La Secchia rapita/Canto ottavo

Canto ottavo

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Canto settimo Canto nono


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la


SECCHIA RAPITA


CANTO OTTAVO.

________


ARGOMENTO.


Il corno manco alfin de’ Gemignani
     Giugne a forza, pugnando, a’ suoi steccati.
     Vede Ezzelino in mostra i Padovani
     4Ch’a danno de’ Petroni ha ragunati.
     Fan tregua i campi; e con partiti vani
     Son da Bologna ambasciator mandati,
     Che di Renoppia fra i ricami e l’armi,
     8Del cieco Scarpinello odono i carmi.

I.


Già la luce del sol dato avea loco
     All’ombra della terra umida e nera;
     E le lucciole uscian col cul di foco,
     12Stelle di questa nostra ultima sfera:
     Quando le trombe in suon già lasso e fioco
     A raccolta chiamar dalla riviera.
     Usciro i fanti e i cavalier dell’onda,
     16E si ritrasse ognuno alla sua sponda:

II.


E quinci e quindi alzaro incontro al ponte
     Gli eserciti trinciere e padiglioni.
     Tornaro intanto di Miceno il Conte,
     20E Manfredi e Roldano, i tre campioni
     Che le bandiere de’ nemici conte
     Cacciate avean per boschi e per valloni:
     E fu da loro, in arrivando, al lito
     24Il suon dell’armi e de’ cavalli udito.

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III.


E poichè dalle spie certificati
     Del vario fin della battaglia foro;
     In dubbio se dovean per gli steccati
     28Ripassar de’ nemici al campo loro,
     O guazzando in disparte i lor soldati
     Ricondur cheti a ripigliar ristoro;
     A guazzo alfin passar fanti e somieri,
     32E al ponte si drizzar co’ cavalieri.

IV.


E dato avviso al Potta in diligenza,
     Perchè le sbarre a tempo e loco alzasse;
     Delle spoglie de’ vinti, in apparenza
     36Di Ferraresi, armar la prima classe.
     E acciocchè l’arte lor maggior credenza
     Tra gl’inimici all’arrivar trovasse,
     Quando lor parve esser vicini assai:
     40Viva Frarra, gridar: guardai, guardai.
                                  

V.


Gli abiti ferraresi e le favelle
     Nel fosco della notte e ’n quel tumulto
     Ingannaron cosí le sentinelle,
     44Che fu il pensier de’ valorosi occulto.
     Giunti nel campo, alzar fino alle stelle
     I gridi e gli urli; e con feroce insulto
     Trasser le spade, e apersero il cammino
     48Dove più il ponte a lor parea vicino.

VI.


Eran confusi ancor gli alloggiamenti,
     Gli animi incerti, e i corpi affaticati:
     Quando dal suon de’ minacciosi accenti
     52D’improvviso terror fur saettati.
     Come scossi dal ciel folgori ardenti
     Venian, di sangue e di sudor bagnati.
     Manfredi e ’l buon Voluce alla frontiera,
     56E in ultimo Roldan chiudea la schiera.

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VII.


Come pere cadean le genti morte
     Sotto il furor delle sanguigne spade.
     Vede il conte Romeo, ch’ad una sorte
     60Pedoni e cavalier sgombran le strade;
     Onde il nipote suo Ricciardo il forte
     Chiamando, corre ove la gente cade:
     Ma l’impeto lo sbalza, e prigioniero
     64Porta seco Ricciardo in sul destriero.

VIII.


Come suol nube di vapori ardenti
     Far ne’ campi talor strage e fracassi;
     Vomitando dal sen fulmini e venti,
     68E portar seco svelti arbori e sassi;
     Così porta il furor di que’ possenti
     Seco ogn’incontro, ovunque volge i passi.
     Così, secondo i greci ciurmatori,1
     72Porta l’ottavo ciel gli altri minori.

IX.


Giunto al Potta frattanto era l’avviso,
     E Gherardo sul ponte avea mandato:
     Ma fu l’arrivo lor tant’improvviso,
     76Che ’l ritrovaro ancor chiuso e sbarrato.
     Quivi a Roldano fu il destriero ucciso,
     E rimanea da tutti abbandonato,
     Se non si ritraean fuora del ponte
     80I due guerrier che combatteano in fronte.

X.


L’uno di qua, l’altro di là si mosse,
     Dove incalzar vedea l’ultima schiera;
     E l’impeto in se tolse e le percosse,
     84Finchè tutti spuntar sulla riviera.
     Gherardo intanto al giugner suo rimosse
     Le sbarre che piantate avea la sera,
     E i suoi raccolse, e lasciò quei dal Sipa
     88Con un palmo di naso all’altra ripa.

