Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Luogo destinato per gli schiavi.

Argenide e Cosimina.

Cosimina. Deh signora padrona, il sospirar che giova1?

La virtù, la costanza, nell’occasion si prova.
Il pianger non vi rende la libertà perduta,
A riacquistar Lisauro il pianger non v’aiuta.
Sapete che produce il pianto ed il lamento?
A me ed al padre vostro un gentil seccamento.
Argenide. Tante funeste immagini trarmi vorrei di dosso,
Vorrei celarlo almeno, ma simular non posso.

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Voi mi vedeste in mare andar senza spavento,

Non mi vedeste a piangere nel marzial cimento.
Schiava dei rei nemici gemere non fui scorta,
Vado coll’alma forte dove il destin mi porta.
Temo l’amante oppresso da morte o da catene,
E per lui coraggiosa vo’ incontro a mille pene.
Ma nel trovarlo infido, veggendomi tradita,
Il mio valor vien meno, la mia virtù è smarrita.
Cosimina. Per me vi parlo schietto, una sventura tale,
Un accidente simile, sarebbe il minor male.
Di che mai vi dolete? D’aver perduto un cuore?
D’aver trovato un uomo infido e traditore?
Questi, signora mia, sono i soliti frutti
Che rendono alle donne gli amanti quasi tutti.
Sembrano i primi giorni languenti, spasimanti 2:
Giurano di morire pria ch’essere incostanti.
E credo non tradiscano 3, quando da lor si giura:
Ma cambiano col tempo per uso e per natura.
Dicono a chi li sente, che noi facciam lo stesso,
E non dicono male, lo vedo e lo confesso.
Onde convien concludere, che siam d’un’egual pasta,
Che la passione in tutte alla ragion contrasta;
Che non è meraviglia, se alcun manca di fede,
Cosa che tutto il giorno in pratica si vede.
E se l’aver compagni nell’afflizion consola,
Consolatevi adunque di non penar voi sola.
Argenide. Ma lo vedessi almeno, almeno all’infedele
Titolo dar giungessi d’ingrato e di crudele.
Parmi che meno afflitta sarei, se gli potessi
Rimproverar le colpe, rimproverar gli eccessi.
Cosimina. Volentieri, per dirla, anch’io lo rivedrei,
E anch’io per amor vostro con lui mi sfogherei.
A qualcun di costoro volea raccomandarmi:

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Ma non conosco alcuno, nè so di chi fidarmi.

Aspettate, ch’io vedo venire a questa volta
Uno di questi Mori. Ehi galantuomo, ascolta.

SCENA II.

Mustafà e dette.

Mustafà. Che vuoi?

Cosimina.   Fammi un piacere: conosci un giovin Greco,
Che Lisauro si chiama?
Mustafà.   Or or parlato ha meco.
Cosimina. Possibile sarebbe di favellargli un poco?
Mustafà. Posso, quand’ei lo vuole, condurlo in questo loco.
Or che non è in catene, ora ch’è riscattato,
Può del paese nostro andar per ogni lato.
È ver, che dalle donne entrar non gli è concesso,
Ma io sarò presente, e gli darò il permesso.
Cosimina. Bravo, bravo davvero, va dunque a rintracciarlo.
Mustafà. Cosa vuoi tu donarmi, se mi dispongo a farlo?
Cosimina. Ti darò qualche cosa.
Mustafà.   A femmine non credo;
Non vuo’ muovere un passo, se la mercè non vedo.
Argenide. Prenditi quest’anello.
Cosimina.   Piano, signora mia,
Un anel per sì poco? Voi lo gettate via.
Mustafà. Tu, insolente, mi togli l’anel che mi vuol dare?
Non vederai Lisauro, se credo di crepare.
Argenide. Prendilo, io te lo dono. Guidami tosto il Greco:
Tutto di dar son pronta quel che restato è meco;
Anche il mio sangue istesso, se il sangue mio si chiede.
Mustafà. Generoso il suo core più del tuo cor si vede.
(a Cosimina
Tutto si può sperare, quando si fa così;
Vado a cercar Lisauro, e lo conduco qui. (parte

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SCENA III.

Argenide e Cosimina.

Cosimina. Molto meno bastava per contentar quel Nero.

