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492 | ATTO TERZO |
riputazione, in pubblico risarcir la dovete; o parlate,1 o lasciatemi sposar vostro padre, se vi dà l’animo, o impeditelo con fondamento.
Florindo. (Ah che farò? Accuserò la mia colpa? Lascierò correre un matrimonio così indegno? Da quai rimorsi agitato è il mio cuore!) (da sè)
Dottore. Via, parla. (a Florindo)
Rosaura. Lo vedete? È confuso. Non sa che dire; è un impostore2; mentisce...
Florindo. (Ah, questo è un soffrir troppo!) (da sè)
Dottore. Se sei pazzo, fa che ti sia levato sangue. Rosaura, datemi la mano.
Rosaura. Son pronta.
Florindo. Ah no, trattenetevi. Ve lo confermo: voi non potete sposare Rosaura.
Dottore. Ma perchè?
Florindo. Perchè io a Rosaura ho dato fede di sposo.
Dottore. (Una bagattella!) (da sè)
Isabella. (Ah traditore, che sento!) (da sè)
Florindo. Sarebbe una scelleraggine il mio tacere. Devo svelare a mio dispetto l’arcano. Amai Rosaura in Pavia, le giurai fede di sposo, fui corrisposto con tenerezze; sarebbe sacrilego un più3 lungo silenzio.
Dottore. (Questo è ben altro che la mia età e la mia famiglia). (da sè) E voi, Rosaura, avreste sì poca prudenza di sposar il padre del vostro amante?
Rosaura. Mal di me giudicate, se capace di ciò mi credete. Finsi per atterrir quell’ingrato, e riuscì il fine com’io lo aveva preveduto. Se avesse egli avuto cuor di tacere, avrei parlato ben io: poteva però l’audace farmi credere mentitrice; così di sua bocca l’error suo confessando, si fa debitore di quella fede che mi ha giurata, e che ha ingratamente tradita.