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XI.


Dell’orribile pugna il gran successo
     Sparse intorno la fama in un momento;
     Onde ne giunse a Federico il messo,
     92Che sospirò del figlio il duro evento.
     Scrisse agli amici; e maledì se stesso,
     Che fosse stato a quell’impresa lento:
     Ma sopra tutti scrisse ad Ezzelino
     96Che di Padova allor tenea il domino.

XII.


Ezzelin come udì che prigioniero
     Del suo signore era il figliuolo, in fretta
     Armò le sue milizie, e fe’ pensiero
     100Di farne memorabile vendetta.
     Avea allor seco un principe straniero,
     Cui per fresco retaggio era suggetta
     La nobil signoria della Morea,
     104E a cui sposata una nipote avea.

XIII.


In tutto l’Oríente uom di più core
     Di lui non era, o di miglior consiglio.
     Fu detto Eurimedonte: e ’l suo valore
     108Fea tremar dall’Eussino al mar Vermiglio.
     Or a questi Ezzelin diede l’onore
     Di liberar di Federico il figlio:
     E con più ardor, quand’egli udì, si mosse,
     112Ch’era infreddato, e ch’egli avea la tosse.

XIV.


Dieci schiere ordinò, ciascuna d’esse
     Di dugento cavalli, e mille fanti;
     E ghibellini i capitani elesse,
     116Perchè fosser più fidi e più costanti.
     Musa, tu che migliacci e caldallesse
     Vendesti lor, dettami i nomi e i vanti
     Che fer dal piano agli ultimi arconcelli
     120L’alta torre tremar degli Asinelli.2

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XV.


Già l’uscio aperto avea dall’oriente
     La Puttanella del canuto Amante,
     E ’n camicia correa bella e ridente
     124A lavarsi nel mar l’eburnee piante;
     Spargeasi in onde d’oro il crin lucente,
     Parea l’ignudo sen latte tremante;
     E allo specchio di Teti il bianco viso
     128Tingea di minio tolto in Paradiso:

XVI.


Quando alla mostra uscì tutta schierata
     La gente. E prima fu l’insegna d’Este,
     Che l’aquila d’argento incoronata
     132Portar solea nel bel campo celeste:
     Or d’uno struzzo bianco è figurata,
     Impresa del Tiranno e di sue geste.
     Di Sant’Elena il fiore indi seconda,
     136Terra di rane e di pantan feconda;

XVII.


E Castelbaldo a cui tributa rena
     L’Adige che fa quindi il suo cammino.
     Savin Cumani è il duce; e dall’amena
     140Piaggia di Carmignano e Solesino,
     E dal Deserto, e da Valbona mena
     Gente, dove costeggia il Vicentino.
     L’armi ha dorate, e nell’insegna al vento
     144Spiega un nero leon sovra l’argento.

XVIII.


Schinella e Ingolfo, onor di casa Conti,
     Gemelli, e dal Tiranno ambiduo amati.
     Dalla Creola e da’ vicini monti
     148Guidano dopo questi i lor soldati.
     San Daniel, Baone, e le due fronti
     Che toccano del ciel gli archi stellati,
     Venda e Rua, Montegrotto e Montortone,
     152Gazzuolo e Galzignano e Calaone.

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XIX.


Abano3 va con questi in una schiera,
     E quei di Montagnon seco conduce.
     L’aria e la terra affumicata e nera,
     156Di sulfureo color gente produce.
     Quivi l’orrendo albergo è di Megera;
     Che di foco infernal tutto riluce.
     Se v’era Pietro allor, co’ fieri carmi
     160Traeva i morti regni al suon dell’armi.4

XX.


A liste di color vermiglio e bianco
     Segnata de’ due Conti è la bandiera.
     Nantichier di Vigonza è loro al fianco,
     164E conduce con lui la terza schiera.
     Vighezzolo e Vignozza e Castelfranco
     Seco ha in armi, e di là dalla riviera
     Della Brenta le terre ove serpeggia
     168La Tergola, e ’l Muson fremendo ondeggia.

XXI.


Camposampier, Balò, Sala e Mirano,
     Stra, la Mira, Oriago, il Dolo e Fiesso,
     Arin, Caltana, Melareo, Stigliano,
     172E ’l popol di Bogione era con esso.
     Nello stendardo il cavalier soprano
     L’antico segno ha di sua schiatta impresso,
     Ch’una sbarra di vaio è per traverso
     176In campo d’oro; e lo stendardo è perso.