Argenide. Calsemi ad ogni prezzo veder quel menzognero.
Avidi gli Africani sono dell’oro, il sai.
Cosimina. Nel riveder Lisauro, cosa farete mai?
Argenide. Nol so, mille pensieri ho nella mente a un tratto,
Nè prevedere io posso quale abbracciar sul fatto.
Se al tradimento io penso, m’arde di sdegno il core;
Se la speranza ascolto, vuol lusingarmi amore.
Temo il rigor soverchio, temo la mia pietade,
Non so quale mi possa giovar delle due strade:
Chè la soverchia asprezza farmi potria del danno,
E la pietade istessa può favorir l’inganno.
Odimi, Cosimina, vedi tu pria l’ingrato,
Scopri se intieramente ha l’amor mio scordato.
Cerca dai labbri suoi, mira in quel volto attenta,
Se lusingarmi io posso che il traditor si penta.
Tentalo in questa guisa, fingi ch’io sia smarrita,
Fa che da lui si dubiti, ch’io più rimanga in vita;
E nel suo volto i segni attentamente osserva,
Se al mio destin si scuote quell’anima proterva.
Se ti par che pietoso il di lui cor si renda,
Fa che di rivedermi dolce desio l’accenda;
Digli che di mia sorte speme rimane ancora,
Che di me nuova al lido giunger potrebbe or ora.
E se ridente il vedi, e se mi brama in vita,
Muovi veloce il passo, e il mio destin mi addita.
Cosimina. E se di voi non cura?
Argenide.   Ah se spietato ha il seno,
Recami per pietade un ferro od un veleno.
E se di tali aiuti privami l’empia sorte,
Un’alma disperata sa procacciar la morte.

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Lo stringerò al mio seno, se impietosito il vedi;

E se persiste ingrato, saprò morirgli ai piedi. (parte

SCENA IV.

Cosimina sola.

Questo morir da alcuni par che si stimi poco.

Parlano della morte come se fosse un gioco.
Ed io stimo la vita assai più d’un marito;
Non vorrei per un uomo nemmen pungermi un dito.
Credo però che il dicano senza pensarvi su:
Ma se fossero al caso, non lo direbber più.
Sono cose da scena il dir mi voglio uccidere;
Stili, spade, veleni, cose che fan da ridere.
Mille pensieri tristi sveglia l’amore insano,
Ma il Cielo finalmente suol mettervi la mano.
Trovano i disperati di consolarsi il modo;
E per lo più in amore chiodo distacca il chiodo.
Eccolo il malandrino, ecco Lisauro affé;
Lo vorrei conciar bene, se avesse a far con me.

SCENA V.

Lisauro, Mustafà e la suddetta.

Mustafà. Fermati a tuo bell’agio: ti aspetto in sulla porta,

E quando uscir vorrai, ti farò io la scorta. (parte
Lisauro. Siete voi che mi cerca?
Cosimina.   Sì signore, son io.
Noto forse a’ vostri occhi non sembra il volto mio?
Lisauro. Parmi di riconoscere la voce ed il sembiante.
Cosimina. Non mi vedeste4 in Grecia? non mi vedeste al Zante?
Lisauro. Non mi sovviene punto. 5

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Cosimina.   È ver, che questo fu,

Credo per accidente, una o due volte al più;
Ma se vi dico il nome, e se vi dico il sito.
Resterete di tutto prestissimo chiarito.
Lisauro. Parmi, se non m’inganno... siete voi?...
Cosimina.   Cosimina.
Lisauro. D’Argenide la serva?
Cosimina.   Povera padroncina!
Lisauro. (Ah qual rossor mi desta nel rimirarla in viso!
Sento assalirmi il core da un tremito improvviso).
Cosimina. Come! vi ammutolite? Nemmen da voi si dice,
Cosa fa la mia sposa?
Lisauro.   Che fa quell’infelice?
Cosimina. Veramente il suo caso merita compassione.
Ma delle sue disgrazie foste voi la cagione.
Lisauro. Di lei cos’è avvenuto? Voi qui fra lacci e pene?
Stelle! Argenide forse è ancor fra le catene?
Cosimina. (Parmi che gli dispiaccia). Sarebbe il mal minore
Che ella fosse fra lacci unita al genitore.
Ella, il vecchio ed io pure ci abbandonammo al mare
Non per altra cagione che per voi rintracciare.
Una fiera burrasca6 (9 la nave ha fracassato,
Sopraggiunsero i Turchi e ci hanno incatenato.
Morta pareva Argenide distesa in sull’arena,
Quei barbari corsari non la guardaro appena.
Tosto il lor palischermo staccato han dalla riva,
E lasciar la meschina non so se morta o viva.
Lisauro. (Ah! il mio destin presente a delirar mi porta;
Non so ben s’io desideri viva trovarla, o morta).
Cosimina. (Quel tacer non capisco). Lisauro, a quel ch’io vedo,
Della povera donna poco vi cale, io credo.
Lisauro. No, non son disumano. Il mio dover rammento;
So che mi resi ingrato, e dell’error mi pento.
Una beltà novella pose a’ miei lumi il velo,

