La donna di garbo/Atto III

Atto III

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Atto II Appendice

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Brighella, poi Ottavio.

Brighella. Mai più ghe credo. Sia maledette le so cabale1 e el so poco giudizio. Povero el mio filippoa, l’è pur andà malamente! Tolè, gnanca un numero no xe vegnìi fora de quei che ha messo quel matto del mio patron. Vardè qua: in tre firme un numero solo. Sia maledetto quando ho zogà: no voggio gnanca adosso ste firme; andè in malora, (getta le firme in terra) Ma velo qua: oh, co brutto ch’el xe!

Ottavio. Oh ignoranza! Oh ignoranza!

Brighella. Coss’è, sior patron? L’avemo fatta bella. [p. 482 modifica]

Ottavio. L’abbiamo fatta bella sicuro. Il terno vi era nella Cabala, ed io non l’ho saputo conoscere.

Brighella. Come ghe gierelo?2

Ottavio. Senti, senti, se v’era: oh maledetta fortuna! Ma che mi lagno della fortuna? Lagnar mi devo della mia ignoranza. Non è uscito il 16. il 363 ed il 38?

Brighella. Siguro.

Ottavio. Senti se la Cabala potea parlare più schietto. Unisci l’otto quattro volte, e poi dividi per metà tutto il prodotto. Quattro via otto trentadue: la metà del trentadue è il sedici, ed io non l’ho giuocato: oh asino! oh bestia! Ma senti peggio. Il quattro, il cinque e il sei ponigli sotto; io ho posto il 4 il 5 il 6 sotto il 16 e dovea porli sotto il 32; 32 e 4 fa 36; e 32 e 6 fa 38. Questo è il terno, o non è il terno?

Brighella. Siguro che l’è el terno. Ma perchè no zogarli sti numeri?

Ottavio. Perchè il diavolo mi ha acciecato. Aveva pochi denari. Ho avuto poco tempo da4 studiare: ma quest’altra volta m’impegno che otto giorni continui voglio applicare alla Cabala. Oh, benedetta Cabala! È un tesoro, è una cosa preziosa; ma io sono la bestia, io sono l’ignorante. St’altra volta, st’altra volta

Brighella. (St’altra volta nol me cucca). (da sè)

Ottavio. Ma senti un’altra fatalità. Anche Rosaura5 mi aveva dato il 16, e non l’ho conosciuto. Mi ha detto essersi sognata ch’era sopra un monte alto, alto, alto; io senza pensar altro, il monte alto l’ho interpretato il 90, e non ho guardato nella lista che sul 16 vi è un’Aurora, e che l’Aurora è alta quanto il sole. Questo maledetto 16 me l’ha dato anche mia moglie arrabbiata; ma non sono stato più in tempo di giuocarlo; non aveva denari. Ah, se mia moglie mi dava quei tre zecchini; chi sa? Forse avrei vinto. Le donne sono6 la rovina degli uomini.

Brighella. (L’è sempre più matto che mai). (da sè)

Ottavio. Che cosa vi è qui in terra? Oh, tre firme! Qualcheduno [p. 483 modifica] l’ha gettate per inutili. Voglio riporle e giuocarle quest’altra volta; chi sa che la fortuna non me l’abbia fatte ritrovar per qualcosa?

Brighella. (Anca le mie firme ghe comoda). (da sè)

Ottavio. Cento per il lotto, ed una per me. Se vi arrivo! Ma tanto studierò quella Cabala, che arriverovvi senz’altro, e poi Rosaura mi assisterà.

Brighella. Sior padron, no la va a trovar el sior Florindo so fradelo? Cossa vorla ch’el diga? Ieri sera appena el l’ha visto: la vaga in camera: la ghe fazza ciera: l’è un zovene che merita.

Ottavio. Ho altro in testa io che mio fratello; se avessi vinto al lotto, so quel che7 avrei fatto. Ora non ho voglia nemmeno di me stesso.

Brighella. La se sforza, la vada per convenienza.

Ottavio. Sarà ancora a letto.

Brighella. Anzi l’è levà, che è un pezzo. L’è in camera d’udienza, che l’aspetta le visite. La vaga almanco per dar gusto a so sior padre.

Ottavio. Sì, sì, ci anderò per questo. Ho bisogno, che mio padre mi dia aiuto, se ho da rifarmi nella ventura estrazione, (parte)

SCENA II.

Brighella, poi Arlecchino.

Brighella. Basta; ch’el se reffa quanto ch’el vuol, che per mi no ghe credo più. No digo de no ziogar, perchè el ziogar assae è da matti, e no ziogar gnente è da allocchi: ma cabale no ghe ne voggio più certo. Orsù, bisogna parecchiar el bisogno per st’Accademia. Oe, Arlecchin8, Arlecchin digo, dov’estu?

Arlecchino. Etu ti9 che me chiama?

Brighella. Sì, son mi.

Arlecchino. Ti è un bel aseno. [p. 484 modifica]

Brighella. Perchè son un asino?

Arlecchino. Perchè quando i galantomeni magna, no i se descomoda.

Brighella. A st’ora ti magni?

