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146 CANTO


LXVII.


Non s’usavano allor staffe nè selle;
     E quei signor con tanto vino in testa
     Correndo a lume di minute stelle,
     540Ebbero a rimaner per la foresta.
     Chi perdè il valigino e le pianelle,
     Chi stracciò per le fratte la pretesta,
     Chi rese il vino per diversi spilli,
     544E chi arrivò facendo billi billi.

LXVIII.


Era con lor Tarquinio Collatino
     Che la moglie Lucrezia avea a Collazia.
     Ei non era fratel, ma consobrino,
     548E lor parente di cognome e grazia.
     Tutti in corte smontar sul Palatino;
     E le mogli trovar, per lor disgrazia,
     Che foco in culo avean più ch’un Lucifero,
     552E stavano ballando a suon di pifero.

LXIX.


Fecero una moresca a mostaccioni,
     La più gentil che mai s’udisse in corte.
     E trovate al cammin starne e capponi,
     556Verso Collazia ne portar due sporte.
     Giunti colà, di spranghe e di stangoni
     D’ogni parte trovar chiuse le porte;
     E bussaron più volte all’aer bruno,
     560Prima che desse lor risposta alcuno.

LXX.


Una schiavetta alfine in capo a un’ora
     Affacciatasi a certe balestriere,
     E spinto un muso di lucerta fuora,
     564Disse: Chi bussa là? Non c’è Messere.
     C’è pur, rispose il Collatino allora;
     Venite abbasso, e vel farem vedere.
     Riconobbero i servi a quelle voci
     568Il padrone, e ad aprir corser veloci.