La donna di testa debole/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Strada.

Don Gismondo, poi Traccagnino.

Gismondo. Don Roberto colle sue caricature va sempre più impossessandosi del cuore di donna Violante. Convien rovinarlo; convien discreditarlo. Se mi riesce far passare questi versi per suoi; se posso far che li abbia donna Violante, come da lui mandati...

Traccagnino. (Parlando verso la scena di dove esce) Corpo de mi; se no ti me la paghi, dime che no son fiol de me pader.

Gismondo. (Quest’è il servo di don Roberto). (da sè)

Traccagnino. A mi un’insolenza de sta sorte? dirme mezzan? Sangue de mi! mezzan a un omo della mia statura? [p. 162 modifica]

Gismondo. Con chi l’hai, Traccagnino?

Traccagnino. Sat a chi se ghe pol dir mezzan? a sto sior ch’è qua.

Gismondo. Come? che dici?

Traccagnino. Sior sì, a un omo che non è nè grando, nè piccolo, se ghe dise mezzan. (a don Gismondo)

Gismondo. (Ora intendo lo sciocco). (da sè) Per qual motivo colui vi ha detto mezzano?

Traccagnino. La guarda con che sugo! Domando a uno dove sta de casa una signora1, alla qual ho da portar sta lettera, e invece de insegnarme, el me dise mezzan. (verso la scena)

Gismondo. E a chi va quella lettera?

Traccagnino. Quest l’è quel che no so gnanca mi.

Gismondo. Chi la manda? Il vostro padrone?

Traccagnino. Sior sì; ma non è alter che quattro zorni che son vegnù a Napoli, no gh’ho pratica della città; domando, prego, e se me dise mezzan.

Gismondo. Volete ch’io v’insegni dove sta la persona cui è diretta la lettera?

Traccagnino. La me farà ben grazia.

Gismondo. Lasciate ch’io veda la lettera, e ve lo dirò.

Traccagnino. Ma la lettera gh’ho ordine de no la lassar véder a nissun.

Gismondo. E che sì che va ad una vedova?

Traccagnino. Me par de sì; l’è giusto scritta coll’inchiostro2 negro.

Gismondo. Sarà poi la signora donna Violante.

Traccagnino. Donna Violante?... Me par, e no me par: el nome no me l’arrecordo ben.

Gismondo. Vi ricordate il cognome?

Traccagnino. El cognome... Sior sì; me par de sì.

Gismondo. Come vi pare ch’ella si chiami?

Traccagnino. Me par che la pizzega del necessario.

Gismondo. Non è donna Violante de’ Bisognosi? [p. 163 modifica]

Traccagnino. Sior sì; vedeu se me l’arrecordo? Gh’è poca differenza tra el bisogno e la necessità.

Gismondo. Io so dove sta di casa.

Traccagnino. La me farà servizio a insegnarmelo.

Gismondo. Ma se ve lo dico a voce, ve lo scorderete. Volete ch’io ve lo scriva?

Traccagnino. La me farà servizio.

Gismondo. ( Tira fuori l’astucchio con il tocca lapis.)

Traccagnino. Oh che bella cosa! (osservando l’astucchio)

Gismondo. Mi dispiace ch’io non ho carta.

Traccagnino. Senza carta no se scrive.

Gismondo. Non avete la lettera che va a donna Violante?

Traccagnino. Seguro che la gh’ho.

Gismondo. Oh sciocco che sono io! avete quella lettera. Vi posso scriver sopra comodamente il recapito, e vado cercando carta.

Traccagnino. Andè là, che sì un gran mamalucco.

Gismondo. Compatitemi, caro Traccagnino. Datemi la lettera, e vi spiccio subito.

Traccagnino. Eccola qua. Ma no l’ave da véder.

Gismondo. Come volete ch’io scriva?

Traccagnino. Scrivè da roverso.

Gismondo. Bene, scriverò dove volete.

Traccagnino. Scrivè chiaro, destaccà, che possa capir.

Gismondo. Questo astucchio m’incomoda. Tenete, frattanto ch’io scrivo. (dà l’astucchio a Traccagnino)

Traccagnino. Sior sì, intanto me divertirò co ste bagattelle.

Gismondo. (Col cambio di questa lettera fo il più bel colpo del mondo). (frattanto che Traccagnino osserva i pezzi che sono nell'astucchio, don Gismondo cambia la lettera.)

Traccagnino. Cossa èla questa? una verigola3?

Gismondo. Si chiama dal francese: tirabusson.

Traccagnino. Oh che caro tirabusson! [p. 164 modifica]

Gismondo. Ecco fatto. Ecco il recapito chiaro e netto.

Traccagnino. Me fala un altro servizio? me dónela sto tirabusson?

Gismondo. Che cosa vorreste farne?

Traccagnino. Vorria cavar un occhio a quello che m’ha dito mezzan.

Gismondo. No, caro; questo serve per me. Tenete la lettera. Portatela dove va. Vedrete che il ricapito è in piazza dell’erbe. Non potete fallar, se volete. (Costui non mi conosce. Il carattere non è mio; io non sarò sospetto, e don Roberto passerà per autore di quella satira). (da sè, e parte)

SCENA II.

Traccagnino, poi Brighella.

Traccagnino. L’è mèi che vaga subito a portar sta lettera. El dis che la va in piazza delle erbe. Dov’èla mo la piazza delle erbe? La sarà in un qualche prà fora delle porte. Vardemo sel dis cussì. (vuol leggere) Oh bella! le parole rosse? Parole rosse a una vedua? Oh, sta lettera no ghe la porto più... Ma se no ghe la porto, cossa el dirà el patron? e se ghe la porto co sto rossetto, la vedua cossa dirala? Se le podesse spegazzar. (si prova) Tolè, adesso mo la carta l’è più rossa che mai. E meio che sto tocco de carta lo tira via. (strappa di dietro la lettera) Cussì va ben. Anderò a portarla... ma adesso mo no m’arrecordo dove che abbia da andar. No so se disesse in piazza del prà, o in tel prà dell’erba. Sia maledetto! Oh paesan, giusto ti.