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Ma delle fiamme ardite mi ha castigato il Cielo.

L’una da me lasciata in abbandono ingrato,
L’altra sugli occhi miei me l’ha rapita il fato.
Mertano i miei deliri, mertano un’egual sorte.
Devo pagar due vite col fin della mia morte.
Cosimina. Se Argenide vivesse, quasi sicura io sono,
Che a lei perdon chiedendo, vi doneria il perdono.
E voi se ritornaste a rivederla ancora,
Del vostro core il dono le nieghereste allora?
Lisauro. Farei qual si conviene giustizia al di lei merto,
Le mostrerei nel volto tutto il mio core aperto.
Cosimina. (Parmi ch’ei sia contrito, Argenide s’avverta).
Signor, la di lei morte sino al presente è incerta.
Dissero quei corsari che si moveva un poco;
Mandò il governatore a visitar quel loco.
Prima ch’io qua venissi, s’è discoperto un legno,
Da cui, ch’ella sia viva, si è interpretato un segno.
Vado a veder s’è vero; il cuor mi dice spera,
Spero di rivederla tornata innanzi sera.
E s’ella a noi ritorna, e se di voi si degna,
Domandate perdono della mancanza indegna.
State sopra di me; da lei sperate amore.
Eh che noi altre donne siamo poi di buon core. (parte

SCENA VI.

Lisauro, poi Canadir.

Lisauro. Eh si lusinga invano, ch’ella non sia perita.

L’infelice pur troppo perduta avrà la vita.
Se non l’uccise allora dei barbari il rigore,
Spenta l’avrà pur troppo la fame o il suo timore.
Piango la sua sventura, contro di me ho dispetto;
Ma non perciò Zandira posso staccar dal petto.
Canadir. (Qui Lisauro? infedele! Veggiam se al core ingrato

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Noto è ancor di mia figlia il miserabil fato).

Lisauro. (Ah, d’Argenide il padre; dove m’ascondo? oh Numi!)
Canadir. Fermati, invan procuri nasconderti a’ miei lumi.
Perfido, di mia figlia sai la crudel sventura?
Lisauro. Ah foss’io degli abissi nella magione oscura.
Canadir. Questa è la fè che serbi a chi d’amore in segno
Genero suo ti chiama, ti offre una figlia in pegno?
Solo di mia famiglia, ricco nella mia fede,
Render te sol destino di ogni mio bene erede.
Carco finor ti rendo di benefizi e doni,
Fè prometti alla sposa, l’inganni e l’abbandoni?
Questo della tua patria è l’onorevol grido,
Che ai Dalmati recasti, che or porti a questo lido?
Qual della greca fede avrà concetto il mondo,
Di tradimenti un Greco nel rimirar fecondo!
Di tal ingrato eccesso, di tai pensieri audaci,
Quei che barbari appelli, no non sarian capaci,
Chè d’onestà le leggi sono nell’uom le prime,
Che dappertutto il Cielo e la natura imprime.
Alza i lumi dal suolo, mirami, traditore.
Dimmi se almen risenti in faccia mia rossore.
Lisauro. Ah mi piomban sul core queste tue voci amare;
Pria che soffrir tal pena, foss’io perito in mare;
Mi avessero i corsari pria lacerato il seno;
Anzi che de’ miei scorni soffrir l’aspro veleno.
Canadir. Sensi d’alma ribalda che la ragion non sente,
Che della colpa al nome s’adira, e non si pente.
Lisauro. Qual pentimento inutile posso offerirti io mai,
Se risarcir m’è tolto quel ben ch’io ti levai?
Perdesti una tua figlia, il traditore io sono.
Non mi lusinga il cuore di meritar perdono.
Canadir. Il cuor della mia figlia tu conoscesti a prova.
Pentiti, e da quell’alma tutto sperar ti giova.
Lisauro. Ah sì! bell’alma pura che in Ciel lieta t’aggiri,
Mostrati impietosita al suon de’ miei sospiri.

