La donna di garbo/Appendice
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APPENDICE.
L'AUTORE
A CHI LEGGE.1
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Questa dunque, come io diceva a principio, è la prima Commedia della Edizione del Bettinelli, dalla quale, siccome delle altre tre, che formano il primo Tomo, non è vero che egli mi abbia dato un prezzo fisso di dugento e cinquanta ducati, com’egli va schiamazzando, ma il primo Tomo suddetto si è stampato a metà, e si è diviso l’utile di copie 1500 della prima Edizione, dopo la quale ciascheduno era padrone di sciogliersi, e di ristamparla. Ma egli l’ha ristampata sino alla quarta volta, ed io non ne ho avuto, dopo la prima, profitto alcuno. La ragione ch’egli mi addusse, per escludere una pretensione ch’io aveva di continuare nella società anche nelle ristampe, fu questa. Dopo la prima Edizione (diceva egli) la ristampa diviene una cosa comune a tutti, e ciascheduno può ristamparla a sua voglia; e non può l’Autore pretendere società collo Stampatore, che con il rischio di vedersi altrove l’Opera ristampata, per cagione sol tanto del suo mestiere, torna a rimetterla sotto il torchio. Io gli menai buona una tal ragione, e in fatti a Bologna, da lì a poco tempo, il primo Tomo si ristampò. Dunque, per detto del Bettinelli medesimo, un Editore ha da far bene li conti suoi sulla prima Edizione, dopo la quale tutto il Mondo può ristamparla. Ciò fa al proposito mio, per quello mi è stato riferito di lui, che altamente di me si lagna, per avere io in Firenze ristampate le dodici Commedie da lui ristampate in tre Tomi2. Se tutto il Mondo le potea ristampare, perchè non lo poteva fare ancor io? Se a Bologna e a Napoli si ristampavano, perchè non si potevano ristampare a Firenze? Se egli medesimo mi ha negato la società nella ristampa del primo Tomo, come ora pretenderebbe di ristamparli tutti egli solo in eterno? Era necessario, per ottenere l’intento suo, un privilegio non solo per tutte quelle Città, ove vi sono torchi per istampare, ma della macchia ancora, ove si stampa ad onta de’ privilegi. Non è poca sorte per lui averne fatte quattro Edizioni in tre anni, ed io non gli ho recato ne ingiuria, nè danno alcuno, se facendo un’Edizione completa delle mie cinquanta Commedie, ho compreso fra queste anche le quattro a metà stampate, e le altre otto delle quali gli ho ceduta sol tanto la mia metà della prima Edizione per ducati dugento, non mai a titolo di vendita, non esistendo fra lui e me contratto di sorta alcuna, ma di semplice convenzione verbale della natura suddetta.
Quest’unica imputazione non ho potuto dissimulare, delle tante che i miei nemici vanno contro di me falsamente spargendo; siccome quella che nell’animo di chi è all’oscuro de’ fatti, e non ha cognizione di tai materie, potrebbe fare qualche impressione a carico della mia onestà, che si vorrebbe a forza d’imposture e di calunnie perseguitare.
Di un’altra cosa deggio avvertire il Leggitore. Nella Donna di Garbo, Scena VII dell’Atto terzo, i Personaggi ragunati in conversazione dicevano alcune poetiche composizioni, che giudico cattive assai, perchè fatte senza pensarvi sopra, e unicamente perchè si dicessero da’ Recitanti, e non perchè si stampassero. Queste non sono in verun conto necessarie all’intreccio della Commedia, e in luogo di adornarla, le recano del pregiudizio. Sono state stampate in Venezia contro mia voglia, ed ora credo sia cosa utile levarle affatto.
PERSONAGGI3.
ROSAURA detta la Donna di Garbo, Cameriera in casa del Dottore.
IL DOTTORE AVVOCATO BOLOGNESE, Padre di
FLORINDO, che viene dalli studj di Pavia, e di
DIANA, finta semplice, e di
OTTAVIO giuocatore di lotto, marito di
BEATRICE, Donna vana e ambiziosa
BRIGHELLA | Servi del Dottore | |
ARLECCHINO |
LELIO Cavalier affettato vantatore.
Momolo, Veneziano studente in Bologna.
ISABELLA, che vien da Pavia con Florindo, vestita da uomo sotto nome di Flaminio.
Servidori in casa del Dottore, che non parlano.