Brighella. Coss’è, amigo? cossa gh’è de novo?

Traccagnino. Sat dove che staga quella signora che cerco?

Brighella. Se no so chi ti cerchi, no te posso dir dove che la sta.

Traccagnino. El prà dell’erba sat dove che el sia?

Brighella. Dei pradi con dell’erba ghe n’è de quei pochi.

Traccagnino. Ma la piazza del prà dov’èla?

Brighella. Ti vorrà dir la piazza delle erbe. [p. 165 modifica]

Traccagnino. Giusto quella. Sat dove che la staga de casa?

Brighella. La piazza delle erbe l’è in fondo de quella strada a man dretta.

Traccagnino. Te ringrazio, paesan.

Brighella. Avì qualche interesse da quelle bande?

Traccagnino. Gnente; un piccolo interessetto.

Brighella. Qualche letterina?

Traccagnino. Gran bergamaschi! Omeni suttili, speculativi.

Brighella. L’ho indovinada donca.

Traccagnino. Sigura.

Brighella. Anca sì, che so a chi la va sta lettera?

Traccagnino. Via mo?

Brighella. A una certa signora donna Violante Bisognosi.

Traccagnino. Va là, che ti ha tolto in tante pillole la digestion de Rosazio.

Brighella. Se pol véder sta lettera?

Traccagnino. Oibò.

Brighella. Gnanca al to paesan?

Traccagnino. Gnanca a me pader.

Brighella. Gnanca per servizio?

Traccagnino. Gnanca per carità.

Brighella. Pazenzia.

Traccagnino. Paesan, te saludo. (in atto di partire)

Brighella. Va là, va là; va a far el mezzan.

Traccagnino. Oh corpo del diavolo! a mi mezzan? Fin che me lo diga un napolitan, pazenzia; ma che me lo diga un bergamasco, no la posso inghiottir. Varda se son mezzan. (vuol misurarsi con lui)

Brighella. Sta in drio.

Traccagnino. Varda se son mezzan; varda dove te arrivo. Ti ti è un omo mezzan. E fra i Traccagnini de tutte le vallade de Bergamo, son traccagnotolo4, e no son mezzan. (parte) [p. 166 modifica]

SCENA III.

Brighella, poi don Fausto.

Brighella. Oh bella! costù ha credudo che a dirghe mezzan avesse in considerazion la statura, e no l’offizio de portar le lettere. Za me ne son accorto, che l’aveva qualche lettera de sior don Roberto per donna Violante. Se giera qua el me padron, voleva certo ch’el fasse de tutto de vederla, e de saver... Eccolo: el me par stralunà.

Fausto. (Donna Violante vuol essere oggetto delle altrui derisioni). (da sè)

Brighella. Cossa averia pagà, sior padron, che la fusse stada qua za un momento!

Fausto. Pagherei anch’io non aver saputo quello che mi è stato fatto sapere.

Brighella. Qualche novità, signor?

Fausto. Donna Violante dà nella debolezza di un saccentismo ridicolo; e don Roberto si burla villanamente di lei.

Brighella. Sior don Roberto poco fa ha mandà una lettera alla signora donna Violante per el so servitor.

Fausto. Don Roberto aspira al di lei possesso, e ciò non ostante ha l’imprudenza di farne giuoco.

Brighella. E vossignoria la lassa far, e no la se risente?

Fausto. Mi risento anche troppo, ma ho la sfortuna che a donna Violante le mie parole dispiacciono.

Brighella. Le ghe despiase, signor, perchè, la me perdona, la ghe contradise a tutto con un poco troppo de austerità.

Fausto. Guai a coloro che per fare la corte ad una donna di testa debole, non si fanno scrupolo a secondarla. Essi sono colpevoli delle sue leggerezze; e le funeste impressioni che le si formano dagli adulatori nella mente e nel cuore, non si cancellano sì facilmente.

Brighella. Non so cossa dir; vossignoria parla da quel signor savio e prudente che l’è. Mi se ardisso de suggerir qualche volta, lo fazzo per el desiderio che ho de vederlo contento. [p. 167 modifica] So che el ghe vol ben, so che l’è una vedua che pol esser ricca, se la vence la causa, come se spera che l’abbia da guadagnar. Vedo che per rason de condotta vossignoria la desgusterà, e per questo el zelo, l’amor, la servitù, la mia età medesima, e sora tutto la bontà che l’ha sempre avudo de tollerarme, me sforza a pensar, me anima a dir, e me trasporta a desiderar.

Fausto. Io non cesserò mai di far conto dell’amor tuo, del tuo zelo, della tua fedeltà. Voglio però instruirti in una massima, che mostri presentemente o di non perfettamente intendere, o di non credere necessaria. Due sono le strade che possono condur l’uomo al possedimento d’un bene. L’una è la via retta e giusta, per la quale vi si giunge forse più tardi; l’altra è la tortuosa e falsa, per cui pensan gli uomini d’arrivarvi più presto. Ma che succede dappoi? Lo perdono colla stessa sollecitudine con cui hanno studiato di conseguirlo. La verità presto o tardi ha da avere il suo luogo, ha da conoscersi, ha da trionfare; e sono tanto più grati della verità i trionfi, quanto sono più certi, più durevoli, e più dal merito sostenuti.

SCENA IV.

Un Servitore di donna Aurelia, e detti.

Servitore. Signore, appunto io aveva ordine dalla mia padrona di ricercare di lei.

Fausto. Cosa comanda donna Aurelia da me?

