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LA DONNA DI GARBO | 483 |
l’ha gettate per inutili. Voglio riporle e giuocarle quest’altra volta; chi sa che la fortuna non me l’abbia fatte ritrovar per qualcosa?
Brighella. (Anca le mie firme ghe comoda). (da sè)
Ottavio. Cento per il lotto, ed una per me. Se vi arrivo! Ma tanto studierò quella Cabala, che arriverovvi senz’altro, e poi Rosaura mi assisterà.
Brighella. Sior padron, no la va a trovar el sior Florindo so fradelo? Cossa vorla ch’el diga? Ieri sera appena el l’ha visto: la vaga in camera: la ghe fazza ciera: l’è un zovene che merita.
Ottavio. Ho altro in testa io che mio fratello; se avessi vinto al lotto, so quel che1 avrei fatto. Ora non ho voglia nemmeno di me stesso.
Brighella. La se sforza, la vada per convenienza.
Ottavio. Sarà ancora a letto.
Brighella. Anzi l’è levà, che è un pezzo. L’è in camera d’udienza, che l’aspetta le visite. La vaga almanco per dar gusto a so sior padre.
Ottavio. Sì, sì, ci anderò per questo. Ho bisogno, che mio padre mi dia aiuto, se ho da rifarmi nella ventura estrazione, (parte)
SCENA II.
Brighella, poi Arlecchino.
Brighella. Basta; ch’el se reffa quanto ch’el vuol, che per mi no ghe credo più. No digo de no ziogar, perchè el ziogar assae è da matti, e no ziogar gnente è da allocchi: ma cabale no ghe ne voggio più certo. Orsù, bisogna parecchiar el bisogno per st’Accademia. Oe, Arlecchin2, Arlecchin digo, dov’estu?
Arlecchino. Etu ti3 che me chiama?
Brighella. Sì, son mi.
Arlecchino. Ti è un bel aseno.