La Scena rappresenta una stanza nobile in casa
del Dottore in Bologna.
ATTO PRIMO.
SCENA I4.
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Brighella. Mi no so cosa dir; sento che le vostre idee le tende al precipizio de sta casa. Doverave impedirlo; ma sarave el primo servitor, che no contribuisce alla rovina dei so patroni. Eh, ave rason. Sè offesa nell’onor, che xe la cosa più delicata, e el tesoro più prezioso d’una donna da ben. Per mi sarò sempre in vostra assistenza. Dispone de mi, come volè. Permetterne anca che ve diga che ve voggio ben, e che se no ve riuscisse de conseguir el sior Florindo, Brighella sarà tutto per vu.
Rosaura. Accetto con tal condizione l’offerta. Brighella ha un non so che, che mi piace. Ma viene la signora Diana, figlia del Sign. Dottore; è innamorata come una gatta. Con essa comincio la mia lezione; lasciatemi in libertà.
Brighella. Non occorre altro, se semo intesi. (Fortuna, ajuteme; questo l’è un colombin sotto banca).
SCENA II5.
Rosaura. Chi la vede, e non la conosce, pare una figlia tutta spirituale, e pure è impazzita per le cose corporali.
Diana. Ah, Rosaura; mi sento morire, ecc.
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Diana. Sei stata tu pure innamorata?
Rosaura. E in qual guisa! Ma sono stata ingratamente tradita. Oh maledette lusinghe! quando vi penso, mi crepa il cuore; non posso trattenere le lagrime.
Diana. Dunque la finzione non è solo propria del nostro sesso.
Rosaura. Pur troppo questi infedelissimi giovinotti sanno fingere al par di noi. Sono stata ingannata, egli è vero, ma vi giuro però che voglio fare le mie vendette.
Diana. Hai ben ragione. Ma come vuoi vendicarti?
Rosaura. Con tutta l’arte possibile ad una donna: voglio far innamorare di me quanti mi capitano alle mani, ma a solo fine di farne strage, e vendicarmi dell’onte ricevute da quell’indegno.
Diana. Ma per la colpa di un reo, vuoi punire tanti innocenti?
Rosaura. Sì, signora, udite come a mio proposito parla il Tasso.
Purchè il reo non si salvi il giusto pera,
E l’innocente: ma qual giusto io dico?
È colpevol ciascun, nè in loro schiera
Uom fu giammai del nostro nome amico.
Ma! ecco vostro padre; chinate gli occhi; unite le mani sopra del grembo; strignete la bocca, e lasciate ch’io parli.
SCENA VII6.
Beatrice. Tu sei una donna di garbo. Non mi allontanerò da’ tuoi consigli.
Rosaura. Circa poi al conversare, suppongo che saprete far bene la vostra parte. Tuttavolta devo avvisarvi che procuriate d’essere universale in sostanza, ma singolare nell’apparenza. Mi spiego: Guardatevi di concedere ad alcuno il possesso del vostro cuore, e lusingate ciascheduno di possederlo. Uniformatevi al carattere di tutte le persone, se volete occupare il loro arbitrio. Abbondate negl’inchini, nelle riverenze, nelle parole melate, nelle cortesie, nel buon tratto, e così vi acquisterete buon nome, onde rendendovi in tal maniera padrona de’ principali soggetti, ricorreranno a voi per intercessione di grazie. Credetemi, signora, se vi riesce d’incamminare questo civile ed onorato negozio, potrete andare alla moda senza rovinare la vostra casa.
Beatrice. Ho sentito picchiare all’uscio di sala ecc.
Rosaura. Eh, compatitemi. Le donne civili hanno a prendersi soggezione di tutti. Per esigere rispetto, non conviene dar confidenza. Vi sono molte signore di garbo, che danno soverchia confidenza a persone ordinarie; sapete poi cosa succede? L’uomo ordinario non si ricorda sempre dell’esser suo, perde il rispetto a madama, ed ella lo discaccia come un birbante. Ah, bell’onore! No no, signora; state pur in contegno. Andate ad abbigliarvi nell'altra camera, e fatevi aiutare dalla signora Diana vostra cognata, che io più tosto fra tanto lo trattenirò qui.
Beatrice. Sì, sì, Rosaura, tu dici bene. Vado a vestirmi, trattienlo, e quando sarò vestita, lo condurrai nella mia camera. Addio, cara. Tu sei veramente una donna di garbo. (parte)
SCENA VIII7.