Servitore. Ha necessità di dirgli una cosa, e lo prega pigliarsi l’incomodo di andar da lei.

Fausto. Ditele che fra un’ora al più sarò ad obbedirla.

Servitore. La supplico di non mancare.

Fausto. Preme anche a voi ch’io vada? Si tratta di qualche vostro interesse?

Servitore. Signore, la mi perdoni, non è la mia premura senza ragione. Quando la padrona aspetta qualche visita di quelle, come sarebbe a dire... non so se la mi capisca! è [p. 168 modifica] impaziente, tutto le dà fastidio, l’aspettare la inquieta, e la si sfoga colla povera servitù. La prego dunque. Le bacio le mani. (parte)

Brighella. Gran galeotto che l’è colù! L’ha volsù dir gentilmente che donna Aurelia aspetta vossignoria, et cetera.

Fausto. Mi è noto ciò che vuol da me donna Aurelia.

Brighella. Sta lettera che ha scritto sior don Roberto a siora donna Violante, cossa vorala dir?

Fausto. Di questa vorrei chiarirmene, s’io potessi. Tu mi parli di lettera, don Gismondo mi parlò di satira; qualunque sia quella carta, procurerò di saperlo. Vado per questo solo motivo da donna Violante, prima di passare da donna Aurelia.

Brighella. Comandela che la serva?

Fausto. No, non mi occorre. Portati più tosto alla casa di donna Aurelia, e perchè non s’inquieti, se qualche momento di più tardassi, falle sapere che sarò da lei, dopo aver riverita donna Violante.

Brighella. Mo no ghe dirò miga cussì, la me perdona.

Fausto. No? perchè?

Brighella. Dir a una donna vegnirò da vu, quando sarò sta da quell’altra, l’è un complimento da farse romper el muso.

Fausto. Di’ quel che vuoi: io non so nascondere la verità. Chi mi vuole, mi prenda; chi non mi vuole, mi lasci. Amo chi mi ama; venero tutto il mondo; ma non ho soggezione di disgustar chi che sia, quando trattasi di dover dire la verità. (parte)

Brighella. Dis el proverbio, che la verità partorisce l’odio, e pur l’è una madre bellissima, che non merita una prole cussì cattiva. Ma l’odio veramente nol nasseria dalla verità, se sta povera infelice no fusse violada dall’interesse, che finze de sposarla per ruvinarla. Anca mi qualche volta, matto, strambo che son, me par una bella cossa sto maledetto interesse; ma el mio patron pensa giusto, e le so massime le fa in mi quel effetto, che fa el fogo sull’oro. Par che le me infiamma un pochetto per la vergogna; ma le destruze in tel mio cuor onorato ogn’ombra de falsità, ogni macchia de interesse, de artifizio, de simulazion. (parte) [p. 169 modifica]

SCENA V.

Camera di donna Aurelia.

Donna Aurelia ed il Servitore.

Aurelia. Ha detto dunque che verrà senz’altro?

Servitore. Sì signora, ha detto da qui a un’oretta.

Aurelia. E donna Elvira?

Servitore. La signora donna Elvira ha detto che verrà, quando sarà escito di casa il vecchio.

Aurelia. Già, sta in soggezione per forza. Se non fosse quel vecchio, si vederebbono da quella frasca delle belle pazzie.

Servitore. Sento battere: con licenza. (parte, poi torna)

Aurelia. Che bei caratteri sono queste due cognate! Donna Violante poi è deliziosissima.

Servitore. È la signora donna Elvira.

Aurelia. Capperi! è stata sollecita! Fa che passi.

Servitore. Subito. Guai se la facessi aspettare; voleva venire senza l’ambasciata. (parte)

SCENA VI.

Donna Elvira e detta.

Aurelia. Di grazia, non si faccia aspettare questa gran signora! Eccola. (La volontà di marito l’ha strascinata fin qui).

Elvira. Serva, donna Aurelia. (guarda d’intorno)

Aurelia. Che guardate, amica?

Elvira. Niente; son qui a ricevere i vostri comandi.

Aurelia. E che sì, che coll’occhio andate ricercando don Fausto?

Elvira. Mi fate ridere. Ha da esser qui don Fausto?

Aurelia. Sì, ci da essere. A momenti verrà. Sedete. (siedono)

Elvira. Sono obbligata al vostro buon cuore; ma ho timore che noi gettiamo la fatica ed il tempo.

Aurelia. Cara amica, ci conosciamo; e poi diffidate che due delle mie parole non abbiano a persuadere don Fausto? [p. 170 modifica]

Elvira. In verità, voi mi consolate. Lo farete di buon cuore?

Aurelia. Se non vi amassi, non lo farei.

Elvira. Questa mattina, confesso il vero, ho dubitato dell’amor vostro; non mi sarei mai creduta che un’amica, come voi siete, ricusasse un bacio.

Aurelia. L’ho forse io ricusato?

Elvira. No; ma sputandovi sopra, il disprezzo è stato maggiore.

Aurelia. Vi ho pure detto il perchè.

Elvira. Avete paura che sulle mie labbra vi sia il carmino? Io non ne ho bisogno, per grazia del cielo.

Aurelia. Eh già, tutti i vostri colori sono naturali. (con ironia)

Elvira. Vorreste forse dire di no? Venite la mattina a vedermi levar dal letto.

Aurelia. E poi, un poco di tinturetta non istà male.

Elvira. Io no certo.

Aurelia. Oh!

Elvira. No, vi dico.

Aurelia. Eh!

Elvira. Venite qua, provate col fazzoletto.

Aurelia. Sì, proviamo. (tira fuori il fazzoletto, e va per toccarla, ed ella si ritira)

Elvira. Ma quando lo dico, dovete crederlo.

Aurelia. Presumete troppo a voler render la gente cieca.

