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LA DALMATINA 57
Ma delle fiamme ardite mi ha castigato il Cielo.

L’una da me lasciata in abbandono ingrato,
L’altra sugli occhi miei me l’ha rapita il fato.
Mertano i miei deliri, mertano un’egual sorte.
Devo pagar due vite col fin della mia morte.
Cosimina. Se Argenide vivesse, quasi sicura io sono,
Che a lei perdon chiedendo, vi doneria il perdono.
E voi se ritornaste a rivederla ancora,
Del vostro core il dono le nieghereste allora?
Lisauro. Farei qual si conviene giustizia al di lei merto,
Le mostrerei nel volto tutto il mio core aperto.
Cosimina. (Parmi ch’ei sia contrito, Argenide s’avverta).
Signor, la di lei morte sino al presente è incerta.
Dissero quei corsari che si moveva un poco;
Mandò il governatore a visitar quel loco.
Prima ch’io qua venissi, s’è discoperto un legno,
Da cui, ch’ella sia viva, si è interpretato un segno.
Vado a veder s’è vero; il cuor mi dice spera,
Spero di rivederla tornata innanzi sera.
E s’ella a noi ritorna, e se di voi si degna,
Domandate perdono della mancanza indegna.
State sopra di me; da lei sperate amore.
Eh che noi altre donne siamo poi di buon core. (parte

SCENA VI.

Lisauro, poi Canadir.

Lisauro. Eh si lusinga invano, ch’ella non sia perita.

L’infelice pur troppo perduta avrà la vita.
Se non l’uccise allora dei barbari il rigore,
Spenta l’avrà pur troppo la fame o il suo timore.
Piango la sua sventura, contro di me ho dispetto;
Ma non perciò Zandira posso staccar dal petto.
Canadir. (Qui Lisauro? infedele! Veggiam se al core ingrato