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Tu che in seno del vero conosci il basso errore,

Deh tu perdona, o spirito, vil forsennato amore!
Canadir. Con chi parli?
Lisauro.   Ragiono, spiego l’ardor, Io zelo
Colla tua figlia istessa che or mi figuro in cielo.
Canadir. In ciel!
Lisauro.   Le sue virtudi fatta le avran la scorta 7.
Canadir. Stolido! chi a te disse che la mia figlia è morta?
Lisauro. Cosimina mel disse.
Canadir.   Quando?
Lisauro.   Un brieve momento
Prima che voi giungeste.
Canadir.   Oh qual nuovo spavento!
Sarebbe mai la pena dello schernito affetto...
Voglio veder... ma dimmi, colei cosa ti ha detto?
Lisauro. Dissemi che gettati dalla burrasca a riva.
Restò la sventurata o morta o semiviva.
Che voi colla servente passaste alla catena,
E abbandonata Argenide rimase in sull’arena.
Canadir. Oh favole! oh menzogne! non so di chi mi dica,
Se di te, se di lei, ch’è degli scherzi amica.
Vive la figlia mia, vive pur troppo in pene,
In questo luogo istesso fra il duo! delle catene.
Se fur sinceri i detti che al spirto suo volgesti,
Volgi le tue preghiere a quei begli occhi onesti.
Quella pietà che l’alma ti prometteva in cielo,
Non niegheratti in terra di sua bontade il zelo.
S’ella il perdon t’accorda, tutto mi scordo anch’io;
Se sposa tua la chiami, sarai genero mio.
Guarda fin dove arriva dell’amor mio l’eccesso:
Sugli occhi tuoi, Lisauro, voglio condurla io stesso.
(parte

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SCENA VII.

Lisauro solo.

Dunque colle menzogne d’intenerir si prova

Questo mio cor, sperando che la pietade il muova?
Morta la finge in prima scaltra la serva ardita,
Poi mi lusinga a un tratto di rivederla in vita?
Ma non potea di vita riprendere il sentiero,
Quando del primo fatto detto m’avesse il vero?
Per qual ragion di fingere tolse colei l’impresa?
Tanto non avrà ardito senza far l’altra intesa.
E se d’accordo han finto, sento minore il duolo,
Delle menzogne autore dunque non sono io solo.
Forse per me non prova pene sì crude e amare,
Per me non si avrà forse abbandonata al mare.
Non è la sua catena delle mie colpe il frutto.
Se menzognera è in parte, posso temerla in tutto.
Ah che la mia Zandira parla talora audace,
Ma il di lei cuor sincero mentir non è capace.

SCENA VIII.

Marmut ed il suddetto.

Marmut. Lisauro, ho da narrarti una novella strana.

Lisauro. Sai che sia di Zandira?
Marmt.   Da noi non è lontana.
Appena Radovich dal porto ebbe salpato,
Volò dietro al nemico; l’avea quasi arrivato;
Alì sforza le vele, ed a fuggir s’aiuta:
L’altro con un cannone l’investe e lo saluta.
Poggia il corsar veloce, cambiando il suo cammino,
Poggiare al suo piloto comanda il Dalmatino.
Teme Alì che nel correre il legno suo non vaglia:
Si mette alla difesa, si espone alla battaglia.

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Pongono i capitani sull’anni i lor soldati.

Col cannon, coi fucili tiran da disperati.
Coi spari e colle strida andavano d’accordo,
Erano già vicini ad arrambare il bordo.
Ma tanto eransi spinti lungi dal porto in prima,
Che si vedeano appena della lanterna in cima.
Or s’è cambiato il vento, spinti da tramontana
Sotto la rocca nuova un miglio a noi lontana,
Là si battono ancora; e se veder gli8 vuoi,
Vattene lungo il mare e soddisfar ti puoi.
Lisauro. Grazie ti rendo, amico, del tuo suggerimento,
Ad osservar la pugna non tardo un sol momento.
Bramo veder io stesso per chi decide il fato.
Troppo in tale conflitto ho il cuore interessato, (parte

SCENA IX.