SCENA VII.

Il Servitore e dette; poi donna Violante.

Servitore. Signora, è qui donna Violante, che desidera riverirla.

Aurelia. Padrona. (al servitore, alzandosi)

Elvira. Oh diamine! aspettate. (al servitore, alzandosi) Donna Aurelia, quest’incontro è pericoloso.

Aurelia. Potete passare in un’altra camera. Fa che venga donna Violante. (al servitore che parte)

Elvira. A voi mi raccomando. (parte)

Aurelia. Oh va, che sei bene raccomandata. Io non credeva in [p. 171 modifica] tal giorno avermi da moltiplicare il divertimento con tutte due le cognate.

Violante. Amica, compatite s’io vengo a recarvi incomodo.

Aurelia. Voi mi onorate.

Violante. Honor est honorantis, dice il latino. Ma lasciamo le cerimonie, e permettetemi ch’io vi dica...

Aurelia. Sedete, donna Violante.

Violante. Maxime.

Aurelia. Che dite?

Violante. Niente, niente. (Poverina! non intende), (da sè, siede) Permettetemi che io vi dica: mia cognata dov’è?

Aurelia. A me lo chiedete?

Violante. Cara amica, non mi fate parlare.

Aurelia. Anzi, se siete amica, non dovete tacere.

Violante. Ho veduto il servitor di don Fausto sulla vostra porta; gli ho chiesto se vi era qui il suo padrone, ed ei rispose: lo aspetto.

Aurelia. Bene, e per questo?

Violante. E per questo in buona argomentazione posso conchiudere: ergo donna Aurelia ha messo l’accordo.

Aurelia. Donna Violante, voi mi fate ridere.

Violante. Non rido io, donna Aurelia; non rido, perchè son tocca.

Aurelia. Tocca? da che mai?

Violante. La verità non la so nascondere. Amo don Fausto, e chi cerca rapirmelo è mio nemico, e chi vi coopera non ridebit.

Aurelia. Io non rido di voi.

Violante. Voi non intendete il latino. Ho detto, chi vi coopera non riderà.

Aurelia. (Oh quanto mi dispiace, che a questa scena non vi sia nessuno). (da se)

Violante. Credono, perchè io mi sono data alle lettere, che non veda, non sappia e non conosca le loro insidie: ma assicuratevi, donna Aurelia, che benchè io abbia

" Pien di filosofia la lingua e il petto;

saprò anche, occorrendo,

" Rotar la spada e insanguinar le mani.

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SCENA VIII.

Servitore e dette; poi don Fausto.

Servitore. Signora, il signor don Fausto.

Violante. Lupus est in fabula.

Aurelia. Che cosa dite?

Violante. Non l’intendete niente niente il latino?

Aurelia. Niente affatto. Tutti non posson essere virtuosi come voi, cara donna Violante.

Violante. Sì, è vero, ma don Fausto aspetta.

Aurelia. Digli che passi, che è padrone. (servitore va via) Così bel bello, io vi farò la mezzana.

Violante. Se non volete ch’io resti...

Aurelia. Via, non si può scherzare?

Violante. Sì, per ischerzo tutto licet.

Fausto. (Qui donna Violante?) (da sè)

Aurelia. Avanti, signor don Fausto.

Violante. Avete forse soggezione di me?

Fausto. Signore, son vostro servo.

Violante. Voi non credevate trovarmi qui.

Fausto. No certamente, signora.

Violante. Bravissimo! almeno per farmi una buona grazia, potevate dire che siete venuto per me.

Fausto. Non voglio darmi quel merito che non ho. Son contento d’avervi qui ritrovata, ma non sapeva che voi ci foste.

Violante. Avete saputo che ci doveva essere mia cognata.

Fausto. Molto meno, signora.

Violante. Eh via, donna Aurelia ve lo averà fatto sapere.

Fausto. No certamente, vi dico.

Aurelia. Amica, voi mi offendete. Pare ch’io voglia tener mano a delle conferenze sospette.

Fausto. Avete voi ricevuta una lettera di don Roberto? (a donna Violante)

Violante. No, non l’ho ricevuta. Come sapete voi ch’io la dovessi ricevere? [p. 173 modifica]

Fausto. Il di lui servo ve la doveva recare.

Violante. So cosa deve essere. Egli mi fa la restituzione della copia del mio madrigale.

Fausto. Credo vi sia qualche cosa di più.

Violante. Che vuol dire?

Fausto. Una insolente satira contro di voi.

Violante. Contro di me una satira?

Fausto. Sì; vi divertirete.

Aurelia. (Quanto pagherei questa satira di vederla!) (da sè)

Violante. Voi come lo sapete?

Fausto. Lo so, perchè mi è stato narrato.

Violante. Una satira contro di me? Muoio di volontà di vederla. Chi l’ha fatta, s’aspetti una risposta che lo farà intisichire.

Fausto. No, donna Violante...

Aurelia. Eh sì, lasciate ch’ella risponda; vi va della sua riputazione.

Fausto. E voi, signora, la seducete?

Aurelia. Donna Violante non ha sì poco spirito per lasciarsi sedurre.

Violante. Io non sono un’ignorantella. So le mie convenienze; a chi mi ha scritto contro, voglio rendere pan per focaccia, come scrive il Boccaccio alla novella settantaotto.

Aurelia. Oh bravissima!

Fausto. Sempre più vi compiango.

Violante. Sempre più mi venite a noia. Donna Aurelia, vado via, perchè la bile mi ristringe l’esofago. Ma giuro al cielo, mi sfogherò. Don Fausto insolentissimo, nella satirica mia risposta vi saprò cacciare anche voi. (parte)

SCENA IX.

Donna Aurelia e don Fausto.

Fausto. Io mi darei al diavolo per queste sue maledettissime scioccherie.