Arlecchino. Mi no so de ore. Me regolo col relojo dell’appetito.

Brighella. Orsù, bisogna dar una man10 portar i taolini, le careghe; far quel che bisogna.

Arlecchino. Mi, con to bona grazia, no vôi far gnente.

Brighella. Perchè no vustu far gnente?

Arlecchino. Perchè no ghe n’ho voja.

Brighella. Eh, te la farò vegnir mi la voja. Anemo, digo, presto a laorar.

Arlecchino. Brighella, abbi giudizio; no me perder el respetto.

Brighella. La perdona, zentilomo, un’altra volta farò el mio dover. Trui, va làb.

Arlecchino. A mi trui, va là? A mi? Sangue de mi. (mette mano al suo legno)

Brighella. Olà, olà, le man a casa, che te pesto co fa el baccalà11. (s’attaccano)

SCENA III.

Rosaura e detti.

Rosaura. Elà, elà, fermate.

Brighella. In grazia de Rosaura me fermo.

Arlecchino. Ti la poi ringraziar ela, da resto...

Rosaura. E non vi vergognate? Voi altri, che essendo servitori in una medesima casa, dovete amarvi come fratelli?

Brighella. L’è vero, disi ben. Ma colù nol gh’ha gnente de giudizio. Arlecchino. L’è lu che l’è un ignorante. [p. 485 modifica]

Rosaura. Via, siate tolleranti12, compatitevi l’un l’altro; tu, Brighella, che hai più giudizio, soffri la semplicità di costui. Andate a preparare i rinfreschi; indi portate qui in questa sala tutto ciò che ordinovvi il padrone.

Brighella. Come vaia col sior Florindo? Possio sperar gnente dal vostro amor? (piano a Rosaura)

Rosaura. Puoi sperar molto. Conservami la tua fede. (piano a Brighella)

Brighella. Oh magari! (Bondì, cara).

Rosaura. (Addio, Brighelluccio mio). (Brighella parte)

Arlecchino. T’ho aspettà tutta sta notte.

Rosaura. Per qual cagione?

Arlecchino. No ti te arecordi più della polvere d’oro, dei circoli, delle linee, e de quei quattro bocconi in t’una forzinada?

Rosaura. Ah sì, mi risovviene benissimo. La venuta di questi forestieri mi ha impedito venirti a ritrovare: un’altra volta.

Arlecchino. T’aspetto sta sera.

Rosaura. Senz’altro.

Arlecchino. El Ciel l’ha mandada per la consolazion delle mie budelle. (parte)

SCENA IV.

Rosaura, poi il Dottore.

Rosaura. Conviene che io mi conservi l’amor di costoro. Non so che cosa mi possa succedere; ma ecco il padrone, diasi l’ultima mano al lavoro. Non lo sposerei per tutto l’oro del mondo; ma devo fingere per tormento del mio crudele Florindo.

Dottore. Mi parve sentir Brighella ed Arlecchino gridar insieme. Non ho voluto venire, per non alterarmi; che c’è stato13? Ditemelo voi, la mia cara Rosaura.

Rosaura. Eh niente, niente, signore, una piccola contesa14; ma io l’ho accomodata. [p. 486 modifica]

Dottore. Gran cosa che sempre s’abbia a impazzire con la servitù!

Rosaura. Veramente dice Platone: Nihil servorum generi credendum: quot enim servi, tot hostes15. Voi peraltro non potete lamentarvi. Avete buona servitù: e poi, se fosse cattiva, la fareste esser buona col vostro buon tratto, osservando il precetto di Seneca: Sic cum inferiore vivas, ut tecum superiorem velis vivere. Per lo più il disordine delle case nasce parte dai servitori, e parte dai padroni, dicendo in tal proposito Strofilo, servo nell'Aulularia di Plauto:

» Male usano i padroni i servi loro;
» Male i servi ubbidiscono ai padroni;
» Così questi, nè quelli il dover fanno.

Io per me vi sarò sempre amorosa e fida, pronta sino a dare per voi la vita stessa, come fece la saggia e fedele Erminia per Sofonisba, nella tragedia del Trissino.

Dottore. Ah, non posso più contenermi. Sì, venite, la mia cara Rosaura; se prima vi ho data solamente qualche lusinga, adesso mi dichiaro e apertamente vi dico, che avete ad esser mia sposa.

Rosaura. Come, signore, una povera giovane?...

Dottore. Tant’è; non occorr’altro. Datemi la mano.

Rosaura. Voi mi sorprendete. La mano così clandestinamente, senza le debite solennità?

Dottore. Non intendo adesso sposarvi; intendo solamente impegnar con voi la mia fede.

Rosaura. Per verba de futuro?

Dottore. Appunto: vien gente, date qui. Fate presto.

Rosaura. Ecco la mano.

Dottore. Prometto di esser vostro marito.

Rosaura. Ed io prometto essere vostra moglie.

Dottore. Mi basta così. Addio, la mia sposina. Vado da mio figliuolo. Ricordatevi di venire ancor voi all’Accademia, e di far spiccare il vostro talento. [p. 487 modifica]

Rosaura. Verrò per ubbidirvi.

