La Riviera di San Giulio Orta e Gozzano/Capitolo II
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CAPITOLO II.
Congietture sui primitivi popoli della Riviera
Antiquam exquirite Matrem.Virg. En. 2.
I. Gli Etruschi furono i primi popoli da noi conosciuti, i quali signoreggiassero sulle italiche terre. Tuscorum ante romanum imperium late terra marique opes paluere, scrisse T. Livio lib. 3. Fra questi popoli comprendevansi gli Umbri, i Tirreni, gli Aborigeni, i Pelasgi, e gli Enotrii, popoli di solo nome diversi, ma che tutti assieme scampati dalle antiche catastrofi sui monti italici rifuggiaronsi, per guisa che gente pelasga, o pelarga, furono chiamati, cioè aborigene e vagante, e delle montane regioni conquistatrice. Da quale gente fossero stratte le dodici colonie che T. Livio poneva di qua dell’Appennino, e che si distesero per tutti i confini della Lombardia, dalla Venezia in fuori, non si potrebbe tosto asserire, se pure non deduciamo la loro origine da questa prima razza etrusca, comecchè gli Umbri, i Tirreni, i Pelasgi e gli Aborigeni in Umbria o in Tirrenia le loro principali sedi fissate avessero, o perchè ivi più forti, o perchè prima radicati.
II. Dissi dalla Venezia in fuori; conciossiachè narrato ci venga da T. Livio lib. i, che la Venezia con tale nome chiamossi da quegli Eneti, i quali cacciati di Paflagonia vennero con Antenore nel seno Adriatico; e Trojani ed Eneti insieme, sbanditi gli Euganei vecchi abitatori, vi fondarono una città, e tutti quei popoli furono chiamati Veneti. Eranvi adunque gli Euganei innanzichè i Trojani e gli Eneti vi pervenissero. Ma questi Euganei furono essi aborigeni e autoctoni, venuti cioè da quella terra che abitavano? Il Maffei ed il Gagliardi scrittori veneti nella disperazione di potere rintracciare fra l’oscurità degli antichi tempi i primi abitatori di quella regione vollero col pretesto del silenzio degli storici assegnare per primi questi popoli euganei. Ma pure T. Livio lib. 5 disse, che nominossi quel mare l’adriatico da Adria antica colonia de’ Toschi; ma pure il medesimo ci narra, che siccome Enea conquistò il regno nel Lazio debellando gli Umbri o Tirreni, così Antenore fondò tra i Veneti il suo sperperando gli Euganei, cioè Adriatici da Adria già colonia dei Tirreni. Adunque gli Etruschi erano colà innanzichè Antenore co' suoi vi fissasse le sue sedi; e perciò dagli antichi Etruschi, che pure erano Tirreni, sfratti furono anche i popoli euganei. Questo nome dai più antichi storici greci dato agli Adriatici (e vuole significare secondo Plinio lib. 3, cap. 20 , Nobili, prœstantesquie genere Euganeos inde tracto nomine) fu da Virgilio, Eneid. lib. 1, bazzarato in quello di Liburni, siccome Liburnia fu chiamata la Venezia Istria, dove abitavano i Veneti, Japidi, Carni, Istri e Liburni. Fra gli Euganei fondò Antenore la città di Padova , cui Servio esatto commentatore di Virgilio disse posta nell'Illiria, e fu così chiamata perchè infra le paludi fosse, o perchè non molto discosto le scorresse il Po, che allora Pado si chiamava. Mantova, che anche ai tempi di Plinio, lib. 3, era scorta quale durevole avanzo del dominio etrusco, si vuole fondata da Onco figliuolo di Tiberino e di Manto, di cui Virgilio scrisse, En. lib. 10:
Matrisque dedit tibi Mantua nomen;
e similmente Bologna, detta dapprima Felsina, secondochè narrò Plinio, ambedue città etrusche. Qualunque poi sia la antichità delle altre città dell'Insubria , le quali anteriori certamente alla fondazione di Roma , voglionsi di duecento anni posteriori all'eccidio di Troja , certo è che molte e ragguardevoli erano tenute dagli Etruschi, innanzichè dai Galli fossero soggiogate. Tali erano Cremona, Brescia, Verona ( che si vuole da Giustino fondata dai Galli, o Cenomani, ma forse questi la avranno soltanto o ampliata, o abbellita ), ed altre città, che con generali parole si dissero da Polibio e da T. Livio conquistate dai Galli sopra gli Etruschi.
