Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/244

238 ATTO TERZO
Darla a voi piacerebbemi, egregio cavaliere;

Potrebbesi sperare che si cambiasse un dì,
Ma voi veder non posso ingiuriar così.
Amo l’onesto, il giusto; odio un ingrato eccesso;
Tinto di simil macchia abborrirei me stesso.
Qual parlerei, lo giuro, ad un nipote, a un figlio,
Tale a voi, don Rinaldo, propongo il mio consiglio.
Scordatevi l’ingrata, lasciate di seguirla,
E a me lasciate, amico, la cura di punirla.
Rinaldo. Per cagion mia, vi prego, non la punite.
Riccardo.   Ancora
Ad onta degl’insulti l’audace v’innamora?
Rinaldo. Sì, lo confesso.
Riccardo.   E siete, qual uom di sangue oscuro.
Insensibile ai torti?
Rinaldo.   Ah questo no, vel giuro.
Amo la donna ingrata; ma cavaliere io sono.
Consigliami l’onore lasciarla in abbandono.
Costimi ancor la vita, saprà ch’io son disciolto;
Più non mi avrà d’intorno, più non vedrolla in volto.
Ma se per mia sventura amarmi ella non puote,
Per me del zio lo sdegno non soffra una nipote.
A me più non si pensi da voi, da lei, dal mondo,
E il suo rossor non crescami delle mie pene il pondo.
Compatitemi. Addio.
Riccardo.   Dove sì mesto in viso?
Rinaldo. A rendermi per sempre dalla crudel diviso.
Riccardo. Come ciò far pensate?
Rinaldo.   Avrà con brevi detti
La libertà in un foglio del cuore e degli affetti.
L’avrà senza rimorso; potranno a lor talento
Quegli occhi traditori altrui render contento;
Ed io, che invidia sempre avrò dell’altrui sorte,
Attenderò il rimedio dal tempo, o dalla morte.
E voi, se a me congiunto il ciel non vuol che siate,