Dottore. Ora16 mi sembra di essere veramente felice17. (parte)

SCENA V.

Rosaura, poi Momolo.

Rosaura. Questa promessa già è invalida, avendo io impegnata anteriormente a Florindo la fede. Così mi giova per terminar il disegno. Compatirà il Dottore un inganno, che verun pregiudizio alfin non gli apporta.

Momolo. Siora Rosaura, patrona reverita.

Rosaura. Serva, signor Momoletto.

Momolo. Tutta sta notte m’ho insuniàc de vu.

Rosaura. Ed io ho dormito saporitissimamente.

Momolo. Ma! Co se gh’ha el cuor ferio, no se pol dormir.

Rosaura. Prendete questa lettera e date ristoro alle vostre ferite.

Momolo. De chi ela sta lettera?

Rosaura. Della signora Diana.

Momolo. Mo no saveu cossa che ho dito? No ve arecordè più?

Rosaura. Che cosa avete detto?

Momolo. Che ve voggio vu.

Rosaura. Eh via, caveved.

Momolo. Come! Me voltè le carte in mane?

Rosaura. Oh, vien gente. Siete venuto per trovar il signor Florindo?

Momolo. Sì, ma vorave... Cara fia, no me impiantè.

Rosaura. Andate, egli è in quella camera; andate che poi parleremo.

Momolo. Se me burlè, me ficco un cento e vintif in tel stomego. (va in camera) [p. 488 modifica]

Rosaura. Ficcatevi quel che volete, ch’io non ci penso. Ora vado a prepararmi per l’accademia; ma piuttosto per il più fiero e più pericoloso cimento. Temer dovrei, perchè dorma, di pormi a fronte de’ miei nemici; ma mi confido nell’assistenza de’ Numi. Non sempre è il saper che trionfa, ma il modo sovente di far valere il proprio talento. (parte)

SCENA VI.

Brighella fa accomodar il tavolino e le sedie dai servitori per l’accademia. Arlecchino credendo vi si mangi, s’asconde sotto il tavolino.

Florindo, Beatrice, Ottavio, Diana, Lelio, Isabella, Dottore, Momolo.

Lelio. Volete dunque felicitare le nostre orecchie coll’armonioso suono delle vostre metriche voci? (a Florindo)

Florindo. Per compiacer mio padre, darovvi il tedio di soffrire le mie debolezze, sperando esigere non solo un benigno compatimento; ma la grazia altresì di udire qualche cosa del vostro.

Lelio. Io mi prostrerò ad Apollo, pregandolo inaffiarmi coll’onda d’Aganippe, onde possa rivivere e ripullulare l’inaridita mia vena.

Momolo. Caro compare Florindo, xe tanto tempo che non se vedemo; no credeva mo miga che la prima volta che tornemo a vederse, s’avessimo da saludar in versi. Ammirerò il vostro spirito, e dirò anca mi quattro strambotti, se me dè licenza.

Dottore. Anzi ci farà grazia. Animo, ognuno al suo posto.

Florindo. Qui la signora cognata, e qui la signora sorella. (si pone fra le due donne)

Lelio. Madama, avrò l’onore di sostenere sopra gli umili miei ginocchi una parte di questo vostro macchinoso recinto. (siede presso Beatrice e si pone addosso il suo guardinfante)

Beatrice. Spero che il peso di questa macchina non vi stroppierà.

Lelio. (Com’è frizzante)! (da sè)

Momolo. Siora Diana, ela contenta che ghe staga arente?

Diana. È padrone. (Starei più volentieri presso quel forestiere). (da sè, osservando Isabella) [p. 489 modifica]

Momolo. (Molto sussiegata! che la sappia el negozio de Rosaura? No vorave mo gnanca). (da sè)

Dottore. Signor Flaminio, s’accomodi.

Isabella. Ubbidisco. (siede presso Lelio)

Dottore. Ed io starò qui presso di lei, e tu, Ottavio, cosa fai? Non siedi? (siede presso Isabella)

Ottavio. Or or mi accomodo anch’io: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e Brighella 9. Voglio giuocar il 9. (siede presso a Momolo)

Florindo. Signori miei...

Dottore. Aspetta un poco. Dov’è Rosaura? Brighella, fa ch’ella venga18.

Florindo. Come! in un’assemblea di gente civile19, volete ammettere una vil serva?

Dottore. Che vil serva? Ella è una donna di garbo, che merita il primo luogo.

Florindo. Io non l’accordo, e quando vogliate introdurla, con buona grazia di questi signori, io me ne vado.

Dottore. Tu farai una mala azione, e un’insolenza a tuo padre; me ne renderai conto20.

Florindo. Ma che dite, signori, non è cosa indecente ammettere qui fra noi una serva? Dite in grazia la vostra opinione.

Beatrice. Io dico che Rosaura è degna di una nobile conversazione21.

Diana. Io l’amo e la stimo come una mia sorella.

Lelio. Rosaura merita essere annoverata fra le nove Muse, fra le tre Grazie, e fra le Dee contendenti per l’aureo pomo.

Momolo. Mi no solo l’ammetterave con mi in t’una accademia; ma alla mia tola, e per tutto22.

