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484 | ATTO TERZO |
Dottore. Gran cosa che sempre s’abbia a impazzire con la servitù!
Rosaura. Veramente dice Platone: Nihil servorum generi credendum: quot enim servi, tot hostes1. Voi peraltro non potete lamentarvi. Avete buona servitù: e poi, se fosse cattiva, la fareste esser buona col vostro buon tratto, osservando il precetto di Seneca: Sic cum inferiore vivas, ut tecum superiorem velis vivere. Per lo più il disordine delle case nasce parte dai servitori, e parte dai padroni, dicendo in tal proposito Strofilo, servo nell'Aulularia di Plauto:
» Male usano i padroni i servi loro;
» Male i servi ubbidiscono ai padroni;
» Così questi, nè quelli il dover fanno.
Io per me vi sarò sempre amorosa e fida, pronta sino a dare per voi la vita stessa, come fece la saggia e fedele Erminia per Sofonisba, nella tragedia del Trissino.
Dottore. Ah, non posso più contenermi. Sì, venite, la mia cara Rosaura; se prima vi ho data solamente qualche lusinga, adesso mi dichiaro e apertamente vi dico, che avete ad esser mia sposa.
Rosaura. Come, signore, una povera giovane?...
Dottore. Tant’è; non occorr’altro. Datemi la mano.
Rosaura. Voi mi sorprendete. La mano così clandestinamente, senza le debite solennità?
Dottore. Non intendo adesso sposarvi; intendo solamente impegnar con voi la mia fede.
Rosaura. Per verba de futuro?
Dottore. Appunto: vien gente, date qui. Fate presto.
Rosaura. Ecco la mano.
Dottore. Prometto di esser vostro marito.
Rosaura. Ed io prometto essere vostra moglie.
Dottore. Mi basta così. Addio, la mia sposina. Vado da mio figliuolo. Ricordatevi di venire ancor voi all’Accademia, e di far spiccare il vostro talento.