XXII.


Passa il quarto Inghelfredo, uomo che nato
     D’ignota stirpe, e a ministero indegno
     Dapprima eletto, a poco a poco alzato
     180S’è per occulte vie con cauto ingegno.
     Tesoriero fu dianzi; or è passato
     A grado militar più illustre e degno:
     Ma superbo al sembiante e al portamento,
     184Sembra scordato già del nascimento.

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XXIII.


Dichiarato è baron di Terradura;
     E la Battaglia5 va sotto il suo impero,
     Dove fa risonar l’antiche mura
     188L’incontro di due fiumi e ’l corso fiero.
     Tempestata di gigli ha l’armatura,
     E un levriere d’argento ha sul cimiero:
     E ’l tiranno Ezzelin l’ha fatto duce
     192Del patrimonio suo ch’egli conduce.

XXIV.


Le bandiere d’Onara e di Romano,
     Quelle di Cittadella e Musolente
     Regge; e di Fontaniva e di Bassano
     196E della Bolsanella arma la gente.
     Va con questi Campese a mano a mano,
     Campese la cui fama all’occidente,
     E ai termini d’Irlanda e del Cataio
     200Stende il sepolcro di Merlin Coccaio,

XXV.


Latino autor di mantuani versi
     Per cui la donna sua Cipada6 agguaglia,
     E i monti di Cuccagna e i rivi tersi
     204Levan la palma a quei della Tessaglia.
     Erano i Campesani in Lete immersi:
     Or li solleva al ciel l’onda castaglia;
     E forse ancor su questi scartafacci
     208Faran del nome lor diversi spacci.

XXVI.


Brunor Buzzaccarini è il quinto; e a gara
     Vanno seco Conselve e Bovolenta,
     Are, Cona, Tribano e l’Anguillara,
     212Quei di Sarmasa e di Castel di Brenta,
     Di Pontelungo, e quei di Polverara,
     Dov’è il regno de’ galli e la sementa
     Famosa in ogni parte: e questa schiera,
     216Dogata a verde e bianco ha la bandiera.

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XXVII.


L’altra che segue, ove congiunte a stuolo
     Vanno Pieve di Sacco, e Saponara,
     Montemerlo, Sanfenzo, e di Brazzolo
     220La gente, e seco in un Camponogara,
     San Bruson, e Cammin, guida un figliolo
     Dell’antico signor di Calcinara,
     Che Franco Capolista è nominato,
     224E porta un cervo rosso in campo aurato.

XXVIII.


Della Riviera e della Mandra ha unite
     Ereditarie e bellicose genti.
     Quelle di Paluello7 instupidite,
     228Furo ad armarsi allor sì negligenti,
     Ch’eran le guerre già tutte finite
     Quando spiegaron la bandiera ai venti:
     Onde i vicini lor ridono ancora
     232Del soccorso che dier que’ sciocchi allora.

XXIX.


Colla settima squadra Aicardo passa
     Capodivacca, e seco ha Montagnana;
     Monterosso e Zoone addietro lassa;
     236E guida Revolon, Torreggia e Urbana,
     Meggiaino e Merlara in parte bassa,
     Luvigliano più in alto a tramontana,
     Selvazzan, Saccolungo e Cervarese,
     240Saletto e Praia, e tutto quel paese.

XXX.


Ma di Teolo la famosa insegna
     Fra l’altre a grand’onor splender si vede;
     Teolo8 ond’uscì già l’anima degna
     244Che ’l glorioso Livio al mondo diede.
     Lo stendardo vermiglio Aicardo segna
     Di tre spade d’argento: e in guisa eccede
     Ogni altro coll’altezza delle membra,
     248Ch’eccelsa torre in umil borgo ei sembra.

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XXXI.


Vien poi Monselce9 incontra l’armi e i sacchi,
     Securo già per frode e per battaglia,
     Sotto la signoria d’Alviero Zacchi;
     252E ’l popol di Casale e di Roncaglia.
     Ha l’insegna costui dipinta a scacchi
     Azzurri e bianchi; e Gorgo e Bertepaglia
     E Corneggiana e Montericco ha drieto
     256E Carrara e Collalta Carpineto.

XXXII.


