna Livia, che lo somiglia, è peggio.
Donna potrebbe umile fargli cambiar talento;
Fa stragi, allor che soffia da doppio lato il vento.
Quello che a donna Livia franco proporre aspiro,
Essere non si aspetti sposo no, ma ritiro,
Ove da strette mura, da leggi rigorose,
Saggie a forza diventano anche le capricciose, (parte)

SCENA VIII.

Donna Livia sola, poi il Servitore.

Livia. Affè, soverchiamente parmi nel quarto mio

Aver l’indiscretezza attesa dello zio.
S’egli da me non viene, giusta gl’impegni sui,
Strano non è ch’io venga a ricercar di lui.
Chi è di là? c’è nessuno? Chi sa che inavvertito,
Senza più ricordarsene, non sia di casa uscito.
Le stanze sue son chiuse. Non veggo i servitori.
Si chiama, e non rispondono. Eh là, vi è alcun di fuori?
Or ora entrar in frugnolo mi fa l’impazienza.
Possibil che non sentano? cos’è questa insolenza?
Non senti, o non sentire fingi tu, sciagurato?
Servitore. Perdoni, sulla sedia mi era un po’ addormentato.
(Pur troppo l’ho sentita, ma di venir non curo.) (da sè)
Livia. Dov’è il padrone?
Servitore.   È uscito.
Livia.   Che sia ver?
Servitore.   L’assicuro.
Livia. Fammi un piacer.
Servitore.   Comandi.

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Livia.   Dammi una sedia.

Servitore.   Presto.
(le porta la sedia)
Livia. Non mi lasciar qui sola. (sedendo)
Servitore.   Se lo comanda, io resto.
Livia. Dimmi, quel cavaliere poc’anzi a noi venuto
Lo conosci?
Servitore.   Il conosco: è il marchese Liuto.
Livia. È ricco?
Servitore.   Anzi ricchissimo.
Livia.   Accostati.
Servitore.   Son qui. (s’accosta)
Livia. Che disse a don Riccardo, quando da noi partì?
Servitore. L’intesi dir (conviene farla gioire un poco)
Ch’avea per donna Livia le viscere di foco.
Livia. Usi a prender tabacco?
Servitore.   Quando ne ho, signora.
Livia. Prendi una tabacchiera.
Servitore.   Davver? troppo mi onora.
Livia. Disse d’amarmi adunque.
Servitore.   Certo, e se il ciel destina...
Livia. Oibò, che odore è questo? tu appesti di cucina.
Allontanati un poco.
Servitore.   Perdoni. (si scosta)
Livia.   A dir s’intese,
Che alle mie nozze aspira il labbro del Marchese?
Servitore. Lo replicò più volte: peno, sospiro ed ardo
Per quei begli occhi amabili.
Livia.   Che dicea don Riccardo?
Servitore. Non vorrei.... (guardando d’intorno)
Livia.   Avvicinati.
Servitore.   Pavento incomodarla
Coll’odor di cucina.
Livia.   Avvicinati. Parla.
(col fazzoletto si copre il naso)

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Servitore. Disse il padrone allora.... (accostasi all’orecchio)

Livia.   Oibò, ti puzza il fiato.
Presto, presto tabacco.
Servitore.   Son pur male imbrogliato.
Ecco.
Livia.   La tabacchiera. Non mi toccar la mano.
Servitore. Si serva come vuole.
Livia.   Stammi pur da lontano.
(prendendo tabacco)
Servitore. Così, come diceva, sentii dir al padrone,
Che volentieri avrebbe.... (in tasca la ripone?)
Livia. Segui.
Servitore.   Se il ciel destina, se si compiace e vuole....
(patetico)
Signora, mi perdoni, perdute ho le parole.
Livia. Perchè?
Servitore.   Perchè mi aveva per grazia sua donato
Quella scatola, e poi...
Livia.   Briccone, or ti ho squadrato.
(s’alza)
Per la speranza ingorda di trarmi dalle mani
Qualche mercè, seguisti lo stile de’ mezzani.
Servitore. Obbligato, signora.... (in atto di partire)
Livia.   Vien qui. Dove vai tu?
Servitore. Che mi si rompa il collo, se ci ritorno più. (parte)

SCENA IX.

Donna Livia, poi Cecchino.

Livia. Il zio con il Marchese che mai disser fra loro?