Diana. (Bravo, signor Momolo!) (piano a Morrìolo)

Momolo. Scherzo poetico. (a Diaria)

Ottavio. Che freddure! Pensate a voi, signor fratello, Rosaura è una ragazza che merita. [p. 490 modifica]

Dottore. Lo senti? A tua confusione tutti l’approvano. Brighella, falla venire.

Brighella. La servo subito, sior patron; a mi no me tocca parlar, ma la creda che Rosaura l’è una donna de garbo. (parte)

Arlecchino. (uscendo di sotto al tavolino) Sior sì, l’è vera; lo confermo anca mi.

Dottore. Va via, cosa fai tu qui?

Arlecchino. (Vuol andar via: non trova luogo, essendo tutto chiuso dalle sedie, fa cader Lelio, e parte)23.

Florindo.(Come mai costei in si poco tempo s’acquistò l’amore, e la parzialità di ciascuno?) (da sè)

Isabella. (Quanto mi spiace che colei abbia a esser presente!) (da sè)

Florindo. Giacchè ognun si contenta, anch’io m’accheto. Venga pure. (Conviene dissimulare). (da sè)

SCENA VII.

Rosaura e detti.

Rosaura. Onorata da grazie non meritate, vengo piena di confusione e rossore. Siate certi, o signori, ch’io non saprò abusarmi della vostra generosa parzialità; e che conoscendo me stessa, non crederò mai di meritare ciò che da voi mi viene generoscimente concesso.

Dottore. Si può dir meglio?

Ottavio. Venite qui presso di me.

Rosaura. Volentieri. Con licenza di lor signori. (siede presso ad Ottavio)

Ottavio. Avete inteso? l’era il terno nella Cabala, e non l’ho saputo trovare. (piano a Rosaura)

Rosaura. (Un’altra volta). (ad Ottavio)

Ottavio. (Oh, si sa, e il 16 che voi mi avete dato?) (come sopra)

Rosaura. (Un numero l’ho sempre sicuro). (come sopra)

Ottavio. (Quest’altra volta). (come sopra) [p. 491 modifica]

Florindo. Signori miei stimatissimi, non credo già, che sia di vostra intenzione che il divertimento, che or ci prendiamo, abbia ad esser troppo serio24. Io, per dar principio, dirò un sonetto25.

Rosaura. Un sonetto non basta per decidere della virtù, e del merito di un uomo dotto. S’egli però si contenta, io gli darò campo26 di farsi onore.

Florindo. (Costei vuole imbarazzarmi). (da sè)

Dottore. Mio figlio è pronto a tutto. Dite pure, ch’egli a proposito risponderà.

Rosaura. Si contenta, signor Florindo, ch’io le proponga una tesi legale?

Florindo. Proponete pure. Ho sostenuti pubblici arringhi a Pavia, meglio sosterrò un sì lieve impegno in mia casa.

Rosaura. Attendete, (s’alza da sedere) Ed acciocchè la quistione sia ancora dalle signore donne intesa, mi varrò in qualche parte dell’italiano. Ecco il mio argomento. Colui che promette fede di sposo ad una figlia libera, è obbligato a sposarla: ita habetur ex loto tilulo de Nuptiis. Tizio ha promesso fede di sposo a Lucrezia, ergo Tizio deve sposar Lucrezia.

Florindo. (Intendo il mistero; ma conviene dissimularlo), (da sè) Colui che promette fede di sposo ad una figlia libera, è obbligato a sposarla: nego maiorem, sed Tizio ha promesso sposar Lucrezia; transeat minor; ergo Tizio deve sposar Lucrezia: nego consequentiam.

Rosaura. Probo majorem: nuptias non concubitus, sed consensus facit, lege nuptias, digestis de regulis iuris; sed sic est, che Tizio prestò l’assenso nel promettere a Lucrezia: ergo Tizio deve sposar Lucrezia.

Florindo. Nuptias non concubitus, sed consensus facit, distinguo maiorem; consensus solemnis et legalis, concedo; consensus verbalis, nego.

Rosaura. Contra distinctionem: sufficit nudus consensus ad [p. 492 modifica] constituenda sponsalia, lege quarta, digestis de sponsalibus; ergo Tizio deve sposar Lucrezia.

Florindo. Sufficit nudus consensus ad constituenda sponsalia, distinguo: ad constituenda sponsalia de futuro, concedo; ad constituenda sponsalia de prasenti, nego.

Rosaura. Contra distinctionem: Nihil interest sive in scripti, sive sine scriptura, modo de consensu viri ac fœminae constet, lege in sponsalibus, digestis de sponsalibus; ergo Tizio deve sposar Lucrezia.

Florindo. Nihil interest sive in scriptis, sive sine scriptura, modo de consensu viri et fceminæ constet, distinguo maiorem: ad constituenda sponsalia, concedo; ad formandum matrimonium, nego.

Rosaura. Ex concessis: La promissione verbale obbliga Tizio agli sponsali di Lucrezia: Sed sic est, che sponsa de præsenti dicitur uxor: ergo Lucretia dicitur uxor; ergo Tizio deve sposar Lucrezia.