Aurelia. Caro don Fausto, perchè volete irritarla? Non vedete che fate peggio? [p. 174 modifica]

Fausto. Il peggio lo fate voi, signora, adulandola crudelmente.

Aurelia. Io non l’adulo. Parlo come son persuasa.

Fausto. Non mi darete ad intendere, che siate voi persuasa di tai sciocchezze. Una donna di spirito non lo può essere.

Aurelia. Eppure, con tutto questo vostro acerbo costume, siete ancor fortunato.

Fausto. Non posso ancora della mia fortuna lodarmi.

Aurelia. Le donne vi corron dietro.

Fausto. Donna Violante non è qui venuta per me.

Aurelia. Vi è ben venuta la sua cognata.

Fausto. Venne qui da voi donna Elvira?

Aurelia. Venne e vi è tuttavia. Si è ritirata; ma fra poco la vedrete.

Fausto. Signora donna Aurelia, vi prego, fatemi questa grazia...

Aurelia. Volete che le parli per voi? Lo farò volentieri.

Fausto. No, ditele che a me non pensi, che impieghi meglio gli affetti suoi, ch’io non sono in grado d’amarla.

Aurelia. In fatti vi compatisco. Ella non ha qualità, che meritino da voi amore.

Fausto. Non intendo di sprezzarla; ma ho il cuor prevenuto.

Aurelia. Se fosse anche in libertà, son certa che non l’amereste.

Fausto. Perchè, signora?

Aurelia. Perchè, secondo me, non ha nè volto, nè grazia per innamorare nessuno.

Fausto. Voi non le siete amica, come credeva.

Aurelia. Credetemi, che non la posso soffrire.

Fausto. Perchè dunque riceverla in casa vostra?

Aurelia. La ricevo per civiltà, per convenienza.

SCENA X.

Donna Elvira e detti.

Elvira. È permesso? Si può venire?

Aurelia. Sì, amica, venite; siete appunto desiderata.

Fausto. (L’odia, e le dice amica). (da sè) [p. 175 modifica]

Elvira. Mi rallegro con voi, don Fausto.

Fausto. Di che, signora?

Elvira. Vi sarete pacificato con donna Violante.

Fausto. Io non ho guerra con lei. Ma la mia sfortuna è assai grande.

Elvira. Il vostro merito dovrebbe esser meglio ricompensato.

Aurelia. Voi, donna Elvira, sareste una cosettina a proposito per don Fausto. Il vostro viso, la vostra grazia...

Elvira. Non mi fate arrossire.

Fausto. (Si può sentire di peggio? Adulazion maledetta!) (da sè)

Aurelia. Che dite, don Fausto, chi non s’innamorerebbe in quegli occhi?

Fausto. (Non posso più sofferirla). (da sè)

Elvira. Don Fausto non si degna nemmeno di rimirarmi.

Aurelia. Don Fausto ha della stima per voi.

Fausto. (Mi sento rodere; non posso più). (da sè) Signore, vi riverisco divotamente.

Elvira. Fuggite da me, signore?

Aurelia. Fugge, perchè si sente accendere...

Fausto. Fuggo, perchè soffrir non posso che una fanciulla onesta e civile sugli occhi miei si schernisca, si derida, si aduli, (parte)

SCENA XI.

Donna Elvira e donna Aurelia.

Elvira. Cosa intende dire don Fausto?

Aurelia. Perchè vi lodo, dice ch’io vi adulo; convien ben dire ch’egli vi creda brutta.

Elvira. Temerario! a me un tal disprezzo?

Aurelia. Vendicatevi, donna Elvira.

Elvira. Sì, lo farò.

Aurelia. Ma presto.

Elvira. Indegno! Chi mi loda, mi adula? Me la pagherà. (parte)

Aurelia. Oh che scena deliziosissima! Ho acquistata materia per trattenere tre o quattr’ore la conversazione di questa sera. (parte) [p. 176 modifica]

SCENA XII.

Camera di donna Violante.

Argentina e Traccagnino.

Argentina. Potete lasciarla a me quella lettera, se v’incomoda l’aspettare.

Traccagnino. Signora no, no la posso lassar. Ghe l’ho da dar propriamente in man.

Argentina. Sa il cielo quando verrà.

Traccagnino. Per mi vorria che la stasse tre o quattro zorni a vegnir.

Argentina. E stareste qui ad aspettarla?

Traccagnino. Per veder, contemplar, ammirar la più bell’opera della madre natura.

Argentina. Vi è qualche cosa che vi dà nel genio?

Traccagnino. Siora sì. Era avvezzo alle bellezze de Bergamo: bellezze no ghe n’ho visto più. Le vedo adesso, e me sento da quei occhietti a bisegar in tel cuor. Che bella filosofia! che bel frontespizio! che guancie candide e traccagnote! È vero che ghe manca la bellezza del gosso, ma gh’è qualcossa che pol supplir.

Argentina. Il vostro nome?

Traccagnino. Traccagnin.

Argentina. Bellissimo nome!

Traccagnino. Ghe dalo in tel genio sto nome diminutivo?

Argentina. Sì, un nome adattato alla vostra corporatura.

Traccagnino. E pur un tocco de aseno m’ha dito che son un mezzan.

Argentina. Non avrà inteso dirlo perchè siete piccolo, ma per qualche altra ragione.

Traccagnino. Ma per cossa donca?

Argentina. Forse perchè vi averà veduto portar quella lettera. Mezzano vuol dire uno che porta lettere e fa imbasciate amorose.

Traccagnino. Ah, adesso lo capisso. Bravo! se lo trovo, vôi che [p. 177 modifica] femo pase, che bevemo un boccal de vin. Sì ben, porto lettere, fazzo ambassade: son un mezzan. Vardè quando che i dise, se precipita delle volte per no capir.