III. Antica colonia Etrusca furono anche i Liguri, dei quali racconta Dionisio nel primo libro delle romane antichità la moltitudine, lo spirito guerresco, e la dimora sulle alpi, gente eroica, la quale attentatasi colle armi alla mano di contendere l' ingresso in Italia ad Ercole, meritò una immortale ricordanza nei divini carmi di Eschilo e di Sofocle. Furono questi confusi da Filisto Siracusano presso Dionisio lib. 1, coi Siculi del Lazio, e Liguri secondo lui furono quelli che trasmigrarono in Sicilia. I poeti scrivendo di questi popoli dissero cose strane e contigiate di favole. Li vediamo da Strabone chiamati Ambroni, e narra che anche a' tempi suoi gli abitanti della Liguria promiscuamente chiamavansi Umbri, Toschi, Veneti, Insubri e Liguri1, i quali non solamente estendevansi dai monti della Savoja fino al mare ligustico, ma giungevano fino a Lucca e Pisa, anzi al dire di Silio Italico fino a Perugia; argomento certo, che anch' essi Umbri o Toschi fossero stati. Di origine ligustica, o come scrisse Plinio lib. 3, cap. 17, antiqua Ligurum stirpe, furono anche i popoli Taurini fissati sulla sinistra del Po coi loro clienti, i quali occupavano l'intiero Piemonte fino alle alpi Cozie, come pure i Levi Liguri intorno al Ticino, i quali furono detti antica gente da T. Livio, lib. 5. Questi ultimi fabbricarono Novara; e ciò diciamo, perchè la testimonianza di Catone anteriore di oltre a duecento anni a Plinio, il quale la vuole invece fondata dai Vertacomari Voconzi, maggior fede meritare si debba2. Nè d'ultra differente schiatta voglionsi estimare gli Insubri, che in seguito rinvennersi sulle terre inaffiate dal Ticino, e che furono poi confusi e misti coi Galli, gli Inganni di Albenga, gli Apuani di Val di Magra, le dodici tribù dei Cozii, i Salassi della Dora Baltea gli Allobrogi di Savoja, i Marici e gli Statellati fra il Tanaro e l'Orba i Libui o Lebeci di Vercelli o della Sesia, i quali eressero in tempi posteriori la loro Metrocomia in Burgolavezzaro, i Leponzii dell’Ossola colla capitale e Metrocomia in Domo, e gli Agoni, o Agognati del Novarese e della Lomellina, fra i quali comprendevansi i popoli della nostra Riviera. Laonde non mi parrà temerario ardimento, se ricuso la opinione di Antonio Gallenga, il quale nella sua istoria testè pubblicata del Piemonte afferma mancare le prove, che i Liguri abbiano mai subita la influenza etrusca, come anche quella di Niebuhr da lui citato, il quale scrisse, che i Taurini, i Salassi, ed altri popoli furono liguri, ed i popoli a’ piedi del Gottardo etruschi. A me basta la testimonianza di Strabone, lib. 5, dal quale trovo scritto, che i Toschi venuti a oste con quelle barbare genti del Po, si azzuffarono con esso loro, e rimasero vincitori ...di poi contendendo per la signoria di que’ luoghi, molte colonie vi fissarono parte di Toschi e parte di Umbri. Plutarco in Mario chiamò i Liguri Ambroni, quasichè volesse dire Umbroni; il che indica la primitiva loro schiatta: che anzi Strabone non solamente usurpò la stessa denominazione, ma disse davantaggio, che non pure Umbri e Toschi erano chiamati, ma ben anco Veneti, Insubri e Liguri. Nessun dubbio, per vero dire, deve ingenerarci la dissomiglianza dei nomi di quei popoli antichi, se consideriamo, che nelle varie vicende di emigrazioni e di conquiste un medesimo popolo mutava bene spesso di territorio, di alleanza, ed anche di nome.
IV. Anzichè Roma avesse signoria ed imperio su questi popoli, Porsena re Etrusco aveva li suoi confini, ossiano colonne del regno, non solamente fino alla città di Adria sul golfo di Venezia, ma eziandio in Lombardia di là dal fiume Po e Ticino, regnando in Roma Tarquinio Prisco. In questo tempo, che corrispondeva alla xlv olimpiade, da Roma edificata l’anno 153, e avanti l’era cristiana anni 600, Ambigato re de’ Celti, i quali erano la terza parte dei popoli della Gallia, non avendo di che nutricare quella sterminata moltitudine, diede in sorte al nipote suo Belloveso la conquista d’Italia, lasciando a Segoveso altro nipote di varcare il Reno, e d’innoltrarsi per le selve Ercinie nei paesi germanici. Belloveso con uno sciame di trecentomila non combattenti ma famelici predoni Biturigi, Arverni, Senoni, Edui, Arbarri, Carnuti ed Alverci, tutti di razza celtica posti fra la Garonna e la Senna, superò i monti taurini, e si ridusse al piano sottostante occupandolo cogli accampamenti fino al fiume Ticino. Gli Etruschi sorpresi da quel nembo di barbari si raccolsero nei minacciati luoghi dell’Insubria, avvegnachè le subalpine pianure fossero già da quelli soggiogate e invase; e conoscendo che non della gloria delle loro armi, ma della salvezza della patria disputare si doveva, non lungi dal fiume Ticino schierarono il loro esercito, e si posero a contrastare ai Galli il possesso dell’Italiana terra. Ma era fisso dai fati che con questa invasione di barbari incominciassero le secolari sciagure d’Italia; e là appunto contro gli stranieri si cimentassero i nazionali eserciti, dove tanto tempo dopo Galli ed Italiani insieme alleati avrebbero riconquistato all’Italia la sua signoria e fatto cessare da lei ogni straniera dominazione. Ma gli Etruschi per lunga pace tranquilli e sicuri, e dalla mollezza e dal lusso imbolsiti e affranti, degenerarono dall’antica virtù, e non valsero a tenere la puntaglia a quella gente per natura feroce, e per fame disperata: si combattè con molta strage e molto sangue da ambe le parti, ma il maggior numero prevalse all’arte ed alla disciplina etrusca, e l’esercito Gallo resosi padrone delle pianure fra il Ticino e l’Adda, cacciò gli antichi abitatori, e nelle loro sedi fissò la sua dimora. Quivi, per quanto raccolse da antica tradizione T. Livio lib. 5, cap. 19, i Galli conquistatori avendo udito che il paese, in cui si erano fermati, si chiamava degli Insubri, nome pure di una borgata degli Edui, cogliendo augurio dal luogo, fabbricarono una città, e le diedero il nome di Milano. Aperta così la barriera delle alpi, e corsa la fama della fatal bellezza e fertilità dell’Italia, nuove generazioni di stranieri le si rovesciarono in grembo a straziarla.