Rosaura. Che bella cosa è questo uniformarsi ai temperamenti delle persone! Così tutti mi vogliono bene; così dicono tutti ch’io sono una donna di garbo. Gli uomini facilmente di me s’innamorano, ma io non lo posso vedere. Dappoi che quell'indegno di Florindo mi ha tradita, tutti gli uomini mi sono odiosi. Non veggo l’ora che giunga questo traditore. Oh, come vuol restare attonito, quando mi veda! L’incontro vuol esser molto grazioso. Non penserà mai di trovar Rosaura serva in casa di suo padre. Ma che fa questo signor Lelio, che non viene avanti? Chi è di là? v’è nessuno? ehi servitori.
Lelio. È permesso ad un riverentissimo servo della signora Beatrice ecc.
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ATTO SECONDO.
SCENA I8
Lelio. Deh madama, ponete al cimento l’affetto mio; ponete l’oro della mia servitù nella coppella de’ vostri cenni, e vedrete la purezza del mio metallo.
Beatrice. Oh signore, se vi ponessi nella coppella, temo che andereste in fumo.
Lelio. Siete pure vezzosa nelle lepidezze!
Beatrice. Signor Lelio, volete che ci divertiamo?
Lelio. Dipendo da’ vostri arbitrarj voleri.
Beatrice. Volete che giochiamo alle carte?
Lelio. Per compiacervi, giocherei fra le spade la stessa vita.
Beatrice. (Era meglio ch’ei dicesse fra i bastoni la propria schiena). Eh là, Rosaura.
SCENA II9.
Rosaura. Che comanda la mia Signora Padrona? oh con che bella compagnia la ritrovo! In vero non si può fare di più. Il Signor Lelio ha la beltà nel volto, la grazia negli occhi, l’affabilità nel tratto, (e la pazzia nel cervello). (piano a beatrice)
Beatrice. Brava, Rosaura, brava davvero.
Lelio. (Io sono confuso tra queste due incantatrici Sirene). (da sè)
Rosaura. Guardate, Signora, che bella tabacchiera mi è stata data da vendere. Pare proprio quella che voi avete perduta.
Beatrice. È vero; vi è poca differenza, quanto ne vogliono?
Lelio. (Sono venuto in una cattiva occasione). (da sè)
Rosaura. Ah sì, ora me ne ricordo. Ne vogliono sei zecchini.
Beatrice. Non è cara; ma io non mi sento di far questa spesa.
Lelio. (Oimè! come vi riuscirò? non ho un soldo). (da sè)
Rosaura. Mi dispiace che non la prendiate; è un’ottima spesa, che ne dice, signor Lelio?
Lelio. È bella; ma l’avete fatta vedere? può esser d’impuro metallo. Lasciatela a me, ch’io la farò da esperta mano fabrile espiare...
Rosaura. No, no, devo restituirla subito, (non vorrei che questo affamato me la mangiasse). (da sè)
Lelio. Se madama comanda, io non dissento. L’offerta non è degna del nume. Non ardisco, per altro...
Beatrice. (Quant’è godibile!) Rosaura, riportala; non mi piace.
Lelio. Oh l’ho detto io; non le piace. Per altro... basta... non mi dichiaro.
Rosaura. (Già lo sapevo. Signora, questa tabacchiera è mia: ho fatto per dar una prova a quel magrissimo Cicisbeo). (piano a Beatrice)
Beatrice. (Ho capito. Pensa s’io volevo che me la donasse; non sono di questa taglia). (piano a Rosaura)
Lelio. (I Numi tutelari del mio decoro mi hanno levato da un grande impegno. Ma che mai parlano fra di loro?) (da sè)
Rosaura. Sì, Signora, ella è così. Conosco l’animo generoso del signor Lelio. Egli avrebbe voluto che questa tabacchiera fosse stata di purissimo oro massiccio; lavorata dal più accreditato artefice di Londra; adornata di grossissimi diamanti e di risplendenti rubini, con entro una miniatura fatta per mano di uno scolaro d’Apelle, per fame a voi un regalo; non è così? (a Lelio)
Lelio. Oh saggia interprete del mio cuore! voi avete toccato il segno.
Rosaura. (Credo che durerebbe fatica a pagarvi una scatola di tartaruga selvatica). (piano a Beatrice)
Beatrice. (Costei mi fa crepar dalle risa). Orsù via, preparaci da giocare.