Il ver non è possibile sapersi da costoro:
O scemano le cose, o aggiungono a talento.
Colui parlar faceva la scatola d’argento.
Ma i detti suoi dovevansi esaminare almeno.
Quando il furore assaltami, non so tenermi in freno.

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Basta; se nel Marchese fe’ colpo il mio sembiante....

Ritornerà, lo spero, a comparirmi innante.
E don Rinaldo (oh come del fatto or mi vergogno)
Vedrà, che donna Livia di lui non ha bisogno.
Cecchino. Eccomi di ritorno. Ho consegnato il foglio....
Livia. Taci: lo consegnasti? altro saper non voglio.
Cecchino. Attento ad ogni moto, a norma del comando,
Vidi che il Cavaliere....
Livia.   Di ciò non ti domando.
Cecchino. Ma nel legger la carta vidi che i lumi suoi....
Livia. O taci, o ti bastono.
Cecchino.   (Soliti grilli suoi). (da sè)
Livia. (Pur troppo, or lo conosco, il cuor debole fu;
Colla risposta inutile non vo’arrossir di più). (da sè)
Cecchino. Bastami siate certa, che ho fatto il mio dovere...
Livia. Gente è nell’anticamera. Chi sia, vanne a vedere.
Cecchino. (Credea farmi un gran merito nel dirle che l’amico
A sospirar ritorna, ma non le cale un fico). (da sè, e parte)

SCENA X.

Donna Livia, poi Cecchino che torna.

Livia. Siasi qual esser voglia il mio novello impegno,

Vuole che a don Rinaldo mantengasi lo sdegno.
E se dell’umil foglio vorrà riconvenirmi,
Dir potrò che formato l’ho sol per divertirmi.
Cecchino. Signora, un cavaliere che ha titol di marchese.
Brama di riverirvi.
Livia.   Asdrubale cortese
Ei sarà, mi figuro. Di’ ch’è padrone.
Cecchino.   Subito.
(va alla scena, accennando al Cavalier che entri)
Livia. Sollecito ritorna. Dell’amor suo non dubito.

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SCENA XI.

Il Marchese e detti.

Marchese. Eccomi a rivedervi, anche del zio a dispetto.

Livia. Lo zio non lo vorrebbe? che prosunzion! cospetto!
Marchese. Brava. Un po’ di riguardo m’avea fatto lasciare
In faccia di una donna l’usato intercalare.
Livia. Recagli da sedere. (a Cecchino)
Marchese.   No no, vo’ stare in pie.
Livia. Se piace a voi star ritto, per or non piace a me.
Marchese. Sedete.
Livia.   Sederò.
Marchese.   Sì, senza far parole.
In casa mia, signora, si fa quel che si vuole.
Livia. (Ci starei da regina.) (da sè)
Cecchino.   (Che cavalier garbato!
La padrona a suo dosso, affè, l’ha ritrovato.) (da sè)
Marchese. Per venir alle brevi, se il zio non ve l’ha detto.
Sappiate che per voi ho dell’amore in petto.
Livia. Posso crederlo poi?
Marchese.   Non mentono i miei pari.
Livia. Perchè non aggiungete gli usati intercalari?
Marchese. Oh, se vi dà piacere lo cospettar, senz’altro
Dirò cento cospetti, un più bello dell’altro.
Livia. Par che aggiungano forza al ragionar sincero.
Cecchino. (Che giovane garbata! che nobile pensiero!) (da sè)
Marchese. Della germana vostra, che stolida provai,
Voi siete più gentile, siete più bella assai.
E quel che più diletta, cospetto, il desir mio,
È che siete lunatica, come lo sono anch’io.
Livia. Questa espression per altro... (s’alza)
Marchese.   Dite pur; faccio il sordo.
Cecchino. (Ei siede, ed ella s’alza; oh, van bene d’accordo.) (da sè)
Livia. Questa espression, cospetto...
Marchese.   Sedete.

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Livia.   Non son stracca.