«L’almo liquore, che già a’ Celti e Boi
«Fè passar l’alpi, e non sentir l’affanno
Ariosto, c. 41, st. 2,
fu causa, che Elitovio duce dei Galli Cenomani, o dei Germani, come chiamolli T. Livio, lasciate le foreste del paese di Maine, sforzasse l’entrata dalle alpi taurine, e col soccorso di Belloveso, messi in rotta e in fuga i Liguri transpadani sparsi dalle alpi retiche alle taurine, si impossessasse delle fertili campagne di Brescia e di Verona lunghesso le sponde dell’Adige. Ai Cenomani tennero dietro i Salluvii coi Vertecomicori Voconzii, e si posero intorno al Ticino, dove erano prima i Levi Liguri, poi i Boi e Lingoni scesi dal S. Bernardo cogli Anani; e finalmente i Senoni, i quali cacciati che ebbero dal paese natale i Toscani e gli Umbri, si distesero padroni di tutta la regione verso il centro d’Italia dall’Utente, oggi Montone, fino all’Elsi.
V. Per queste invasioni barbariche, le quali si succedettero nello spazio di oltre a duecento anni, sospettarono alcuni storici, e fra questi porrò il Canonico Sottile 3, che una razza Celtica abbia sparso il mal seme della popolazione prima di queste montagne; potendo anche essere avvenuto che gli avanzi delle armate di quei fieri Galli, i quali tante volte furono vincitori e tante volte vinti, fuggendo l’inimico, e cercando un asilo alla loro libertà minacciata, avessero fra le selve impenetrabili, o fra monti inaccessibili rinvenuto alle loro esuli famiglie una nuova patria. E per verità gli antichi romani storici e geografi chiama vano la regione al di qua delle Alpi Gallia Cisalpina non per altro, se non perché genti Galliche la tenessero e la dominassero, ed un barbaro idioma Celtico o Gallo era parlato dagli antichi abitatori, il cui suono sgradevole anche oggidì ferisce l’orecchio assuefatto alla cara melodia dell’italiana favella. Ma io non nego che fosse l’alta Italia stata interamente conquistata dai Galli, Celli, Cenomani ed Edui, e che usando questi della conquista abbiano fatto pesare sui vinti il giogo della barbara loro tirannide. E appunto perciò io penso, che parte degli antichi abitatori anteponendo l’esiglio alla schiavitù si siano portati fra questi monti, che loro offerivano un sicuro asilo, ed un riparo inespugnabile contro un vincitor feroce. Gli Storici Romani poi imprendendo a narrare le gloriose conquiste, sui nemici di Roma registravano piuttosto il nome dei debellati eserciti, che quello della gente indigena. Ciò aveva saggiamente avvertito anche il Ven. nostro Vescovo Carlo Bescapè nella sua Novara Sacra pag. 200 scrivendo, che questa porzione d’Italia prima della guerra Gallica appena era dai Romani conosciuta; Cacciati poi i Galli chiamaronla Gallia cisalpina, non si curando degli antichi nomi, e ricordando solamente quei popoli co’ quali ebbero guerra, come i Salassi. Non fia dunque meraviglia, se ignari forse della prima popolazione di questa terra,
»Che Appennin parte, il mar circonda e l’alpe»
abbianla gli scrittori ed i geografi romani chiamata Gallia Cisalpina, sebbene dapprima tutta fosse gente etrusca 4. E come no, se furonvi in queste parti città murate, le quali hanno potuto attutare, come fece Mantova, l’impeto rovinoso dei Galli, e tenere in sospeso per due secoli la bilancia della fortuna fra i due popoli combattenti? Dunque queste Città formavano la gloria del popolo etrusco, innanzichè i Galli sdegnando i recinti di mura, quali monumenti di schiavitù, e rifugio dei deboli, tenessero le loro abitazioni sparse nell’aperta campagna, o lunghesso le correnti de’ fiumi. Lieve argomento è quello eziandio che si trae dal barbaro idioma parlato in alcuni luoghi più remoti e limitrofi ad altre nazioni. Fossero anche in maggior numero i paesi, nei quali questa ingrata favella ripudia un’italiana origine, non basteranno giammai a chiarire un’origine gallica o celtica della popolazione che prima abitò in queste nostre terre: quel dialetto oltrecchè non ha un vocabolario comune in tutti questi paesi, dove il sì non suona, è anche siffattamente diverso da non lo intendere un paese coll’altro. Da quale famiglia straniera sia stato recato in Italia non è facile lo indagare. Il Bescapè, pag. 148, parlando di Alagna asserisce di avere colà veduto un monumento scritto, dai quale si rilevava che un certo Enrico Staufacher germanico venuto dapprima nel Vallese siasi quindi portato all’estremità di questa valle, e quivi edificato avesse quel piccolo paese. Il Canonico Sottile sull’autorità di Gaudenzio Merula opina che dai Cimbri siano state queste vette popolate, benchè non ad un tratto, ma successivamente, e commisti coi Galli, o preceduti da questi, inclinando egli a credere che il linguaggio di Rima, Rimella ed Alagna fosse quello dogli antichi Galli, o Celli. Il nostro Cotta 5parlando degli antichi abitanti di Ornavasso, i quali