ATTO TERZO.
SCENA V10.
Rosaura. Questa promissione già è invalida, avendo io impegnata anteriormente a Florindo la fede. Così mi giova per terminar il disegno. Compatirà il Dottore un inganno, che verun pregiudizio alfin non gli apporta.
Lelio. Oh me tre volte e quattro volte felice per un sì bello, inaspettato, invidiabile incontro!
Rosaura. Oh me sei e settecento volte beata, per uno sì ameno, giocondo, e impensatissimo incontro!
Lelio. Stamane siete ilare come il sol nel meriggio.
Rosaura. E voi mi sembrate saltellante, come la luna.
Lelio. Dove trovasi il Ticinense laureato?
Rosaura. Fra le pareti di quella ceremoniaca stanza.
Lelio. Permettetemi ch’io vada a scaricar il mio cuore delle nuove concepite congratulazioni.
Rosaura. Andate pure a scaricare ciò che vi aggrada.
Lelio. Addio, mia adorabile Galatea. (parte)
Rosaura. Addio, mio arrabbiato Ciclopo.
SCENA VI11.
Rosaura. Mi voglio godere quella cara signora Isabella, finta Flaminio. Oh quanto vuol restar svergognata!
Momolo. Siora Rosaura, patrona reverita.
Rosaura. Serva, signor Momoletto.
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SCENA VII12
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Florindo. Signori miei stimatissimi, non credo già che sia di vostra intenzione che il divertimento, ch’or si prendiamo, abbia ad esser troppo serioso. Io per dar principio, dirò ciò che intendo circa l’amor platonico delle signore donne in un
SONETTO.
Nice è fida al suo Tirsi; ella ha ripieno
Di casto amore il cor costante e forte
Il suo Tirsi amerà sino alla morte;
Lo dice, il giura, e si percuote il seno.
Ma poi la stessa Nice al bel Fileno
Volge le luci languidette e smorte,
E sembra sol che il suo dolor conforte.
Mirando in viso il pastorel sereno.
Che dobbiam dir di Nice? ella due cori
In petto ha forse? o pure amar più d’uno
Puote senza far onta ai casti ardori?
Ora Nice conosco; ella d’ognuno
Finge gradir gli appassionati amori.
Tradisce entrambi, e non adora alcuno.
(Tutti lodano)
Beatrice. Io non sono poetessa. Tuttavolta dirò un sonetto, che ho conservato, perchè mi piace. Egli parla contro i critici delle nostre mode.
SONETTO.
L’indiscreta ignoranza ognor favella
Contro il nostro variar di moda in moda;
Eppur cotanta novità si loda,
Se per troppo variar natura è bella13.
Variano in Ciel le stelle, e varia anch’ella
In sue stagion l’adusta terra e soda,
E l’occhio avvien, che si diletti e goda,
Quando questo o quel fior si rinnovella.
E non potrà l’industriosa donna
Variar sue mode, e prendersi solazzo
In abbreviare o in dilatar la gonna?
L’uomo suol far di noi tanto schiamazzo,
E poi fa di noi peggio, e poi s’indonna
Con polve e ricci, che rassembra un pazzo.
(Tutti lodano)
Ottavio. Oh, prima che mi scappi dalla memoria, permettetemi ch’io reciti un sonetto sopra il gioco del lotto.
SONETTO.
Oh, mente saggia di colui, che primo
L’arte trovò di far col poco il molto!
Dicami pur chi vuole incauto e stolto,
Ch’io cotal arte sopra ogn’arte estimo.
Dal tristo seno di miseria, ed imo,
Vedersi tratto in un momento e sciolto:
Il vincitor felice, e il popol folto
Venera lui già di dovizie opimo.
Sparge sangue e sudor prode guerriero,
Veglia il medico saggio e il curial dotto,
Tra perigli ed orror vive il nocchiero.
Eppur van passo passo, o al più di trotto,
Per le vie della sorte. In tal sentiero
Galoppa sol il giocator di lotto.
(Tutti lodano)
Florindo. A voi, signora sorella; dite qualche cosa di spiritoso. (a Diana)
Diana. Per obbedirvi dirò un Sonetto, che ho trovato a caso in un armajo antico di casa; e siccome io non l’intendo, lo dirò acciò mi facciate la spiegazione. Sentite il titolo: Ninfa confusa fra due amanti.
SONETTO.