Marmut, poi Canadir ed Argenide.

Marmut. Quest’è un giovin dabbene, ch’è generoso assai.

Con tal sorta di gente non ci si perde mai.
Canadir. Dov’è andato Lisauro?
Marmut.   Or sì, vallo a cercare.
Due legni che si battono è andato ad osservare.
Argenide. Dunque così m’attende? La sua premura è questa?
Marmut. Tu segui per Lisauro a romperti la testa.
Ei non ti ha nella mente, e non ci pensa un fico;
Credimi, poverina, dà fede a quel ch’io dico.
Sa che in un dì qud legni Zandira hanno involato;
Ed ei quel che succede ad ispiare è andato. (parte

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SCENA X.

Argenide e Canadir rimangono per qualche tempo senza parlare.

Argenide. Ecco le tue speranze. (a Canadir

Canadir.   Ma Cosimina istessa
Non ti dicea che aveva buone speranze anch’essa?
Argenide. Misera! da ogni parte veggio ch’io son tradita.
O m’ingannaste entrambi, o m’ha il crudel schernita.
Ogni speranza è vana che il traditor sen torni,
Fra le catene e i pianti terminerò i miei giorni.
Niuno di lui mi parli; odio chi mi consiglia.
Canadir. Della bontà del Cielo non disperare, o figlia.

SCENA XI.

Ibraim e detti.

Ibraim. Vecchio, ne’ miei giardini dei essere impiegato.

Te al signor di Marocco spedire ho destinato.
(ad Argenide
Canadir. Ah signor...
Argenide.   Non opporti. Eh lascia pur ch’io vada,
Già saprò colla morte abbreviar la strada, (a Canadir
Ibraim. Chi è costei che di morte parla sì franca in volto?
Canadir. Se favellar concedi...
Ibraim.   Parlami pur, t’ascolto.
Canadir. Signor, questa è mia figlia, sposa d’un uomo ingrato,
E per seguir l’infido, ci ha qui condotti il fato.
Il traditor Lisauro che a te dev’esser noto,
Scordasi per Zandira della sua fede il voto.
Ora sugli occhi miei finse il suo cor pentito,
E a rintracciar Zandira corre il mendace al lito.
Mira quell’infelice scopo dell’empia sorte:
Altro non ha conforto che nell’idea di morte.

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E se a un serraglio è scorta dal tuo poter sovrano,

Accelerar la morte saprà colla sua mano.
Deh se pietade alligna, signor, nel tuo bel core,
Ti destino a pietade la figlia e il genitore,
Argenide. Abbi pietà di lui, che sua virtude il merta:
Lasciami, qual ti piace, della mia sorte incerta.
Son dalle mie sventure sì fieramente oppressa,
Che la pietade abborro, ch’odio per fin me stessa.
Ibraim. Frena il duol furibondo. Cangia le voci insane:
Sei nell’Affrica, è vero, ma non fra tigri ircane.
Lisauro è in lihertade; ma ancor fra noi risiede,
Dove punir si suole chi manca altrui di fede.
Arbitro del riscatto non ho il potere in mano,
Ma se pietà mi chiedi, non me la chiedi invano.
Farò che il suo nemico pieghi quell’alma9 altera.
Non disperarti, o donna. Vecchio, confida e spera.
(parte
Canadir. Non te lo dissi, o figlia, veglia de’ Numi il zelo. (parte
Argenide. Pieghisi al Ciel la fronte, e ci soccorra il Cielo, (parte


Fine dell’Atto Terzo.


Note

  1. Nel testo c’è punto e virgola.
  2. Ed. Pitteri: spansimanti.
  3. Ed. Pitteri: tradischino.
  4. Così le edd. Guibert e Zatta. Nelle edd. Pitteri e Savioli è stampato qui e subito dopo: cedesti.
  5. Così l’ed. Zatta. Nelle edd. Pitteri, Savioli, Guibert è stampato soltanto: Non mi sovviene.
  6. Ed. Pitteri: borrasca.
  7. Zatta: fatta le avranno scorta.
  8. Così nello vecchie edizioni.
  9. Zatta: quest’alma.