usavano di un linguaggio teutonico, li vuole stratti dai Sionesi, i quali abitavano nelle regioni da noi disgiunte col S. Gotardo, chiamato dagli antichi monte Adula, e rifiuta le puerili congetture di Egidio Tschudi, e le asserzioni di coloro i quali pretesero derivarli dai soldati di Ottone I, qui per imperiale permissione stanziati dopo aver combattuto Villa Regina nell’Isola di S. Giulio nel 962. Ma qui si giuoca a vanvera, nel bujo, e per quante si fingano ipotesi non si potrà veder lume, o scoprire la verità 6. Certo è però che la popolazione delle vaste pianure dell’Insubria usò costantemente del patrio linguaggio, che era l’antico tosco, e poscia quello di Roma7; nè potettero mai i barbari venuti dalle teutoniche foreste imporle colla schiavitù e collo strano loro parlare l’oblio della patria favella, essendo la lingua uno dei più forti vincoli che stringa alla patria. Dirò anzi, che quelli istessi fra i nostri, i quali, distrutte dal nemico le loro cittadi, furono cacciati da ogni parte, e tentarono la via de’ monti, lasciarono nelle nuove sedi i vestigi della antica origine. Reto condottiero dei profughi Etruschi portò in un alpestre e selvaggio paese quegli infelici avanzi del ferro nemico, formandosi una nuova patria nella Rezia, oggi Cantone dei Grigioni a’ piedi delle alpi Giulie, che separano la Germania dalla Gallia Cisalpina, e dal nome di lui (come notarono Plinio, e Giustino) ebbe origine quello delle alpi retiche. Altri fra gli Insubri tagliati e feriti dalla gente gallica, iscampati di morte dalle battaglie, tutto che’ fossero pochi, si ridussero per le circostanti sommità delle alpi, e quivi con vili abituri furono i primi a stanziare per guarire di loro piaghe. Da ciò l’origine di quei piccoli villaggi posti sullo spalle dei monti, o nei seni delle vallate, che chiudevano di fossi e di steccati a modo di battifolle, ovvero bastita, l’orrore dei quali avrebbe qualunque uomo respinto, se obbligato non lo avesse la propria difesa. Eppure quivi, sebbene efferrati dagli aspri gioghi, come scrisse T. Livio lib. 5, serbarono fino a’ tempi suoi le vestigia della losca favella: eppure a testimonianza di Egidio Tschudi (de prisca et vera alpina Rhetia, cap.3) molti luoghi della Rezia fino presso le fonti del Reno ritengono tuttora alquanti nomi, dai quali riscontrasi il significato di una origine toscana: e negli scavi operati nel 1815 sul Dos de Trento fra gli avanzi di un tempio forse dedicato a Mercurio fu rinvenuta una inscrizione antichissima in caratteri etruschi 8. VI. E qui per venire a nostra materia dirò, che non dai Galli (dai quali secondo gli scrittori romani si vollero discesi i primi abitanti dell’Insubria, detta perciò Gallia Cisalpina), ma dagli antichi Etruschi furono originati i primi popoli della Riviera, o meglio da Levi Liguri o dagli Insubri discesi dagli Etruschi, i quali pure appartenevano all’antica schiatta italica. Alcuni di questi scostandosi dalle pianure del Piemonte e della Lombardia, e trasmigrando nei monti dell’Elvezia, in questi luoghi incominciarono a soffermarsi, non parendomi verosimile che quelle tribù nomadi ed avventuriere abbandonassero la facile ed utile dimora nella Riviera per rintracciarne una incerta e disagiata sulla asprezza delle circostanti montagne. E per verità sino ai gioghi del Sempione le alpi furono occupate da gente ligure, e tutto il Piemonte fino all’Ossola era ligustico. Oltre il Sempione altre tribù erano qua e la sparse sulle alpi, i Leponzii, i Camuni, gli Stoni, i quali pure discendevan dai Liguri: ma fra questi, i Subalpini e i Vallesani era frapposta un’altra schiatta Gallo-Insubre, o forse Semigermanica, dalla quale furono colonizzate quelle sommità e quelle innoltrate valli, dove un semigermanico idioma era parlato. T. Livio asserisce, che la valle Pennina, od il Vallese, fu popolata da gente semigermana. Non devesi però negare, che col tratto del tempo un innesto gallico siasi frapposto a queste popolazioni; essendochè il vincitore imponendo colla forza dell’armi una ferrea schiavitù, e mantenendosi nelle stesse stanze coi rapporti del commercio e della vita sociale in continua vicinanza, le avrà per poco coi suoi costumi e collo strano linguaggio infardate. Notò di questa cosa anche Pietro Verri nella sua Storia di Milano, dicendo che i popoli dell’Insubria erano notati per un linguaggio alquanto infranciosato, a dissomiglianza dei popoli dell’Italia centrale. Ma l’elemento prevalente fu quello di una schiatta Etrusca, la quale per mutare di tempi e di luoghi non potendo imbastardire (poiché le qualità naturali ed ingenite di un popolo discendono per li rami di padre in figlio), si mantenne colla sua genuina impronta ed a sè trasse anche lo straniero informandolo dei proprii usi e costumi, o imparentandolo nelle proprie famiglie.