Barbaro crudo Amor, per te son io
Di due strali pungenti unico oggetto:
D’Eurillo il volto e di Lesbin l’aspetto
Fanno guerra amorosa entro al cor mio.
Se ad Eurillo talor lo sguardo invio,
Già sento palpitarmi Eurillo in petto;
E per Lesbin già m’agita l’affetto.
Se col ciglio a Lesbin volgo il desio.
Da sì vario pensier resa incostante,
Ad Eurillo e a Lesbin nego gli amori,
E son d’Eurillo e di Lesbino amante.
Amor, deh tu m’invola ai doppi ardori!
O fa di due sembianti un sol sembiante,
Or unico mio cor cangia in due cori.
(Tutti lodano)
Florindo. Brava! volete ch’io vi faccia la spiegazione?
Dottore. No, no, non vi è bisogno: straccialo quel sonetto.
Florindo. (Povera innocentina!) (da sè)
Momolo. Songio Eurillo o Lesbin? (piano a Diana)
Diana. Il sonetto non parla nè di voi, nè di me. (piano a Momolo)
Lelio. Scendete dal fulgido irradiato Cielo, o sagre canore Muse, e facendo del mio infiammato seno un erudito Parnaso, fate che le melliflue mie labbra imitino quelle del vostro serenissimo Apollo. Fatta la invocazione, eccomi tosto al poema.
Florindo. Come! volete recitare un poema?
Lelio. Qualunque poetica composizione poema può dirsi, perchè poema appunto è nome, che da poesia è derivato. Perdonate la digressione, anzi la più che necessarissima mia giustificazione. Il mio poema in lode della bellezza sarà un
MADRIGALE.
Oh, dall’architettante alto Architetto
Splendentissimamente a noi profusa.
De’ due gran luminari esempio vivo.
Parlo teco, beltà, che il torvo aspetto
Puoi14 dispetrar della petrea Medusa,
Di terracquea magion confortativo.
Ah, che contemplativo
De’ raggi tuoi nel fiammeggiante spaccio
M’incatacombo, m’inabisso, e taccio.
(Tutti lodano e ridono)
Dottore. Il signor Flamminio dice nulla?
Isabella. Dirò per compiacervi un sonetto. Sarà questo opposto al sentimento del signor Lelio, mentre egli ha preteso lodar la bellezza, ed io dimostro la sua caducità.
SONETTO.
Seren di Gel, che in balen s’oscura.
Onda di mar, che un sol momento ha vita,
Alba, che in apparir tosto è sparita,
Ombra, ch’esser fugace ha per natura;
Neve, ch’ai rai del caldo sol non dura,
Spuma, che a un soffio nasce ed è svanita.
Polve, che a un soffio d’aura erra smarrita.
Aura, che in un momento a noi si fura;
Lampo, che mentre splende, allor15 s’annulla,
Fior, che perde in un dì la sua vaghezza,
Sol, che trova in un dì feretro e culla;
Vetro, che cade e nel cader si spezza,
Fumo, ch’ogni aura alfin dissolve in nulla,
È il caduco tesor della bellezza.
(Tutti lodano)
Momolo. Anca mi vogio dir la mia alla veneziana: dirò un sonetto fatto qua all’improvviso.
SONETTO.
De maridarme m’è salta el caprizio;
Gh’ho diversi partii, ma vôi pensar.
Una vecchia faria da gomitar,
La zovene saria senza giudizio.
La bella piaserà a Sempronio e a Tizio,
Con una brutta no me vôi taccar;
Pretenderà una ricca comandar,
Me manda una pitocca in precipizio.
La nobile saria superba e altiera,
Asena l’ordinaria e l’ignorante,
E la donna sapiente una braghiera.
Donca, chi hoggio da tor tra quelle tante
Che proposte me vien? questa è la vera:
Voi mandarle in malora tutte quante.
(Tutti lodano)
Diana. Obbligata, signor Momolo. (piano a Momolo)
Momolo. El sonetto no parla nè de ela, nè de mi. (piano a Diana) Patta pagai. (da sè)
Dottore. Orsù, dirò anch’io sopra un vedovo, che loda il matrimonio, con un
SONETTO.
Che bel contento aver la sposa accanto,
E sentirsi chiamar papà dai figli:
Del matrimonio son molti i perigli.
Ma il piacer che si prova è ben più tanto.
Nell’allegrezza, o in occasion di pianto,
Amorosi si cambiano i consigli,
E si prende da’ bei labbri vermigli,
Senza rimorsi al cor, piacer cotanto.