Argentina. Ecco la padrona.

Traccagnino. Me dispiase che la sia vegnuda. Principiava a chiapparghe gusto. Ma se vederemo.

SCENA XIII.

Donna Violante e detti.

Violante. Chi è costui?

Argentina. È uno, signora, che vi ha da dare una lettera.

Traccagnino. Eccola qua. Se la me vol dar la risposta, starò attendendola. (le dà la lettera)

Violante. Questa lettera è stata aperta. (a Traccagnino)

Traccagnino. Mi no crederave.

Violante. Qui vi manca un pezzo di carta. Chi l’ha strappata?

Traccagnino. Via, gh’è tanto mal per un pezzo de carta? Se la vol carta, ghe ne porterò un quinterno.

Violante. Tu l’hai stracciata?

Traccagnino. L’ho strazzada mi5. Ma son galantomo, e quel tocco de carta ghe lo pagherò.

Violante. (Costui è uno sciocco. Vediamo s’è vero che in questo foglio vi sia una satira). (legge piano)

Traccagnino. (L’è molto avara la vostra padrona), (ad Argentina)

Argentina. (Oibò, v’ingannate. Vedendo la lettera aperta, si è messa in qualche sospetto).

Traccagnino. (Eh gnente. L’ho rotta mi per causa del rosso...)

Violante. (Leggendo piano, esclama per la lettera, e Traccagnino crede che dica a lui) Indegno!

Traccagnino. Via, no l’è mo sto gran delitto! (a donna Violante)

Violante. A me un’ingiuria di questa sorta? (come sopra) [p. 178 modifica]

Traccagnino. Mi ho fatto per far ben. Ghe giera del rosso, e me pareva che no l’andasse ben.

Violante. Me la pagherai. (leggendo)

Traccagnino. Mo perchè, signora?

Violante. Sì, temerario, me la pagherai. (come sopra)

Traccagnino. Ghe domando perdon, signora. (s’inginocchia)

Violante. No, non vi è perdono; non vi ha da esser pietà.

Traccagnino. Ma la prego...

Violante. Alzati, servo indegno di uno scellerato padrone.

Traccagnino. Oh, poveretto mi! cossa gh’intra el patron?

Violante. Sì, di’ a don Roberto, che si accorgerà egli chi sono.

Traccagnino. Cara ela, al patron no la ghe diga gnente.

Violante. Vattene tosto di questa casa.

Traccagnino. Ma la me senta...

Violante. Vanne, o giuro al cielo, ti farò balzar dalle scale.

Traccagnino. Sia maledetto! se pol dar de pezo? Tanto strepito per un pezzo de carta! Bisogna che in sto paese la carta sia molto cara. (parte)

SCENA XIV.

Donna Violante ed Argentina.

Violante. Si può sentire di peggio? (osservando la carta)

Argentina. Ma perchè, signora, andar in collera in quella maniera? Finalmente non è una gran cosa.

Violante. Non è una gran cosa? Una satira di questa sorta non è una gran cosa?

Argentina. Una satira? Chi l’ha fatta?

Violante. Quel temerario di don Roberto.

Argentina. Ah indegno! Fa il cascamorto con voi, e poi vi manda le satire. Vedete, se il povero don Fausto dice sempre la verità?

Violante. Sì, lo conosco. Don Fausto mi ama; egli mi parla schietto, perchè ha dell’amore per me. Basta che si moderi nel perseguitare il genio che ho per le lettere, del resto poi [p. 179 modifica] conosco ch’egli è il più sincero de’ miei amici. Spiacemi averlo disgustato. Argentina, procura di ritrovarlo. Digli che mi preme comunicargli un affar d’importanza, che venga subito e che non manchi.

Argentina. Sì signora, anderò a cercarlo per tutto. Voglia il cielo che una volta diciate con lui davvero. (va per partire)

Violante. Senti.

Argentina. Signora?

Violante. Della satira non gli dir nulla per ora.

Argentina. Oh, signora no. (Questa ha da essere la prima cosa che io gli dico; e se trovo don Roberto, gli voglio dire le parolette turchine). (da sè, e parte)

SCENA XV.

Donna Violante, poi don Pirolino.

Violante. Se quella satira si diffonde per Napoli, io son la favola del paese. Vorrei risponderle, ma non vorrei far peggio.

Pirolino. Signora zia, che risposta mi date del mio negozio?

Violante. Siete venuto a tempo, nipote. Abbiamo delle novità.

Pirolino. Già me l’immagino. La signora donna Elvira non deve veder l’ora di stringere al seno il più bel fiore di Napoli.

Violante. Or non è tempo di favellare d’amori. Un affar più serioso ci chiama al consiglio, al rimedio, alla vendetta. Questa è una satira.

Pirolino. Contro chi?

Violante. Una satira contro di noi.

Pirolino. Contro di noi? Chi l’ha fatta?

Violante. Quel temerario di don Roberto.

Pirolino. Don Roberto ha avuta la tracotanza?

Violante. Sì, egli è il tracotante. Conviene che ne prendiamo vendetta.

Pirolino. Vendetta, vendetta.

Violante. Anche colla spada, se fa bisogno.

Pirolino. No, non farà bisogno. Ma la satira che cosa dice? [p. 180 modifica]

Violante. Uditela e inorridite. Già nessuno ci sente. (legge)

Una donna infatuata,

Un nipote sciagurato
Dan piacere alla brigata
Con un estro inusitato. (don Pirolino mostra di aggradire)

Pirolino. Via, via, non mi discontento.

Violante. Vi par poco?

Pirolino. Non vi è altro?

Violante. Sì, sentite il resto.

Pirolino. Sentiamo. (Gran donne! tutto ricevono in mala parte), (da sè)

Violante. Quella ha voglia di marito,

Quel di moglie ha l’appetito.
Troveran forse ambidue
L’un la capra di Giove, e l’altra il bue.