VII. Se dobbiamo prestar fede alle tavole di Filippo Cluverio nella sua Italia Antica, vedremo essere stata la nostra Riviera compresa tra quei popoli, che chiamavansi Leponzii: la loro capitale e metrocomia fu Domo, per cui Domoscela dicevanla Iosia Simlero ed altri scrittori da lui citati, a cui sottostava, ed obbediva un largo giro di paese9. I Leponzii si congiungevano all’oriente cogli Euganei, che erano nei territori Veronese, Bresciano e Bergamasco; a mezzodì erano contermini gli Orobi, gli Insubri, Lebeci e Franchi coi distretti di Como, Milano, Novara e Vercelli; a ponente fiancheggiavano in parte i Salassi o Valdostani, e in parte i Sionesi che Vallesani si chiamano; ed a settentrione dividevansi dagli Svizzeri e dai Grigioni10. Il medesimo autore assegnando agli Insubri i confini aquilonari che sono meridionali ai Leponzii, soggiungeva: per confine si trae una linea dal lago Verbano e dal paese d’Angera all’infuori di Barlassina fino al lago Selino: verso l’occaso per la parte superiore del fiume Novara, ossia Gogna, i detti popoli si separavano dai Lebeci11. In questo circolo dei Leponzii (non già dei Salassi o Valdostani, come ne convince il Cluverio contro il parere del Sigonio riprovato anche da Bescapè pag. 200) contenevasi la Riviera; sebbene nessuna certezza noi possiamo prendere dal Cluverio, dal Simlero, e da Egidio Tschudi nè intorno ai suoi primi abitanti, nè intorno ai luoghi dei medesimi Leponzii; poichè non ci è possibile di adattare alla Riviera i popoli Agoni o Agognati, i quali dai mentovati scrittori o si assegnano a Vogogna posta fra i Leponzii, o si ascrivono a Pavia, dicendoci il Ferrario nel Lessico Geografico che gli Agoni sono popoli dell’Insubria, ed il loro paese è la valle di Gogna, come chiamollo Gaudenzio Merula, nell’agro Pavese. Sebbene non ci paia inverosimile che la regione orientale della Riviera per essere bagnata dal fiume Agogna fosse la sede dei popoli Agones; avvegnachè l’assegnarli a Vogogna troppo discordante dal vero si manifesti per essere Vogogna assai moderna, e cresciuta da piccolo casale col disfascimento di Vergonte, che ne era il principale luogo, e colla distruzione del borgo di Pietra Santa avvenuta nell’anno 1328 al 16 marzo per lo straripamento e la inondazione dell’Anza; onde nel buio di queste anticaglie, come attesta lo stesso Cluverio, nessun altro luogo dei Leponzii, se eccettuasi Domodossola capitale, è stato notato dagli antichi scrittori: e l’assegnarli all’agro Pavese ci rechi difficoltà il non rinvenirvi il fiume Gogna, o la valle di tal nome, nella quale il Ferrari poneva quei popoli dell’Insubria. Donde poi esciti fossero questi è assai controverso fra gli antiquari: ma comunemente secondo il Cluverio ed Egidio Tschudi (cap. 32, n. 50) si credono calati dai Grisoni sopravanzati da quei Taurisci, i quali intirizziti dal freddo dovettero abbandonare il loro Ercole capitano e rimanersi ad abitare tra le alpi, se pure non vogliansi credere col nostro Cotta, lib. II Corografia, un rimasuglio di popoli Osci, antichi Toscani, che diedero il nome ad Oscela, secondo il dire di Catone riferito da Leandro Alberti12 VIII. A questa opinione di buona voglia mi accosto. Se contro i Galli venuti dalle alpi sul suolo italiano trovaronsi schierati sul Ticino gli eserciti degli Etruschi, devesi necessariamente credere che la regione bagnata da quel fiume formasse la loro sede principale; avvegnachè non avrebbero posti i loro alloggiamenti su di una terra disabitata o tenuta da un popolo straniero. Dagli Etruschi discendevano anche i Leponzii, che possedevano le terre del Verbano e dell’Ossola, ed i Lebeci che occupavano quelle bagnate dalla Sesia: il perchè quel piccolo territorio che circondava il lago Cusio e che si trovava in mezzo a popoli di origine etrusca, non poteva essere abitato da gente diversa. E se il modo di trasmigrare da una in altra regione si consideri dai primitivi popoli adoperato, di questa verità vieppiù convinti saremo; imperciocchè le prime città fondate dagli antichi popoli erano da non ampio ricinto circoscritte, e fra quelle mura innalzate a difesa delle rozze abitazioni poca gente contenevasi: quindi avveniva che non sufficienti quelle città a capire il soperchio della moltitudine, lasciativi entro i loro capi e la sede del loro reggimento, erano abbandonate da quei popoli, i quali toglievano a torme di colà andando in cerca di più comode dimore, vivendo quali di preda e di rapina, quali di caccia e pesca, facile e sicuro mezzo a quelle esordienti società nomadi per avere modo di sostentarsi. Ma per quelli, i quali esulando dalle pianure venivano dalla fortuna portati alla conquista di regioni montane, la via per emigrare era a ritroso della corrente dei fiumi; conciossiachè certa traccia del loro viaggio fossero quelle fiumane, se respinti e cacciati dal ferro nemico avessero dovuto ricalcare il già fatto cammino, e sicuri indizii delle loro trasmigrazioni rimanessero se alle prime turbe le seconde, o le sezze susseguire dovessero. I popoli adunque che primi abitarono le estese pianure dell’Insubria, la quale si diceva da alcuni contenuta fra il Ticino e l’Adda, ma da Tolomeo fra la Sesia e l’Adda, in cui stavano anche i Levi Liguri popoli del Novarese, salendo verso settentrione dietro le acque del Ticino e dell’Agogna pervennero a conquistare le ripe del Verbano e del Cusio, e nei circostanti colli e monti innalzarono le loro trabacche, per cui volendosene assicurare il possesso, e non avendo per natura l’antisociale genio dei tartari e degli arabi erranti, cinsero di siepe i loro campi13, munirono di fossi e di steccato le loro abitazioni, e diedero per tale maniera principio a quei villaggi, i quali formar dovevano in tempi più civili le estive delizie della lombarda opulenza. Altra possente cagione di dover emigrare nelle superiori regioni più elevate stava nell’essere allora, per quanto afferma il Muratori (medii ævi diss. 21,), la più bassa parte del suolo italiano pressochè tutta sommersa dalle acque, cosichè tutto quello spazio, ond’era terminata l’Emilia, non presentava altro che un’immensa palude. Sant’Ambrogio nella lettera xxxix a Faustino, parlando di Modena, Reggio, Bresciello, Piacenza ed altre città, le chiama tanti cadaveri di città semi-distrutte. Queste erano ai tempi di Cicerone colonie insigni del popolo Romano, fatte poi ai tempi di Magno Massimo e di Costantino deserte di abitanti, e in conseguenza poi nel secolo decimo sommerse dalle acque, siccome raccolse il Muratori dalla vita di S. Geminiano Questi grandi ostacoli, che dovettero incontrare i primi abitatori nello scendere dai monti al piano, e la necessità di recarsi o di mantenersi in luoghi più elevati (quando anche non comprendiamo la violenza di una barbara nazione, che sforza a sloggiare e cercarsi una nuova sede, l’ambizione di conquiste, l’avidità di godere di una vita più agiata, il fanatismo o la speranza di respirare un’aria più libera fra le fratte e le more delle regioni montane), furono cagioni, per le quali popoli intieri mutarono patria, e questa nostra Riviera ricevette forse dai piani dell’Insubria i primi suoi abitatori. Di ciò mi persuade l’antica tradizione, che in luoghi eminenti poste avessero gli Insubri le loro sedi, siccome sappiamo di Castel Seprio distrutto poi nell’anno 1287; e da quanto scrissero Erodiano, Vitruvio e Strabone 14, descrivendoci il piano dell’Insubria tutto coperto di paludi; e dall’antica memoria di un lago Gerundio nel territorio di Cassano, ove oggidì quella parte bassa è tutta abitata, e di un’isola di Fulcherio nei contorni di Crema, di cui trattano le carte dei tempi bassi, sebbene non si veggano ora vestigj di terra isolata.