E quando arriva la canuta etade,
E gela il verno, oh, quanto ci ristora
Dell’amica consorte la pietade.
Santo pudico amor, ’nanzi ch’io mora.
Questa bella dell’uom felicitade
Fammi provar un’altra volta ancora.
(Tutti lodano)
Dottore. Rosaura, adesso tocca a voi. Fatevi onore: fate conoscere il vostro spirito. Animo, da brava.
Rosaura. Per obbedirvi dirò quattro strambotti, fatti da me nell’ore dell’ozio. Considerando io i vari caratteri delle persone d’oggidì, e trovandoli simili a ciò che fu scritto de’ nostri antichi, ho composto la presente
ODA ANACREONTICA.
Tutti gridano, che il mondo
Tristo è fatto ai nostri dì;
Onde a tutti anch’io rispondo:
Non è ver, non è così.
Proverovvi, et ex professo,
Che fu il mondo ognor lo stesso.
Tiranneggiano gli avari,
E non pagan le mercedi.
Fanno pianger gli operari,
Per far ridere gli eredi;
Ma di tali avari ingrati
Ve ne fur ne’ tempi andati.
Della moglie si lamenta
Il marito travagliato;
Dice: mai non si contenta.
Vuol vedermi rovinato.
Ma in etade ancor lontana
Fu la donna sempre vana.
Grida un padre di famiglia:
Troppo il mondo è tristo adesso,
Me l’ha fatta la mia figlia,
Non ha più vergogna il sesso.
Nella prima antica etate
Quante figlie son cascate?
Ognun ruba16, dice l’altro.
Ognun vive sul compagno;
Troppo l’uomo adesso è scaltro,
Solo intento al mal guadagno.
Furo ancor de’ tristi e ladri
Tra gli antichi nostri Padri.
Mormorare ognor si sente
E trinciare i panni addosso;
Dell’amico e del parente
Mal si dice a più non posso:
La maligna gente rea
Così un tempo ancor facea.
Non v’è fede nei contratti,
Tutto il mondo adesso inganna.
Non han luogo i sagri patti,
E la legge in van condanna.
Dalle storie ancor si vede
Che tal fu l’antica fede.
Ama il lusso ed ama il chiasso,
Colui dice, adesso il mondo;
Oggi l’uom per torsi spasso
Ai tesori trova il fondo.
E per questo? Ben io veggio
Che gli antichi facean peggio.
Par che il mondo reo sia fatto
Oggi sol de’ tristi amori;
Grida ognun che il mondo è matto
Pe’ novelli e folli ardori.
Io li ascolto, e me ne rido:
Regnò sempre il Dio Cupido.
Se una donna maritata
Guarda in volto un cavaliero,
Grida tosto la brigata:
Bell'usanza da dovvero!
La qual cosa al tempo antico
Non stimavan nè anche un fico.
Spiritacci mal contenti
Di voi stessi, e non del mondo,
Nati solo fra i viventi
Per inutil tristo pondo,
Fra le odierne cose usate
O tacete, ovver crepate.
Fine.
(Tutti lodano con evviva)
Rosaura. Signori miei, tutti egualmente hanno mostrato il loro spirito, ne veggo essersi segnalato sopra gli altri il signor Florindo. In fatto un sonetto non basta per decidere della virtù e del merito d’un uomo dotto. S’egli però si contenta, io gli darò campo di farsi onore.
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- ↑ Dall’edizione Paperini.
- ↑ Scrive l’autore nell’anno 1753.
- ↑ Dalle edizioni Bettinelli e Paperini.
- ↑ Dalle edd. Bettinelli e Paperini.
- ↑ C. s.
- ↑ Dalle edd. Bettin. e Paper.: dove questa è la sc. VI.
- ↑ Dalle edd. Bettin. e Paper.: dove questa è sc. VII.
- ↑ Dalle edd. Bettin. e Paper.
- ↑ C. s.
- ↑ Dalle edd. Bettin. e Paper, ed. Pasquali.
- ↑ Questa è ancora sc. V nella edizione Pasquali.
- ↑ Dalla sola ed. Bettinelli, dove è sc. VIII (per errore tipografico sc. X).
- ↑ Il testo
ha: natura, e bella. - ↑ Il testo ha: poi.
- ↑ Testo: all’or.
- ↑ Testo: rubba.