Pirolino. Buono, buono, non mi dispiace.

Violante. Come? non vi riscaldate a cotali ingiurie?

Pirolino. Vi è altro?

Violante. Non vi basta? Vi par questa una leggiera satira?

Pirolino. Satira?

Violante. Sì, una satira sanguinosa.

Pirolino. Questa è una lode, un panegirico, un complimento.

Violante. Voi mi vorreste acquietare, perchè la bile non mi facesse del male; ma non sono una sciocca. Intendo il senso delle parole.

Pirolino. Non intendete un’acca. Quello è un componimento allegorico.

Violante. Nipote, mi fate torto a parlar così.

Pirolino. Lasciate vedere a me. (prende la carta) Il senso è allegorico. Sentite. Una donna infatuata...

Violante. E bene: non vuol dir pazza?

Pirolino. Non è vero; vuol dire piena di fantasia: poetessa vera. Infatuata, cioè fatidica, corrispondente del fato. I vati fatidici, fanatici, infatuati, sono i veri poeti. [p. 181 modifica]

Violante. Se la cosa fosse così...

Pirolino. Io parlo coll’erudizione alla mano. Andiamo avanti. Un nipote sciagurato.

Violante. Non vuol dir disgraziato?

Pirolino. Sì, sfortunato. «Se la mia bella la mi martella, son sciagurato, son sfortunato». Ah, che dite?

Violante. Potrebbe darsi che volesse anche dire sventurato.

Pirolino. Sì, sono sfortunato in tutto. Se il maestro ha stabilito una mattina di voler dare un cavallo, il cavallo tocca a me certamente.

Violante. Cavalli a un giovine del vostro merito?

Pirolino. Vi dirò. Siccome negli anni passati io sapeva poco, il maestro ha preso l’uso di bastonarmi. Ora son virtuoso, non vi è che dire, e se il maestro mi dà i cavalli, non me li dà sul demerito presente, ma sul preterito.

Violante. E che don Roberto sappia tutte codeste cose?

Pirolino. Tutti le sanno. Sono più noto io per questi accidenti, che non era noto Alessandro Magno per le sue vittorie.

Violante. Andiamo innanzi.

Pirolino. Dan piacere alla brigata

Con un estro inusitato.

Violante. Qui vuol dire...

Pirolino. Vuol dire che i nostri versi spiritosi, brillanti, danno piacere a tutti. Con un estro inusitato! si può dir meglio? Si può dare una lode maggior di questa? Noi scriviamo in una maniera inusitata e nuova, colla quale non ha scritto nessuno: nè Dante, nè Petrarca, nè il Calepino.

Violante. È un poco oscuretta; ma voi la dilucidate assai bene.

Pirolino. Quella ha voglia di marito,

Quel di moglie ha l’appetito.


Qui non vi è nè la satira, nè l’allegoria.

Violante. Quel voglia di marito è un poco basso.

Pirolino. È stile bernesco.

Violante. Cosa vuol dire bernesco? [p. 182 modifica]

Pirolino. Ve lo spiegherò un’altra volta. Terminiamo la spiegazione.

Violante. Via, interpretate la chiusa.

Pirolino. Subito. A prima vista.

Troveran forse ambidue

L’un la capra di Giove, e l’altra il bue.

Il poeta parla di voi e di me. Io troverò la capra di Giove. Ho sentito nella Regia Parnassi che la capra Amaltea ha dato il latte a Giove, e mi hanno fatto un onore ch’io non merito, credendomi degno di tanta grazia d’essere fratello di latte dell’istesso Giove. Di voi istessamente, perchè hanno letta la Regia Parnassi, dicono che qual nuova Europa meritate che Giove in toro a trasformarsi ritorni per rapirvi, giovarvi, immortalarvi.

Violante. Io rimango stordita, come voi sappiate a memoria cotante cose. È poi vero d’Europa, della capra e del toro?

Pirolino. Ne avete dubbio? Sono istorie verissime. La Regia Parnassi è istoria vera, quanto i Reali di Francia. Conviene studiare, chi vuole intendere le allegorie.

Violante. Insegnatemi, per amor del cielo.

Pirolino. Ecco qui; se non ero io, don Roberto si rimproverava come satirico.

Violante. Ora lo ringrazierò per le sue finezze.

SCENA XVI.

Argentina e detti.

Argentina. Signora padrona, è qui il signor don Fausto, il signor don Roberto e il signor don Gismondo.

Violante. Vengano pure. Ho piacere che s’incontri don Fausto con don Roberto.

Argentina. Sono stata io, che li ha tirati qui con bel modo. Ditegli l’animo vostro a quell’ardito di don Roberto. Nega tutto con una faccia da mandatario.

Violante. Gli hai tu detto forse della satira? [p. 183 modifica]

Argentina. Sicuro che gliel’ho detto.

Violante. Ciarliera. Hai fatta la bella cosa!

Argentina. Io l’ho fatto per bene. (parte)

SCENA XVII.

Donna Violante, don Pirolino; poi don Fausto, don Roberto e don Gismondo.

Violante. Colei mi ha posta in un qualche impegno.

Pirolino. Con una buona interpretazione si accomoda tutto.

Roberto. Signora, di che potete voi lagnarvi di me?

Violante. Niente, don Roberto. Chi vi ha detto ch’io mi lagno di voi?

Roberto. Me l’ha detto la vostra serva.

Fausto. Per verità, don Roberto, gli uomini onesti non fanno satire, e molto meno ardiscono gli uomini savii di spedirle sfacciatamente alle persone che sono offese.

Roberto. Io non intendo di che parliate.