Il nono duce Ugon di Santuliana
     Delle vicine ville avea la cura.
     Terranegra conduce, e Brusegana10
     260Dove Antenore fe’ le prime mura,
     Villafranca, Mortise e Candíana,
     San Gregorio, Sant’Orsola e Cartura,
     Le Tombelle, Noventa e Villatora,
     264Ed altre terre che fioriano allora;

XXXIII.


E de’ vassalli suoi non poca parte,
     Che Pernumia e Terralba ei signoreggia,
     E ’l bel colle d’Arquà poco in disparte,
     268Che quinci il monte, e quindi il pian vagheggia;
     Dove giace colui, nelle cui carte
     L’alma fronda del Sol lieta verdeggia;
     E dove la sua gatta in secca spoglia
     272Guarda dai topi ancor la dotta soglia.11

XXXIV.


A questa Apollo già fe’ privilegi,
     Che rimanesse incontro al tempo intatta,
     E che la fama sua con vari fregi
     276Eterna fosse in mille carmi fatta:
     Onde i sepolcri de’ superbi regi
     Vince di gloria un’insepolta gatta.
     Ugon sull’armi e nella sopravveste
     280Un pardo d’oro, e ’l campo avea celeste.

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XXXV.


La squadra di Vicenza ultima guida
     Nimiero Gualdi, alla sembianza fuore,
     Amico d’Ezzelin che se ne fida;
     284Ma non risponde alla sembianza il core:
     Quel campo non avea scorta più fida:
     D’ogni bellica frode era inventore;
     Ma facea ’l goffo, e si tenea col papa,
     288E nella finta insegna avea una rapa.

XXXVI.


Egli era un uom d’anni cinquantadui,
     Dotto e faceto, e colle guance asciutte;
     Solito sempre a dar la baia altrui,
     292Che sapea tutti i motti di Margutte.12
     Gran turba di villani avea con lui
     Con occhi stralunati e cere brutte,
     Ch’armati di balestre e ronche e scale,
     296Nati apposta parean per far del male.

XXXVII.


Valmarana, Arcugnan, Pilla e Fimone,
     Sacco e Spianzana guida, ove le chiome
     Della Betia cantò sul Bacchiglione
     300Begotto,13 e ’l volto e l’acerbette pome;
     E dove la sampogna di Menone
     Fe’ risonar della Tietta il nome;
     E Montecchio e la Gualda, Olmo e Cornetto,
     304E trenta ville e più di quel distretto.

XXXVIII.


Dopo l’ultime squadre il cavaliero
     Che dovea comandar, solo veniva
     Sovra un baio corsier macchiato a nero,
     308Con armi di color di fiamma viva.
     Ondeggiava sull’elmo il gran cimiero;
     Pompeggiando il caval se stesso giva.
     E avea dietro e dinanzi e d’ambo i lati
     312Greci per guardia e Saracini armati.

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XXXIX.


Mentre s’armano questi alla vendetta
     Del famoso figliuol di Federico,
     L’un campo e l’altro sul Panaro aspetta
     316Che stanco si ritiri il suo nemico.
     Quinci e quindi si veglia; e alla vendetta
     Stanno continue guardie, all’uso antico,
     Con archi e balestroni accanto agli argini,
     320Che scopano del fiume i nudi margini.

XL.


L’architetto maggior mastro Pasquino
     Fe’ molte botti empier di maccheroni,
     Altre di biscottelli, altre di vino;
     324E ne formò ripari e bastìoni:
     Onde i soldati sempre a capo chino
     Stavano a custodir le guarnigioni;
     Finch’a trattar del fin delle contese
     328Furon per dieci dì l’armi sospese.

XLI.


Ed ecco comparir due ambasciatori;
     L’un con la veste lunga e incappucciato,
     E l’altro in sulle grazie e in sugli amori,
     332Con la spada e ’l pugnal tutto attillato.
     Il primo è del Collegio e de’ Signori,
     E ’l dottor Marescotti è nominato:
     Il secondo, di Rodi è cavaliero,14
     336Di Casa Barzellin, detto fra Piero.

XLII.


Questi venian per ritentar se v’era
     Partito alcun di racquistar la Secchia,
     Avendo udito già per cosa vera,
     340Che ’l tiranno Ezzelin l’armi apparecchia.
     Furo onorati, e si fermar la sera:
     Nè trattar più della proposta vecchia;
     Ma di cambiar la Secchia in que’ baroni,
     344Eccetto il re, ch’essi tenean prigioni.

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XLIII.