IX. Da due parti, si può congietturare, pervennero in Riviera i primi abitatori. Trascorrendo le sponde del Verbano, o togliendo a guida il corso dell’Agogna, non tardarono essi ad occupare le vicine terre, che al loro modo selvaggio di vivere, o alla brama di acquistare sicurezza e pace sembravano convenire. Per lo piano di Feriolo e di Gravellona avanzandosi a ritroso della Strona, o (se era pur vera la supposizione, a cui par vero acconsentire il Ven. Bescapè Nov. Sac. lib. 1, pag. 193, ed il nostro Cotta, nota 83 al Macagno, cioè che non fosse per anco formata quella tratta di pianura, la quale da Gravellona si distende fino ad Omegna, e che perciò il Verbano non fosse stato respinto indietro per così gran pezza, ma si congiungesse per un ampio canale col Cusio) rasente i piedi di queste montagne risalendo le sponde del detto canale, giunsero a piantarsi colle loro abitazioni in questa Riviera. Altri poi conquistate le terre di Gozzano, e le sommità onde è rifinito il lago, e discesi alle sponde di questo, trovarono da ambedue le parti un luogo acconcio al loro stabilimento. E per verità l’aspetto delizioso di questa terra, o si discenda da Omegna, o si ascenda da Gozzano, doveva invogliare quei trovatori all’acquisto di lei: poichè le selvose montagne verso ponente, facienti un così magico contrasto colle acque cristalline del lago; l’ombra fitta di quei boschi, ricetto tranquillo, e non mai turbato innanzi delle fiere, dove il silenzio non cessa che per lo stormire delle fronde, e per il grido dei lupi affamati; quei colli verso l’oriente, sui quali un riso perpetuo del cielo si dischiude, e l’aere spira gradito e puro, e mille sembianti di natura feconda e incantatrice offronsi allo sguardo; quelle ridenti pianure dalle mobili acque di un bel fonte irrigate, di erbe e di fiori illeggiadrite, quel propagato alternare di comignoli montani, ai quali la varietà aggiunge grazia e bellezza, e che verdi ai piedi, e azzurri sulle vette si confondono coll’ampio zaffiro del cielo, quel lago tanto bello nella sua bonaccia, quanto piacevole nello spirare del vento, qui ripiegantesi per una punta di terra che oltre si spinge, là distendentesi per un largo seno che gli apre la spiaggia; dove una Isoletta fuori nel mezzo si innalza quasi reina dell’onde; dove tortuosi fiumi e torrenti di gelide e pure acque recano il loro tributo versando sè dopo sè stessi; e dove; un esercito di pesci d’ogni maniera e d’ogni misura o si inabbissa nel mezzo, o ingemma la spiaggia, o rompe la tranquillità delle onde, dovevano necessariamente invitare quella gente di ventura a qui riporre le sue stabili sedi. Per la qual cosa non temo di dilungarmi dal vero, se affermo che in Orta, Pettenasco e Pella fossero erette le prime case di questi popoli, i quali dalla pescagione traevano il loro sostentamento alla vita15; e che in Ameno, Armeno, Nonio, Cesara, Arola e Boletto si ponessero quelli, i quali colla caccia e colla pastorizia esercitavano il più destro e comodo, e difettevole modo per nutricarsi16.