Violante. (Cosa meriterebbe ora don Fausto?) (a don Pirolino)

Pirolino. (Una di quelle finezze che mi suol fare il maestro). (a donna Violante)

Gismondo. Parla don Fausto di quella lettera che voi avete spedita a donna Violante.

Violante. Una lettera con i più bei versi del mondo. Due stanze allegoriche, ch’io non avrei certamente inteso, se don Pirolino non me le avesse spiegate.

Fausto. Signora donna Violante, sentendo che siete stata regalata con due versi, vi supplico comunicarmeli.

Violante. Voi non lo meritate.

Gismondo. Posso io essere onorato, signora?

Violante. Caro don Gismondo, senza la chiave voi forse non intendereste il senso di questi versi allegorici.

Roberto. E questa chiave chi l’ha?

Violante. Due sole persone: don Pirolino e voi. Don Pirolino, perchè ha studiato di molto; voi, come autore. [p. 184 modifica]

Roberto. Permettetemi dunque ch’io li legga.

Violante. Sì, teneteli pure; leggeteli a questi signori che bramano di sentirli; e dove non intendessero, fate voi l’interpretazione.

Roberto. Ben volentieri. (Ora mi chiarirò). (da sè)

Gismondo. (Sentirete). (a don Fausto)

Fausto. (Sono in un’estrema curiosità). (da sè)

Roberto. (Legge.)

Una donna infatuata,

Un nipote sciagurato. (si mette a ridere)

Fausto. Come! ridete ancora di tali ingiurie?

Violante. Spiegategli questi due versi. (a don Roberto)

Roberto. Signora, io non li saprei spiegare senza offendervi maggiormente. Vi giuro bene, che questi versi non sono miei.

Gismondo. Non glieli avete mandati voi?

Violante. Il vostro servo medesimo me li ha recati.

Roberto. Traccagnino? il mio bergamasco?

Violante. Sì, egli medesimo.

Roberto. Io rimango di sasso.

Fausto. Non occorre nascondersi dietro un dito. Voi avete offesa donna Violante, e dell’offese a lei fatte, a me ne dovete render conto.

Roberto. Come?

Fausto. Colla spada alla mano. (parte)

Pirolino. Servitor umilissimo di lor signori. (parte con timore)

Roberto. Io sono in un impegno senza sapere il perchè.

Gismondo. Vi par poco il principio di quella satira, figuratevi cosa sarà il resto.

Violante. Che satira! Date qui, don Roberto. Questa carta mi è cara, quanto una delle mie medesime produzioni di spirito. Non badate a don Fausto. Mi siete caro. Mi preme la vostra vita; conservatela per gloria delle Muse, per consolazione di Apollo, e per decoro di Partenope nostro.

Roberto. (Ride.)

Gismondo. Ridete? sì signore, di Partenope nostro. Non si può scrivere con maggior eleganza. La sirena Partenope che ha [p. 185 modifica] dato il nome a questa nostra città, era la metà donna e la metà pesce. Come donna, dovrebbe dirsi di Partenope nostra; come pesce, di Partenope nostro. Donna Violante parla con fondamento; ed io la difenderò colla penna e colla spada, se occorre. (parte)

Violante. Viva l’eruditissimo don Gismondo.

Roberto. (Costui conosce il debole e mi soverchia). (da sè)

Violante. Non può negarsi che don Gismondo non sia un uomo dotto, e non abbia per me della parzialità e della stima.

Roberto. Ma io, signora...

Violante. Ma voi, ricusando di palesarvi autore di questa composizione, mostrate di averla fatta per bizzarria e non con animo di piacermi.

Roberto. (Proviamoci dunque). (da sè) Signora, poichè vi piace così, dirò essere io l’autore di codesti versi; e se tai versi vi sono grati, m’ingegnerò di farne degli altri simili per compiacervi.

Violante. Questo sarà il maggior contrassegno del vostro amore.

Roberto. Posso sperare di essere ricompensato?

Violante. Sì, sarete arbitro di me stessa.

Roberto. (Sarebbe la bella cosa, ch’io mi guadagnassi una ricca dote a forza di scrivere delle impertinenze). (da sè)

Violante. Che dite fra voi medesimo? Vi viene qualche bell’estro?

Roberto. Non ho la mente così pronta come la vostra.

Violante. Io, per dirla, sono felicissima nell’improvviso. Sentite un bel pensiere che ora mi viene in mente, a proposito di Giove e di Europa.

Se Europa io son per mio fatal decoro,

Prego Giove che voi trasformi in toro.

Roberto. Obbligatissimo alle vostre grazie. (ridendo va via)

Violante. Sentite, sentite. I miei versi lo hanno colpito. Egli corre a scrivere la risposta. Si vede che all’improvviso non ha abilità di comporre. Però la sua penna è una penna d’oro. Fra don Roberto e don Gismondo non saprei chi scegliere, non saprei quale di questi due preferire. Uno è istorico, l’altro è poeta. Tutti e due sapientissimi. E don Fausto, che se volesse avrebbe [p. 186 modifica] merito più degli altri, si avvilisce per causa dell’ostinazione e dell’ignoranza. Non vedo l’ora che sia terminata questa mia lite, non vedo l’ora di vincerla. Voglio premiare colla mia dote il merito di chi studia. Vedrà don Fausto i frutti dell’ozio e gli effetti delle sue impertinenze.

Io gli dirò, s’egli d’avermi aspetta,

Barbaro, discortese, alla vendetta.



Fine dell’Atto Secondo.



Note

  1. L’ed. Pasquali ha qui, e dopo: siora.
  2. Pasquali: ingiostro.
  3. Succhiello: v. Boerio.
  4. Traccagnolo, persona piccola e grossa, ben tarchiata: v. Boerio, Dizion.
  5. Così Pasquali, Zatta ecc.; nell’ed. Pitteri si legge: L’ho stracciata io.