Florindo. (Mi sono illaqueato). (da sè) La promissione verbale obbliga Tizio agli sponsali di Lucrezia, distinguo maiorem: agli sponsali de futuro, concedo; agli sponsali de præsenti, nego: sed sic est, che sponsa de præsenti dicitur uxor, concedo minorem; ergo Lucrezia dicitur uxor, nego consequentiam.

Rosaura. Contra distinctionem maioris probo consequentiam: la promissione verbale promiscua fra l’uomo, e la donna obbliga de præsenti; sed sic est, che fra Tizio e Lucrezia vi fu la promissione promiscua: ergo Tizio deve sposar Lucrezia.

Florindo. (Non so più che rispondere). (da sè) La promissione verbale promiscua obbliga de præsenti....

Dottore. (s’alza) Fermatevi, basta così; ho io compreso dove tende l’argomentazione di questa sapientissima ed accortissima donna. È vero: un uomo d’onore deve mantenere quel che ha promesso, e particolarmente in materia di matrimonio. Rosaura, v’ho inteso: la vostra tesi legale mi servirebbe di un rimprovero, se non avessi intenzione di mantenere quello che a voi ho promesso; anzi per maggiormente assicurarvi di una tal verità, [p. 493 modifica] in questo punto, alla presenza de’ miei figliuoli e di tutti questi signori, non più per verba de futuro, ma per verba de præsenti, son pronto a darvi la mano ed a sposarvi.

Florindo. (Stelle! che sento!) (da sè)

Lelio. Male si accoppieranno le vostre nevicanti canizie coll’igneo bollente sangue di una effervescente pulcella.

Dottore. Signore, in questo lasci pensare a me.

Rosaura. Confesso ch’io non merito l’onore che voi mi fate. Più indegna però me ne renderei, se avessi la viltà di ricusarlo. Disponete dunque di me e del mio cuore. Sono vostra, se mi volete. (Florindo si cangia di colore). (da sè)

Dottore. Signori, abbiano la bontà di servire per testimoni. Rosaura ora sarà mia moglie. Venite cara, datemi la vostra mano.

Rosaura. (Florindo smania). (da sè) Eccola.

Florindo. (s’alza) Signor padre, fermatevi. Non sia mai vero, ch’io soffra l’esecuzione di un tal matrimonio.

Dottore. Come? Perchè? Spiegati; che obbietti puoi addurre per dissuadermi?

Florindo. Mille ne posso addurre. La vostra età, la sua condizione, il pregiudizio della vostra famiglia, il pericolo della vostra vita, le derisioni de’ vostri amici, la vostra estimazione e poi quello ch’io taccio, ma che pur troppo a Rosaura è palese.

Dottore. Di tutto quello che hai detto, non ne fo caso; mi rende ombra quel che tu taci; parla dunque e levami di27 ogni sospetto.

Florindo. Voi non potete, voi non dovete sposare Rosaura. Tanto vi basti; non posso dirvi di più.

Rosaura. Signore, vostro figlio offende l’onor mio; egli vuol farmi credere indegna di voi per colpa mia, il che non è vero; fatelo parlare, altrimenti alla presenza di tutti lo dichiaro per mentitore.

Florindo. (Che laberinto è mai questo! Se non vi fosse Isabella, parlerei con più di libertà), (da sè) Signore, licenziamo la conversazione; tra voi e me28 dirovvi ogni cosa.

Rosaura. Come! Mi meraviglio. In pubblico avete offesa la mia [p. 494 modifica] riputazione, in pubblico risarcir la dovete; o parlate,29 o lasciatemi sposar vostro padre, se vi dà l’animo, o impeditelo con fondamento.

Florindo. (Ah che farò? Accuserò la mia colpa? Lascierò correre un matrimonio così indegno? Da quai rimorsi agitato è il mio cuore!) (da sè)

Dottore. Via, parla. (a Florindo)

Rosaura. Lo vedete? È confuso. Non sa che dire; è un impostore30; mentisce...

Florindo. (Ah, questo è un soffrir troppo!) (da sè)

Dottore. Se sei pazzo, fa che ti sia levato sangue. Rosaura, datemi la mano.

Rosaura. Son pronta.

Florindo. Ah no, trattenetevi. Ve lo confermo: voi non potete sposare Rosaura.

Dottore. Ma perchè?

Florindo. Perchè io a Rosaura ho dato fede di sposo.

Dottore. (Una bagattella!) (da sè)

Isabella. (Ah traditore, che sento!) (da sè)

Florindo. Sarebbe una scelleraggine il mio tacere. Devo svelare a mio dispetto l’arcano. Amai Rosaura in Pavia, le giurai fede di sposo, fui corrisposto con tenerezze; sarebbe sacrilego un più31 lungo silenzio.

Dottore. (Questo è ben altro che la mia età e la mia famiglia). (da sè) E voi, Rosaura, avreste sì poca prudenza di sposar il padre del vostro amante?