Il Potta che ’l disegno a’ cenni intese,
     Rispose lor ch’era miglior riguardo
     Finir tutte le liti e le contese,
     348E barattar la Secchia col Re sardo,
     E ’l Duca di Cremona e ’l Gorzanese
     Col Signor di Faenza e con Ricciardo:
     E in questo si mostrò sì risoluto,
     352Che d’ogni altro parlar fece rifiuto.

XLIV.


Gli ambasciatori a’ quali era prescritto
     Quanto dovean trattar, spediro un messo
     Ch’andò dal campo alla città diritto
     356A ragguagliarne il Reggimento stesso:
     E intanto il figlio di Rangone invitto,
     E ’l buon Manfredi, a cui fu ciò commesso,
     Condussero a veder le lor trinciere
     360Gli ambasciatori, e l’ordinate schiere.

XLV.


Menargli a spasso poi, dove alloggiate
     Renoppia le sue donne avea in disparte,
     Non quelle tutte che con lei passate
     364Erano pria, ma la più nobil parte.
     Stavano a’ lor ricami intente armate,
     Imitando Minerva in ogni parte:
     Ma lasciar gli aghi, e fer venir intanto
     368Il cieco Scarpinel con l’arpa e ’l canto.

XLVI.


Questi in diverse lingue era eloquente
     E sapeva in ciascuna all’improvviso
     Compor versi, e cantar sì dolcemente,
     372Ch’avrebbe un cor di Faraon conquiso.
     L’arpa al canto accordò subitamente;
     E poichè fu d’intorno ognuno assiso,
     Col moto della man ceffi alternando,
     376Incominciò così tenoreggiando:

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XLVII.


Dormiva Endimíon tra l’erbe e i fiori,
     Stanco dal faticar del lungo giorno:
     E mentre l’aura e ’l ciel gli estivi ardori
     380Gli gían temprando, e amoreggiando intorno;
     Quivi discesi i pargoletti Amori
     Gli avean discinta la faretra e ’l corno;
     Ch’ai chiusi lumi e allo splendor del viso
     384Fu loro di veder Cupido avviso.

XLVIII.


Sventolando il bel crine all’aura sciolto,
     Ricadea sulle guancie in nembo d’oro:
     V’accorrean gli Amoretti, e dal bel volto
     388Quinci e quindi il partian colle man loro,
     E de’ fiori onde intorno avean raccolto
     Pieno il grembo, tessean vago lavoro,
     Alla fronte ghirlanda, al piè gentile
     392E alle braccia catene, e al sen monile:

XLIX.


E talor pareggiando all’amorosa
     Bocca o peonia o anemone vermiglio,
     E alla pulita guancia o giglio o rosa,
     396La peonia perdea, la rosa e ’l giglio.
     Taceano il vento e l’onda, e dall’erbosa
     Piaggia non si sentia mover bisbiglio.
     L’aria, l’acqua e la terra in varie forme
     400Parean, tacendo, dire: Ecco, Amor dorme.

L.


Qual ne’ celesti campi ove il gran Toro
     S’infiamma ai rai di luminose stelle,
     Sogliono sfavillar con chioma d’oro
     404Le Figliuole d’Atlante, alme sorelle;
     Ch’alla maggiore e più gentil di loro
     Brillando intorno stan l’altre men belle:
     Tal in mezzo agli Amori Endimìone
     408Parea tra l’erbe e i fior della stagione.

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LI.


Quando la bella Dea del primo cielo,
     Tutta cinta de’ rai del morto sole,
     Alla scena del mondo aprendo il velo,
     412Le campagne mirò tacite e sole:
     E sparsa la rugiada, e scosso il gielo
     Dal lembo sovra l’erbe e le viole,
     A caso il guardo in quella piaggia stese;
     416E vaga di veder, dal ciel discese.

LII.


Sparvero i pargoletti all’apparire
     Della Dea spaventati; ed ella, quando
     Vide il giovane sol quivi dormire,
     420Ritenne il passo, e si fermò guardando.
     L’onestà virginal frenò l’ardire;
     E negli atti sospesa, e vergognando,
     Avea già per tornare il piè rivolto;
     424Ma richiamata fu da quel bel volto.

LIII.


Sentì per gli occhi al cor passarsi un foco
     Che d’un dolce desío l’alma conquise.
     Givasi avvicinando a poco a poco,
     428Tanto ch’al fianco del garzon s’assise;
     E di que’ vaghi fior ch’avean per gioco
     Gli Amoretti intrecciati in mille guise,
     S’incoronò la fronte, e adornò il seno;
     432Che tutti fur per lei fiamma e veleno.