X. Orta, borgo insigne, chiamato da Bescapè Vicus divitiis et mercatus praecipius, fu forse il primo luogo ad avere stabili abitazioni. Ai tempi dell’Imperatore Ottone I chiamavasi Villa Horta, ora Orta, essendovi ancora una parte di sito nel Borgo che chiamasi in Villa, ove forse furono fondate le prime case. Anticamente Villa chiamavansi quelle case vicine alla campagna, nelle quali portavansi gli ortaggi: Villa a vehendo quoti vehilla, quod in eam fructus ex arvis convehuntur, così scriveva Varrone. Sul nome di Orta bisticciarono a sazietà gli antichi ed i moderni scrittori. Per nulla rinverga la opinione di Vincenzo Cartario, il quale estima essere stato preso dal nome della Dea Orta, cui gli antichi onoravano di un culto superbioso, quasichè spingesse gli uomini ad operare 17, a similitudine della Dea Stimola rammentata da S. Agostino nella sua Città di Dio, lib. i, cap. 16. Tanto meno può piacere la sentenza di quelli, i quali credettero, che per trovarsi una città così nominata nei dominii pontificii, quel nome alla nostra si dovesse pur anche applicare, perchè nel territorio giurisdizionale e comitale dell’Episcopato Novarese. Se ciò valesse, non sapremmo quali conseguenze si trarrebbero, quando si dirà che appellasi Orta un borgo murato nella nostra provincia Napolitana di Capitanata poco distante dalla destra ripa del Carapelle; che un grosso villaggio non discosto più di sette miglia italiane da Napoli è pur detto Orta, e che di questo medesimo nome esiste un villaggio nell’isola di Corsica, non lontano più di un miglia verso lebeccio dalla città di Bastia. Altri la vollero dagli Orti nominare, e si fanno forti dall’impresa, o dallo stemma che porta; ma non si avveggono, che la spogliano per così fatta supposizione della sua antichità, stantechè nel linguaggio degli Insubri un orto o giardino era invece chiamato brolo, da cui sappiamo essere derivato il nome del Broletto in Milano 18. Io penso che il nome di Orta le sia venuto dai popoli etruschi trasmigrati in queste parti in cerca di più tranquille sedi, attribuendo a questo luogo da loro abitato il nome di una delle dodici città dell’antica Etruria, che furono capi delle origine italiche, e che il Cluverio, l’Olstenio e il Cellario raccolsero alla spezzata da varii passi di T. Livio, fra le quali il Fontanini pose la città di Orta19, eroica città, che diede, secondochè scrisse Virgilio, forti combattenti contro Enea. È una necessità per gli esuli di ricordarsi della terra natale, e di scemare il dolore della perdita col fare rivivere le memorie ed i nomi delle antiche sedi derelitte, imponendoli alle acquistate di fresco. Nè mancano altri esempi fra noi: Arona porta la denominazione di un fiume che scorre tra Roma e Bracciano; nelle sue dipendenze trovasi Collazza così chiamata dall’altra città dei Sabini della quale narra T. Livio lib. 1, cap. 38 e 58, essere stato governatore Egerio nipote del
- ↑ Furono per molto tempo usurpati promiscuamente i nomi di Insubria e di Liguria, onde a questa Milano, a quella Ticino (Pavia) venne dagli storici riferita; ma in senso rigoroso queste due Città spettavano anticamente a distinte provincie, altra essendo la nazione dei Galli che all'Insubria diedero il nome, altra i Levi Liguri che molto prima dell'irruzione dei Galli abitavano qui al Tesino, e vi si mantennero sempre sui juris, come disse T. Livio, cioè liberi e dominanti.
- ↑ Nella tavola che disegnò Filippo Cluverio Ital. ant. pag. 235 entrano a comporre la regione dei Levi tutto il Novarese di qua di Gogna, il Pavese, una striscia del Milanese lungo il Ticino; cosicché appartengono ad essa Vigevano, Mortara, Novara, Pavia ed altre città. Maggiore estensione le viene anzi assegnata da Giorgio Merula, intorno a cui si può vedere Bernardo Sarco lib. 3, cap. 4.
- ↑ Nicolao Sottile Canonico nella Basilica Gaudenziana di Novara scrisse e diede alle stampa il Quadro dalla Valsesia, dova aveva la sua patria.
- ↑ L’Italia degli antichi Romani aveva i suoi conini legali tra la Magra e il Rubicone; ed il nome d’Italia non venne esteso alla Gallia Cisalpina se non ai tempi di Augusto.
- ↑ Nota 95 alla Corografia di Domenico Macagno.
- ↑ Alberto Schott nell’Opera Die deutschen Colonien in Piemont tentò di indagare l’origine di questi avariati idiomi barbari; ma benchè accerti essere gli ultimi avanzi delle invasioni germmiche fra noi, non giunge a stabilire da quale popolo, ed in quale tempo sieno stati portati. V. Notizie topografiche del Monte Rosa del Parroco d’Alagna Cav. Giovanni Gnifetti.
- ↑ Roma fu da principio una società di Latini, di Sabini e di Etruschi, ai quali s’aggiunsero poi altre genti itale e straniere. Quindi il linguaggio fu un miscuglio di differenti dialetti. La lingua primitiva però che si parlava nel vecchio Lazio vi ebbe certamente la più gran parte. Varrone insegnò, che molte voci provenivano dall’etrusco: oltrecchè da un luogo notabile di Agrezio si conosce quanto influsso ebbe quell’idioma nella formazione del latino fino nelle più minute proprietà di parlare. Simil così avvenne degli altri dialetti affini, e in particolare dell’osco, il quale dovette essere così vicino al latino antico, che in Roma stessa si intendevano comunemente dal popolo commedie osche. In Ennio, che può dirsi il Dante della lingua latina, si rinvengono più modi di locuzione derivati dalla lingua osca. Le tavole di Gubbio, il più copioso monumento di quelle lingue, inchiudono l’ultima dimostrazione di analogia e somiglianza: in esse, come afferma il dotto Lanzi, per una parola greca ne troviamo venti delle latine. Il vero parlare latino non prese incominciamento prima del vi secolo di Roma.
- ↑ V. Giornale dell’alto Adige, num. 61, ann. 1813. A questa si può aggiungere l’antica lapide rinvenuta nello scorso anno dal Conte Eugenio Tornielli di Novara ne’ suoi poderi di Fara, la quale sembra commemorativa di parecchie persone, e scritti in caratteri oschi, o etruschi. E da ciò comprendesi la sua antichità, avvegnachè la lingua osca cessò all’epoca della legge Giulia emanata nell’anno 663 di Roma; e la etrusca, sebbene sia stata l’ultima a perdersi dal popolo, non perdurò al di là del vi secolo di Roma, circa il tempo della caduta di Pompei; benchè molte inscrizioni alla latina rappresentassero in tempi posteriori caratteri e intiere parafrasi etrusche, come si vede anche dalle Tavole Eugubine, e dall’Editto di Clavernio e Casilo sulle feste decuriali. La direzione della scrittura antica era da diritta a sinistra, la stessa che i nostri popoli presero ad imitare quando l’arte fu loro trasmetta.
