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242 ATTO TERZO
Livia. È ver, lieto com’era unqua il mio cuor non fu.

(Provato ho don Rinaldo. Ei non mi fugge più), (da sè)
Rosa. (O non sa qual destino a lei sorte minaccia,
O prova il suo dispetto a simulare in faccia), (da sè)
Properzio. Ma che facciam qui in piedi?
Medoro.   Seggan le dame almeno.
Livia. (Venisse don Rinaldo a consolarmi appieno!
È ver che lo lasciai scontento, ma già sono
Certa, ch’ei dee tornare a chiedermi perdono). (da sè)
Properzio. Degnatevi. (a donna Rosa)
Medoro.   Sedete. (a donna Livia)
Livia.   Tutti seder possiamo.
Rosa. Eccomi.
Livia.   Che s’ha a fare? giocar?
Medoro.   No, mormoriamo.
Livia. Di chi?
Properzio.   Di tutto il mondo.
Rosa.   Par che ragion lo vieti.
Medoro. Facciam quel che si pratica; mormoriam dei poeti.
Livia. Sì, sì, ci ho proprio gusto. Oggi mi trovo in vena.
Parliam delle commedie vedute in sulla scena.
Rosa. Germana, compatitemi, tal uso non mi piace;
Perchè trattar gli autori con critica mordace?
Properzio. Se sempre si lodassero, si perderian gli autori:
La critica è quel pungolo che rendeli migliori.
Medoro. Allor che una commedia si sprezza a voce piena,
Allor si dà il poeta a lavorar di schiena.
Rosa. Se prevalesse al pubblico un simil sentimento.
Mai, per sperar di meglio, vedrebbesi contento.
Livia. Il pubblico per altro composto è di tal gente,
Che suol con vari capi pensar diversamente.
Alcuni sprezzan l’opere che ad altri paion belle;
Alcuni le sprezzate sollevano alle stelle;
Se vari i geni sono, anche il giudizio è vario;
E il mio della corrente va sempre all’incontrario.