LIV.


Trassero i fior la man, la mano i baci
     Alle guance, alle labbra, agli occhi, al petto,
     Che s’impresser sì vivi e sì tenaci,
     436Che si destò smarrito il giovinetto.
     Al folgorar delle divine faci
     Tutto tremò di riverente affetto;
     E ad atterrarsi già ratto surgea,
     440S’ella non l’abbracciava e nol tenea.

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LV.


Anima bella, disse, e dormigliosa,
     Che paventi? che miri? I’ son la Luna
     Ch’a dormir teco in questa piaggia erbosa,
     444Amor, necessità guida, e fortuna.
     Tu non ti conturbar: siedi e riposa;
     E nel silenzio della notte bruna
     Pensa occultar l’ardor ch’io ti rivelo,
     448O di sperimentar l’ira del cielo.

LVI.


O pupilla del mondo, in cui la face
     Del sol s’impronta, pastorello indegno
     Son io, disse il garzon: ma se ti piace
     452Trarmi per grazia fuor del mortal segno,
     Vivi sicura di mia fè verace;
     E questo bianco vel te ne sia pegno,
     Ch’a mia madre Calice Etlio già diede,
     456Mio padre, in segno anch’ei della sua fede.

LVII.


Così dicendo, un vel candido schietto
     Che di gigli di perle era fregiato,
     E ’l tergo in un gli circondava e ’l petto
     460Giù dalla spalla destra al manco lato,
     Porse in dono alla Dea ch’ogni rispetto
     Già spinto avea del cor tutto infiammato;
     E come fior che langue allor ch’agghiaccia,
     464Si lasciava cader nelle sue braccia.

LVIII.


Vite così non tien legato e stretto
     L’infecondo marito olmo ramoso,
     Nè con sì forte e sì tenace affetto
     468Strigne l’edera torta il pino ombroso;
     Come strigneansi l’uno all’altro petto
     Gli amanti accesi di desio amoroso.
     Saettavan le lingue intanto il core
     472Di dolci punte che temprava Amore.

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LIX.


Così mentre vezzosi atti e parole,
     Guardi, baci, sospiri e abbracciamenti
     Facean dolcezze inusitate e sole
     476Agli amanti gustar lieti e contenti,
     Levò la Diva l’uno e l’altro sole,
     Accusando le stelle e gli elementi
     Poichè con tanti e con sì lunghi errori
     480Seguite avea le fiere, e non gli amori.

LX.


Misera me, dicea! quant’error presi
     Quel dì ch’io presi l’arco, e ’n bosco entrai!
     Quant’anni poscia ho consumati e spesi,
     484Che di ricoverar non spero mai!
     O passi erranti e vani e male intesi,
     Come al vento vi sparsi e vi gettai!
     Quant’era meglio questi frutti corre,
     488Ch’a rischio il piè dietro alle belve porre!

LXI.


Or conosco il mio fallo; e farne ammenda
     Vorrei poter, ma ’l ciel non mel consente:
     Restami sol, che del futuro i’ prenda
     492Pensier, di cui mai più non sia dolente.
     Però l’aria, la terra e ’l mare intenda
     Quel che di terminar già fisso ho in mente;
     E la legge ch’io fo, duri col sole
     496Sovra me stessa e la femminea prole.

LXII.


Io stabilisco che non copra il cielo
     Ch’io governo, mai più femmina bella
     (Eccetto alcune poche ch’io mi celo,
     500Che fien di me maggiori e d’ogni stella)
     Che sopporti con casto e puro zelo
     Finir la vita sua, d’Amor ribella;
     E che stia intatta di sì dolce affetto,
     504Se non mentitamente, o al suo dispetto.

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LXIII.


Volea l’orbo seguir, come dolente
     Tornò la Diva alla sua bella sfera;
     Se non che lo mirò di sdegno ardente
     508Renoppia, e in voce minacciosa e altera:
     Accecato degli occhi e della mente,
     Brutta effigie gli disse, anima nera,
     Va’ canta alle puttane infami e sciocche
     512Queste tue vergognose filastrocche.

LXIV.


E se vuoi ch’io t’ascolti e che il tuo canto
     Ritrovi adito più per queste porte,
     Cantami di Zenobia il pregio e ’l vanto,
     516O di Lucrezia l’onorata morte.
     Il cieco allor stette sospeso alquanto;
     Poscia in tuono di guerra assai più forte,
     L’amor di Sesto e gli empi spirti ardenti
     520Incominciò a cantar con questi accenti:

LXV.