Rosaura. Mal di me giudicate, se capace di ciò mi credete. Finsi per atterrir quell’ingrato, e riuscì il fine com’io lo aveva preveduto. Se avesse egli avuto cuor di tacere, avrei parlato ben io: poteva però l’audace farmi credere mentitrice; così di sua bocca l’error suo confessando, si fa debitore di quella fede che mi ha giurata, e che ha ingratamente tradita. [p. 495 modifica]

Dottore. Sì, che siete una donna di garbo, sempre più lo vedo, sempre più lo conosco. Florindo, tu dici bene, io non la devo, io non la posso sposare, dunque sposala tu.

Florindo. (E Isabella?)32 (da sè)

Dottore. Hai tu promesso? Mantieni la tua parola.

Florindo. Una donna fuggita da casa sua, andata da se per il mondo e che ha praticato sa il cielo con chi, volete ch’io la sposi?

Rosaura. Taci, lingua bugiarda. Sono una donna onorata33.

Dottore. Orsù, o sposala immediatamente, o vattene lungi da questa casa.

Florindo. Come! Così discacciate un vostro figlio?

Dottore. Chi opera in tal maniera non è mio figlio. Sei indegno dell’amor mio. Va, non ti vo’ più vedere, ne vo’ più sentire parlar di te.

Florindo. Ah! Ottavio, fratello, parlate voi per me.

Ottavio. Che volete ch’io dica? mio padre ha ragione; se avete fatto la pazzia di promettere, siate saggio almen nell’attendere.

Florindo. E voi soffrirete una donna in casa nostra di vil condizione?

Ottavio. Ella merita tutto; ha una sopraffina cognizione di lotto.

Florindo. Signora cognata, che dite voi della debolezza di vostro marito? (a Beatrice)

Beatrice. Stupisco della debolezza vostra. Rosaura merita la vostra mano, ed io non isdegno d’averla per cognata34.

Diana. Le donne ch’hanno un gran merito, onorano le famiglie35.

Lelio. La destra di Rosaura onorerebbe uno scettro36. [p. 496 modifica]

Momolo. Rosaura merita tutto37, e se a vu la ve incendeg, a tanti altri la ghe parerà un zuccaro38.

Rosaura. (Ecco il frutto d’avermi uniformato al carattere di tutti). (da sè)

Dottore. Ho piacere, che tu abbia sentita la comun opinione, acciò ti serva di maggior confusione: ora ti dico con più risolutezza, o sposala, o va via immediatamente di mia casa39.

Florindo. (Oh me infelice! Che mai farò? Sposarla è il meno. Ma Isabella?) (da sè)

Isabella. (Che risolve l’indegno?) (da sè)

Florindo. Signor Flaminio, che dite? (ad Isabella)

Isabella. Appunto attendeva, che per ultimo a me vi rivolgeste. Che volete ch’io dica? Altro dirvi non posso, se non che siete un mancatore, un infedele, un indegno.

Dottore. Che storia è questa?40

Ottavio. Ha promesso a qualche vostra sorella?

Isabella. A me ha giurata la fede, io non son Flaminio; Isabella son io degli Ardenti.

Diana. (È una donna? Ah fratello indiscreto!) (da sè)

Isabella. Mi allettò, mi sedusse quell’infedele. M’involò dalla casa paterna; promise esser mio sposo, ed ora lo scopro ad un’altra preventivamente impegnato.

Florindo. (Ora sto fresco!) (da sè)

Dottore. Che dici eh, disgraziato, briccone? E questo lo studio, che tu hai fatto a Pavia?

Florindo. Errai, lo confesso. Vi chieggo perdono; rimediate voi ai disordini dell’incauta mia gioventù.

Dottore. Ma che abbiamo da far di due donne? Tutte due non si possono sposar certamente. [p. 497 modifica]

Florindo. Con Isabella non ho altro debito, che quello di averle promesso la mia fede.

Dottore. Dunque la possiamo rimandare a Pavia.

Isabella. Morirò, piuttosto che tornare svergognata alla patria.

Dottore. Ma Florindo sposarvi non può.

Isabella. Ed io nè meno sposar lo vorrei. Dia pur la mano a Rosaura, cui prima diede la fede, e con cui ha maggior debito. Io andrò41 raminga pel mondo, bestemmiando l’orrido tradimento di quell’indegno.

Rosaura. Se Florindo non ricusa d’esser mio sposo, prenderò io la cura del destino della signora Isabella.

Florindo. Cara Rosaura, sciolto dall’impegno d’Isabella, nulla ho di contrario per isposarvi. L’avrei fatto anche prima; ma Isabella mi era un ostacolo troppo grande.

Rosaura. Vi compatisco. Ho conosciuto abbastanza il tumulto del vostro cuore. Signora Isabella, conviene adattarsi alle congiunture e di due mali scegliere il minore. Vedete che il signor Florindo non può esser vostro42; per risarcire il vostro decoro, non basterebbe che un altro giovine civile ed onorato vi facesse sua sposa?

Isabella. Basterebbemi certamente. Il punto sta che si trovi, chi in una tal circostanza per tale mi accetti.

Rosaura. Lasciate fare a me. Signor Lelio, degnatevi d’ascoltarmi.

Lelio. Comandate, sapientissima Arianna, le di cui mani hanno il filo per qualunque intricatissimo laberinto.