Marchese. Sedete, non sedete, non me n’importa un’acca.
Cecchino. (Propriamente innamorano.) (da sè)
Livia.   Io in piedi, e voi seduto?
Dite, signor Marchese, a che siete venuto?
Marchese. Per rilevar da voi se mi vorrete amare,
Senza che vi proviate a farmi cospettare.
Livia. Di rendervi contento non averci riguardo.
Ma ho qualche dipendenza. Che dice don Riccardo?
Marchese. Mi fe’ con una strana difficoltà ridicola
Strillar contro i pianeti e contro la canicola. (s’alza)
Livia. Qual obbietto vi oppose?
Marchese.   Udite, s’è una razza...
Dissemi: mia nipote? non la prendete, è pazza.
Lo so, risposi a lui....
Livia.   Lo so, gli rispondeste?
Marchese. Lo so, ma non importa.
Livia.   Che villanie son queste?
Così non si favella. Di perdermi il rispetto
Farò pentirvi, il giuro.
Marchese.   Basta così, cospetto!
Livia. Pretender le mie nozze, signor, non vi consiglio.
Che correre potreste di perdere il periglio.
Son donna intollerante più assai che non credete,
E se pazzia m’offuschi, or or lo proverete.
Marchese. Basta così, vi dico. Credea non fosse nata
Donna di me più strana, e alfin l’ho ritrovata.
Sovente amor mi stimola a procacciar mie doglie.
Ma presto il cor mi sgombra desio di prender moglie.
Stamane era infuriato per divenir marito.
Se fatto oggi l’avessi, doman sarei pentito.
Il lucido mi è reso da voi per mia fortuna.
Non vo’ più donne, il giuro. Cospetto della luna! (parte)

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SCENA XII.

Donna Livia e Cecchino.

Cecchino. (Se questi due si univano, dir francamente ardisco,

Che da sì bel consorzio nasceva il basilisco.) (da sè)
Livia. Cecchino.
Cecchino.   Mia signora. (Qualche novello imbroglio). (da sè)
Livia. Che disse don Rinaldo nel leggere il mio foglio?
Cecchino. Ma! se ascoltar non vuole...
Livia.   Vo’ che mi narri il tutto.
Cecchino. (Del cavalier bisbestico or si conosce il frutto.) (Ja sè)
Lo lesse attentamente.
Livia.   Quando gliel’hai recato,
L’accolse con piacere?
Cecchino.   Con piacer.
Livia. L’ha baciato?
Cecchino. Baciar non lo poteva, chiuso com’era ancora.
Livia. Quando finì di leggerlo, l’ha poi baciato allora?
Cecchino. Per dir la verità, non l’ho veduto.
Livia.   Ingrato!
Dimmi presto, che avvenne? l’ha il crudel lacerato?
Cecchino. Nemmen.
Livia.   Lo lesse tutto?
Cecchino.   Tutto.
Livia.   Più d’una volta?
Cecchino. Parmi due volte almeno; indi mi disse: ascolta.
Di’ alla tiranna mia....
Livia.   Alla tiranna! e intanto
Dagli occhi gli vedesti cader stilla di pianto?
Cecchino. Umido aveva il ciglio.
Livia.   Se lo sapea di certo,
Che piangere dovea sol che l’avesse aperto.
Che t’inculcò di dirmi?
Cecchino.   Dille, mi disse afflitto.
Che amore in queste note il mio destino ha scritto.

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Livia. Piangea nel dirlo?

Cecchino.   E come! Dille, che più sdegnato
Non mi averà il suo cuore, che scorgesi umiliato.
Livia. Umiliato il cuor mio? (sdegnosa)
Cecchino.   Così dicea, signora.
Livia. No, non sarò, qual crede, umiliata ancora.
Cecchino. Dille, soggiunse poi, che serbo a lei la fede,
E che mi avrà ben tosto la mia tiranna al piede.
Livia. Ecco, quel ch’io attendeva. La solita sua stima.
Verrà al mio piè prostrato. Perchè non dirlo in prima?
Sì, sì, m’apposi al vero, conosco il mio potere;
Le chiavi della vita ho in man del Cavaliere.
Più non mi fugge, il veggo. Ma se irrirarlo io torno?...
Venir disse al mio piede, pria che sparisca il giorno?
Cecchino. Chi sa ch’egli a quest’ora non siasi incamminato?
Livia. Ah, qual sarà il mio giubbilo, se veggolo prostrato!
Pentomi dell’insania, che al marchese Liuto
Mi feo sì ingiustamente offrir qualche tributo.
Fu la disperazione, che mossemi a gradirlo.
Misero don Rinaldo! ah, non dovea tradirlo.
Compenserò ben tanto il duol de’ miei disprezzi....
Ma coll’amante, o cuore, non profondiamo i vezzi.
Volare ad un estremo dall’altro non si faccia;
Dalla tempesta orribile non passi alla bonaccia.
Tempri un po’ di rigore il tenero desio.
Già son di lui sicura; già il di lui core è mio. (parte)

Fine dell’Atto Quarto.