- ↑ Latissime putuisse Lepontiorum fines, dice il Cluverio, ita ut omnes valles, omniaque flumina quotquot Verbanum petunt lacuum, comprehenderent.
- ↑ Habuerunt igitur ab occasu hiberno Salassos, ab occasu estivo Penninam vallem, quæ nunc dicitur Vallesia, a septemtrione Helvetios atque Rhetos, ab ortu trans Larium lacum Euganeos, a meridie Orobios, Insubres et Lebecios Gallos, quorum oppida fuere Vercellæ, Novaria, Mediolanum, Comum.
- ↑ Pro limite duco lineam a Verbano lacu et oppido Angera, præter forum Licinii, ad Selinum lacum: ub occasu superiori parte Nuvariæ fluminis dicti e Lebeciis submovebantur.
- ↑ Veggasi Gian Antonio Borri detto Canova nella sua Descrizione dell’Ossola, Milano 1666, pag. 11, dove scrive: Catone vuole, che questo luogo fosse fabbricato dagli Osci, detto Oscella, ed ora Ossola, venendo dagli Osci, de’ quali il nome ad imitazione degli Osci derivano Losceti, e all’ ultimo Lossetti ecc. Lo stesso scrittore parlando dei popoli Agonii così dice alla seguente pag. 12: Alle radici del monte v’era il Castello di Vogonia, cinto di mura, avendo una forte rocca, dalla quale si vede la valle di Vogonia, dagli Antichi, secondo Egidio Tschudi, VALLIS AGONUM nominata, cioè Valle d’Agoni Galli. Vero é che poscia quindi partendosi i Taurisci andorno ad abitare nel paese di Stiria, rimanendo quivi li Agoni: onde essi nominorno questa valle da sé Valle di Agonia, che fu poi corrottamente detta Ugonia, e poi dimandata il Castello d’Ucogna, ed ora si dice il Borgo di Vogogna, lontano da Domodossola sette miglia, come il tutto si vede dalla detta descrizioni d’Italia.
- ↑ Dico campi non già quelli solcati dall’aratro, e svolti dalla marra, ma quelli che furono nella secondi barbarie da noi italiani detti Corti, o terra salis dai germani.
- ↑ Vitr. lib. 1, cap. 4. - Strab. lib. v.
- ↑ V. Gemelli, Ragionamenti in barca, pag. 47.
- ↑ Tardi assai si diede mano alla coltura de’ campi. Secondo Strabone, lib. IV, pag. 125, e Giustino, lib. XLIII, cap. 4, i Galli appresero l’agricoltura dai Greci Marsigliesi e dai Romani. Strabone soggiunge, lib. IV, pag. 123, che i Galli vi si applicarono solo per forza.
- ↑ De imag. Deorum, citato da Bascapè pag. 173.
- ↑ V. Conte Giulini, tom. II, pag. 171. Anche la greca mitologia mista colla storia eroica, sorgente della gloria e del diletto, apprestò a ciascuno assai facili applicazioni, per le quali ogni leggiera conformità di nome bastò per opera degli eruditi a far rilevare l’origine e la gloria dei paesi e delle città. Ma oramai a tutti è noto, che la in certezza delle etimologie non deve permettere ad alcuno di fondare sovr’esse una storica verità. Perciò oso dire, che senza alcuna buona ragione si volle da certi scrittori nostri derivare il nome di Cesara o da Venere Citerea, o da un certo Cesarione per una sua galante ventura, o dalla famiglia Cicerri rammentata da Orazio, o da Cesare il Dittatore, o da Cicerone oratore romano, o finalmente (non saprei se per tratto di una bizzarra fantasia, o per disperazione di miglior cosa) dai ceci legumi: nè meno stranamente fu detto, che Arola dovesse corrispondere o al fiume Arola degli Ambroni, o alla città così nominata nei Bisalti, oppure a quella corte, o castello di Arola od Oriola presso Galliano sul Po a levante di Moncastino, di cui parla il diploma dell’imperatore Corrado I del 1026, dato a favore del Monastero di Breme, dove si trapiantò quello di Novalesa dopo la invasione de’ Saraceni, e nel quale è scritto: Gabiantum et aliud Castrum infra eamdem Curtem nomine Arola: che Pettenasco dovesse con venire col Peteniseo degli Urbigeni registrato nella tavola Teodosiana: IVI: Pella colla patria di Alessandro il grande secondo la storia, e secondo la mitologia colla patria di Piero marito di Evippe, di cui Ovidio nello Metam. lib. V: Centonara colle cento are, ossiano tumuli eretti a non so quali eroi, presso i quali amaranti educavansi e viole: Pisogno con Pisone ricco romano, o coi piselli: Opaglio colla dea Opi, lo cui feste chiamavansi appunto Opalia: Crabbia con Crabro, vespaio, o nido di vespe, contraffacendo così l’indole vivace e risentita di quella popolazione. Le quali cose quando ci venne fatto di udire, ci parve di essere presenti a quella giocondissima scena di Bacco descrittaci da Orazio, nella quale il dio avvinazzato imprendeva ad insegnare poesia alle rupi, Credite posteri!
- ↑ V. Guarnacci, Origini italiche, lib. 1, cap. 2.