Rosaura. Voi, che avete tutto eroismo il cuore, siete ora disposto a fare un’eroica azione?

Lelio. Son pronto a dar gloria al mio nome.

Rosaura. Mirate là quella povera dama. Ella è stata involata dalla casa paterna; ella è onorata in sostanza, ma pregiudicata nell’apparenza. Ecco un eroismo degno di voi. Salvate l’onore di una illustre donzella, e sarete assai più glorioso di Aristomene, di Caloandro e di don Chisciotte. [p. 498 modifica]

Lelio. Oh Cielo! suggeriscimi il modo di segnalarmi.

Rosaura. Ecco il modo facile e bello; sposatela.

Lelio. Sposarla?

Rosaura. Sì, qual ripugnanza trovate? Ella è nobile, ella è bella ed onesta.

Florindo. Ed io vi garantisco una dote di sei mila scudi: tanto appunto a lei assegnò in testamento l'avolo suo paterno.

Lelio. (Si migliora il negozio). (da sè)

Beatrice. Su via, signor Lelio, date saggio della vostra cavalleria; soccorrete questa povera dama.

Ottavio. Seimila scudi sono un bel denaro, si possono43 fare dei bei giuochi e delle belle vincite.

Dottore. Animo, signor Lelio, dica di sì: si faranno le nozze in casa mia, ed io avrò l’onore di provvedere tutto l’occorrente per gli sponsali, e per vestire la sposa.

Lelio. Mi obbligate con tante e sì gentili maniere, ch’io sarei della più rustica progenie recalcitrando. Venite al mio seno, fortunatissima dama. Voi sarete la mia felicissima sposa.

Isabella. Veramente felice e fortunata, per un sì degno ed amabile sposo.

Lelio. Porgetemi l’alabastrina destra.

Isabella. Eccola, e con essa il mio cuore.

Lelio. Siete mia, sono vostro. Amico, non perdo di vista le vostre grazie. Parleremo poi delli seimila scudi. Ed a voi, signor Dottore, per il resto mi raccomando.

Dottore. (Un orbo, che ha trovato44 un ferro da cavallo), (da sè)

Ottavio. Se vorrete impiegare li seimila scudi, io vi darò il modo. (a Lelio)

Lelio. Obbligatissimo, non giuoco al lotto.

Isabella. (Può essere che col tempo mi piaccia, per ora ho riparato al mio decoro). (da sè)

Rosaura. Signor Florindo, tempo è che mi confermiate la vostra fede.

Florindo. Eccomi pronto. [p. 499 modifica]

Rosaura. Ma prima un’altra grazia vorrei dal signor Dottore, mio amorosissimo suocero.

Dottore. Comandate pure, la mia cara nuora.

Rosaura. Vorrei che vi contentaste, che si accompagnasse anche la signora Diana vostra figlia.

Dottore. Oh, pensate. S’ella è una stolida, chi volete voi che la prenda?

Rosaura. Ecco là il signor Momolo, egli è pronto a sposarla.

Dottore. Ed essa lo prenderebbe?

Rosaura. Anzi n’è innamorata morta.

Dottore. La innocentina!

Momolo. (è meggio tiorla, e destrigarse). (da sè) Sior Dottor, se la se contenta, mi ghe la domando.

Dottore. E tu che ne dici? (a Diana)

Diana. Se vi contentate, lo prenderò.

Dottore. Brava la semplicetta. Piglialo pure, piglialo.

Momolo. Deme la man.

Diana. Prendete la mano.

Momolo. (El ciel me la manda bona). (da sè)

Ottavio. (Da questi tre matrimoni voglio cavar un terno sicuro). (da sè)

Rosaura. Ora, signor Florindo, accetterò contenta la vostra mano.

Florindo. Prendete; ora scorgo più che mai, che siete45 una donna di garbo,

Rosaura. Tutti mi hanno detto finora donna di garbo, perchè ho saputo secondare le loro passioni, uniformandomi al loro carattere. Tale però non sono stata, mentre l’adulazione mi ha fatto usurpare un titolo non meritato. Per essere46 una donna di garbo avrei dovuto dire quello che ora dico. Alla signora Beatrice che le donne savie si contentano dell’onesto, e la vanità delle mode rovina le famiglie. Al signor Ottavio, che il lusingarsi troppo della fortuna è una pazzia, e le cabale sono imposture e falsità. Alla signora Diana, che la finzione è dannata, e che la donna d’onore deve essere sincera e leale. Al signor [p. 500 modifica] Lelio, che l’affettazione è ridicola, e che il cavaliere non dev’esser millantatore. Al signor Momolo, che lasci le ragazzate, attenda al sodo, e non faccia disonore alla47 patria. Al signor Dottore, che il buon avvocato deve amare la verità, e non ingannare i clienti48. Dirò altresì alla signora Isabella, che una moglie deve amare e rispettare il marito. Dirò al mio caro Florindo, che un marito deve amare e compatire la moglie. Dirò a tutti, che l’onore è più della vita pregievole, che il far bene ridonda in bene, e che chi ha per guida la verità e l’innocenza, non può perire. Tutto questo a voi dico; e se vi pare che il mio dire meriti approvazione o compatimento, ditemi allora che io sono una DONNA DI GARBO.