Il re superbo de’ romani eroi
     Alla regia di Turno il campo avea;
     E con fanti e cavalli e servi e buoi
     524Di trinciere e di fosse ei la cingea.
     Eran con lui tutti i figliuoli suoi;
     E quivi si mangiava e si bevea
     Con gusto tal, che ’l dì di san Martino
     528Bebbero in sette un caratel di vino.

LXVI.


Finito il vin, nacque fra lor contesa,
     Chi avesse moglie più pudica allato:
     E perch’ognun volea per la difesa
     532Combatter della sua, nello steccato;
     Per diffinir la strana lite accesa,
     Di consenso comun fu terminato
     Di montar sulle poste allora allora,
     536E andarsene a chiarir senza dimora.

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LXVII.


Non s’usavano allor staffe nè selle;
     E quei signor con tanto vino in testa
     Correndo a lume di minute stelle,
     540Ebbero a rimaner per la foresta.
     Chi perdè il valigino e le pianelle,
     Chi stracciò per le fratte la pretesta,
     Chi rese il vino per diversi spilli,
     544E chi arrivò facendo billi billi.

LXVIII.


Era con lor Tarquinio Collatino
     Che la moglie Lucrezia avea a Collazia.
     Ei non era fratel, ma consobrino,
     548E lor parente di cognome e grazia.
     Tutti in corte smontar sul Palatino;
     E le mogli trovar, per lor disgrazia,
     Che foco in culo avean più ch’un Lucifero,
     552E stavano ballando a suon di pifero.

LXIX.


Fecero una moresca a mostaccioni,
     La più gentil che mai s’udisse in corte.
     E trovate al cammin starne e capponi,
     556Verso Collazia ne portar due sporte.
     Giunti colà, di spranghe e di stangoni
     D’ogni parte trovar chiuse le porte;
     E bussaron più volte all’aer bruno,
     560Prima che desse lor risposta alcuno.

LXX.


Una schiavetta alfine in capo a un’ora
     Affacciatasi a certe balestriere,
     E spinto un muso di lucerta fuora,
     564Disse: Chi bussa là? Non c’è Messere.
     C’è pur, rispose il Collatino allora;
     Venite abbasso, e vel farem vedere.
     Riconobbero i servi a quelle voci
     568Il padrone, e ad aprir corser veloci.

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LXXI.


Lucrezia venne in sala ad incontrarlo
     Con la conocchia, senza servidori.
     Tutta lieta venia per abbracciarlo:
     572Ma vedendo con lui tanti signori,
     Trasse il pennecchio, che volea occultarlo,
     E dipinse il bel volto in que’ colori
     Ch’abbelliscon la rosa; e fe’ chiamare
     576Le donne sue che stavano a filare.

LXXII.


Di consenso comun la regia prole
     Diede il vanto a costei di pudicizia.
     Dormiron quivi; e allo spuntar del sole
     580Ritornarono al campo e alla milizia.
     Ma la bella sembianza e le parole
     Rimasero nel cor pien di nequizia
     Del fiero Sesto, un de’ fratelli regi,
     584E le caste maniere e gli atti egregi.

LXXIII.


Onde il dì quinto, ripassando il monte,
     Tornò a Collazia, sol, là dov’ell’era;
     E giunto all’imbrunir dell’orizzonte,
     588Disse ch’ivi alloggiar volea la sera.
     La bella donna, non pensando all’onte
     Ch’ei preparava, gli fe’ lieta cera.
     La notte il traditor saltò del letto,
     592E alla camera sua corse in farsetto:

LXXIV.


E la porta gittò mezzo spezzata,
     Entrando col pugnal nella man destra.
     Quivi una vecchia che dormia corcata
     596In un letto di vinco e di ginestra,
     Incominciò a gridar da spiritata:
     Ond’ei la fe’ balzar per la finestra;
     Ed a Lucrezia che facea schiamazzo,
     600Disse: Mettiti giuso, o ch’io t’ammazzo.

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LXXV.


A questo dir chinò Renoppia bella
     Prestamente la man con leggiadria,
     E si trasse di piede una pianella:
     604Ma l’orbo fu avvisato, e fuggì via.
     S’alzaron que’ signor ridendo; ed ella
     Gli ringraziò di tanta cortesia,
     E con maniera signorile e accorta
     608Gli andò ad accompagnar fino alla porta.