Fine della Commedia.



Note dell'autore
  1. Moneta dello Stato di Milano che vale dieci paoli all’incirca.
  2. Espressione di beffa, di disprezzo; voce con cui si eccitano i cavallacci a marciare.
  3. M’ho insunià, mi sono sognato.
  4. Caveve, frase bizzarra veneziana, che significa: non ci pensate.
  5. Me voltè le carte in man: mi mancate di parola.
  6. Un cento e vinti. Uno stilo di misura, che ha la marca di num. 120.
  7. Se vi sembra amara.
Note dell'editore
  1. Nell’ed. Zatta questo e manca.
  2. Bettin. aggiunge: l’ha pur zirà e rezirà le parole.
  3. Nelle edd. Bettin. e Paper, c’è il numero 37.
  4. Zatta: di.
  5. Bettin. aggiunge: che veramente è una donna di garbo.
  6. Bettin. e Passer.: sono sempre.
  7. Bettin.: so cosa.
  8. Bettin. e Paper.: Arlicchin.
  9. Etu ti: sei tu.
  10. Bettin. e Paper.: dopo man, due punti: e dopo careghe, punto fermo.
  11. Segue nelle edd. Bettin. e Paper.: «Arl. No te posso ne veder, ne sopportar, galiotto maledetto. Brigh. Eh, battocchio da forca, adesso mi. (S’attaccano in questo)».
  12. Bettin. e Paper.: Via, avete ragione tutti due. Siate tolleranti ecc.
  13. Bettin.: cos’è stato, ditemelo voi ecc.
  14. Bettin. e Paper, aggiungono: «eravi fra di loro».
  15. Bettin. e Paper, aggiungono: «e Xenofonte l’accorda, dicendo: Servi et domini nunquam amici.
  16. Bettin.: Sian grazie al Cielo, ora ecc.; Paper.: Si rendano grazie al Cielo, ora ecc.
  17. Leggi in Appendice la scena che qui segue nelle edd. Bettinelli e Paperini.
  18. Bettin. e Paper.: ch’ella pure qui venga.
  19. Bettin. e Paper. aggiungono: e dotta.
  20. Bettin. e Paper.: ed a suo tempo me ne renderai ecc.
  21. Bettin. e Paper.: d’una conversazione di Dame.
  22. Bettin.: ma alla mia tola e, se me fusse lecito, anca al mio letto; Paper, invece di letto ha talamo.
  23. Queste due righe si leggono nelle edd. Bettin. e Paper.: mancano nelle edd. Pasq. e Zatta.
  24. Bettin.: serioso.
  25. Vedi in Appendice quella parte che qui segue nell’edizione betrtinelliana.
  26. Bettin: un campo.
  27. Bettin.: da.
  28. Bettin.: da voi a me.
  29. Bettin. aggiunge: o disdicetevi; Paper.: o disditevi.
  30. Bettin. aggiunge: un mendace.
  31. Bettin. e Paper.: un mio più.
  32. Bettin. e Paper, aggiungono: Ma io non mi trovo in tale disposizione.
  33. Bettin. e Paper. aggiungono: «Tale sempre mi conoscesti, e se ricusi di risarcire l’onor mio, saprò spargere ancora il tuo sangue. Fior. Minacce a me? non le temo. No, non ti sposerò, se credessi morire. Dott. Sì che la sposerai. Fior. Non la sposerò».
  34. Segue nell’ediz. Bettin.: «Fior. La sdegnerà mia sorella, (verso Diana). Diana. V’ingannate. Le donne ecc.».
  35. Segue nell’ed. Bettin.: «Fior. Ah, signor Lelio, voi che intendete il vero punto di onore, dissuadete mio padre e tutti i miei affascinati parenti».
  36. Segue nelle edd. Bettin. e Paper.: «il di lei capo pregio recherebbe ad una corona»; poi nella sola ed. bettinelliana: «Fior. Caricatura degna del vostro spirito. Amico, dite voi con ischiettezza il vostro pensiero (a Momolo)».
  37. Ed. Bettin.: Mi digo che Rosaura merita ecc.
  38. Segue nell’ed. Bettin.: «Flor. Ah, vedo che tutti siete incantati; tutti siete contro me congiurati. Dunque dovrei soffrire una tal moglie? Chi troverassi che coglia servire una donna, che non merita comandare! Brigh. La me perdona, sior patron, mi son pronto a servir la siora Rosaura da staffier, da lachè e da sguataro, perchè la lo merita, perchè l’è una donna de garbo».
  39. Bettin.: da casa mia;
  40. Bettin.: Cos’è quest’istoria?
  41. Bettin.: Io per me andrò.
  42. Bettin. aggiunge: mentre voi stessa a me lo cedete.
  43. Bettin.: si ponno.
  44. Bettin. e Paper.: ritrovato.
  45. Bettin. e Paper.: Prendete, mentre anch’io scorgo che siete veramente ecc.
  46. Bettinelli e Paper.: Per essere in fatti.
  47. Bettin.: alla sua.
  48. Bettin. e Paper.: i poveri clienti.