Note

  1. [p. 276 modifica]Chiama ciurmatori i filosofi e astronomi greci, che persuasero al popolo, che ogni pianeta avesse un cielo da se, e che i cieli inferiori fossero rapiti dall’ottava sfera da oriente in occidente. Perciocchè il Poeta fu Sceptico, e tenne che particolarmente le cose de’ cieli, quanto a noi, consistessero tutte in opinione e probabilità. E ne portò egli ancora una nuova nel terzo libro de’ suoi Pensieri. Salviani.
  2. [p. 276 modifica]La Torre degli Asinelli di Bologna, così denominata da un certo Gherardo Asinelli che la fece edificare.
  3. [p. 276 modifica]Parla di Pietro d’Abano, che, come sa ognuno, tenuto fu per mago. Ma fiorì in altri tempi. Però vuol dire il Poeta, che se allora fosse stato quivi, avrebbe armata qualche compagnia di demoni in favore de’ Modenesi. Salviani.
  4. [p. 276 modifica]Nella sopraccitata lettera del Poeta al Canonico Barisoni dei 16 di Gennaio si leggono gli ultimi due versi di questa ottava nella seguente maniera:

    Quivi il gran Mago Pier sussurrò carmi,
    E trasse i morti regni al suon dell’armi.


    E poi si trova soggiunto: I Canti dovevano essere dodici, e si doveva introdurre Pietro d’Abano a condurre diavoli in favore de’ Modenesi; ma Monsignore Querenghi mi ha messa tanta fretta, che mi ha fatto finire alli dieci Canti. Però diremo così:

    Se v’era Pietro allor, co’ fieri carmi
    Traeva i morti regni al suon dell’armi.

    [p. 277 modifica]Ma cessata la fretta, si contentò di questa correzione, e lasciò per questa volta gli anacronismi tanto a lui famigliari. Barotti.
  5. [p. 277 modifica]Alla Battaglia terra del Padovano s’incontrano e riuniscono i due rami del Bacchiglione, che lontano da Vicenza sei miglia s’erano divisi, ed ivi da alto con romore cadendo prendono un correr veloce verso il porto di Chioggia, dove hanno lo sbocco.
  6. [p. 277 modifica]La Donna di Cipada è Mantova, illustrata da’ versi di Virgilio, come Cipada da quei di Merlino.
  7. [p. 277 modifica]In quelle parti quando si vuol significare qualche aiuto fuora di tempo e tardo, si dice: il soccorso di Paluello; come in Toscana e da noi: il soccorso di Pisa. Salviani.
  8. [p. 277 modifica]L’Autore delle Note all’Asino, poemetto del Dottori, reca l’opinione di alcuni che asseriscono, che Tito Livio nascesse in Teolo. Il Tassoni però parla qui non di Livio, ma de’ genitori di lui. La più fondata opinione è nondimeno che Livio fosse da Abano, siccome afferma Marziale, che visse in Roma vicino a que’ tempi. l. i. ep. 62.
  9. [p. 277 modifica]E’ un castello Monselce, che, per detto del Portenari l. 2. c. 9., avanti che fossero trovate le artiglierie, era riputato inespugnabile, ed era la maggior fortezza della Marca Trivisana, e però Federigo II. imperadore maravigliatosi della fortezza grande di questo castello, lo elesse per camera speziale dell’imperio. Il Corio nella sua Istoria di Milano p. 3., dove fa memoria della sorpresa, che di Monselce fece Cane della Scala l’anno 1318, vi dice, che era sì bene situato quanto altro che fosse in Italia, e soggiunge, che il suo proprio vocabolo è Monte divite. Barotti.
  10. [p. 277 modifica]Dicesi, che Antenore salvatosi nella distruzione di Troia, e venuto in Italia, fondasse quivi la sua prima città, chiamata Urbs Euganea, e poi corrottamente detta Brusegana.
  11. [p. 277 modifica]Nella collina d’Arquà, o Arquada, dieci miglia sopra Padova, si ritirò Francesco Petrarca, e ivi morì nel 1374. La pelle della sua gatta fu fino a’ tempi nostri conservata.
  12. [p. 277 modifica]Margutte ci vien descritto dal Pulci nel Morgante per un uomo furbo e scellerato.
  13. [p. 277 modifica]Begotto e Menone, Poeti burleschi in lingua padovana.
  14. [p. 277 modifica]Anacronismo di sessant’un anno, mentre nel 1310 cominciarono ad essere detti Cavalieri di Rodi i Gerosolimitani, perchè appunto nel Settembre di quell’anno ricuperarono da’ Turchi quell’isola, e vi stabilirono la loro sede.