L'ortografia del dialetto romanesco
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L'ORTOGRAFIA
DEL DIALETTO ROMANESCO.
Se v’ha discordanza fra gli scrittori per l’ortografia della lingua, non è a dire quanta se ne trovi fra coloro che scrivono in dialetto; sicchè a leggere ortofonicamente nelle varie pubblicazioni dialettali e in quelle del Folk-lore, è indispensabile uno studio speciale per ciascun dialetto non solo, ma per ciascuno scrittore. Questo inconveniente io già avvertiva, quando proposi un alfabeto razionale per la lingua e per i dialetti d’Italia;1 ma qui è necessario che torni sull’argomento, riguardo al dialetto romanesco, per dimostrare qual sistema di grafia verrà adottato in questa Raccolta per le trascrizioni dialettali. Non occorre che io qui parli delle varie grafie usate dagli scrittori in dialetto romanesco, dalle età più remote fino al principio del nostro secolo, quando cioè cominciarono gli studi glottologici a dare importanza scientifica ad un linguaggio, che fino allora era ritenuto come la corruzione della lingua e però assai poco o per nulla curato. I diaristi medievali, come gli anonimi scrittori della Vita di Cola di Rienzo e della Vita di Santa Francesca romana, l’Infessura, Cola Colleine, Sebastiano de Branca, Paolo dello Mastro e tanti altri, adoperarono la grafia comune alla lingua; e così più tardi il Peresio, il Lorenzani, il Micheli, il Valle e il Berneri, non cominciarono ad avvertire nella loro grafia che piccole distinzioni foniche.
Il solo Micheli prepose al suo poema La libbertà romana alcuni avvertimenti circa il parlare del volgo di Roma, che mi piace qui riprodurre essendo ancora inediti.
«Questo idioma, o vernacolo, è ricchissimo d’espressioni sue proprie e di vocaboli più di alcun altro d’Italia: come, per esempio, la spada si chiama da’ Romani: spada, tacchia, stadèra, scivola, saràca, sferza, martina, durlindàna, spido, el crudo. Qualunque percossa data, o con ferro, o con legno, o con sasso, la nominano zolla, connessa, pappina, crosta, mèscola, botta, chicchera, còccola, sbiossa. Il mantello, che così non è usato in Roma di chiamarsi, lo dicono faragliòlo, pietro, tappo; ed ancora per comparazione cappa, cappotto e manto.
«Le calze le chiamano carzette e tirante.
«Le scarpe le dicono scarpe, fangose e tïèlle.
«Il cappello, oltre di così chiamarlo, chiamano fongo.
«Li calzoni così ancora gli chiamano e bigonzi.
«Il capo lo chiamano di più còccia, tigna, gnucca, cranio, cotogno, cucuzza; e li capelli (oltre di così) li chiamano ciùrli.
«Il coltello lo chiamano cortello e fuso.
«La spia (di più) la dicono minòsa, marrocca, giorgio e campana.
«Le gambe (di più) le dicono staiòle, cianche.
«La fronte, oltre di così, la chiamano la grinza, la fede.
«La barba, oltre di così, la dicono la famòsa.
«Il naso lo chiamano ancora fiocco, nerchia, tiorba, pippa, carciofolo.
«Il mento lo dicono barbozzo, scucchia, tiratóre, fava.
«Il viso in genere, oltre il così dirlo, chiamano faccia, grugno, mostaccio, muso, bàbbio.
«Il messere lo dicono c..., tàcchete, tafanario e chitarrino.
«La m.... la chiamano ancora sfarda, e l’urina la piscia.
«La panza la chiamano inoltre la trippa, el corpo, el ventricolo.
«Il fetore o puzza, oltre di così appellarli, li chiamano tanfo, pèsta, morbo, contàggio.
«L’ebrietà la dicono imbriacatura, inciurlatura, cotta, checca, sborgnia, cutta, tirapiommo, torcia, cacòna, pelliccia, etc.
«Il vino, oltre di così dirlo, lo chiamano iàimo, sugo, sciurio.
«La paura ed il timore e lo spavento chiamano in genere pavùra, tremòre, spago, cacatrèppola, pàcchete.
«L’innamorata la chiamano la regazza e l’innamorato lo chiamano el regazzo, el patito.
«La zitella giovine chiamano racchia, cioccietta, pavoncella e smilza, e i giovinetti: racchi, regazzi e brugnoli.
«La donna libera la chiamano l’amica, la donna, la strùscia.
«La pioggia la dicono lenza e lùscia.
«La moneta o denaro dicono ancora belardo, belardino, guazza, metallo, sfarzùglia; e nel plurale (di più) piselli, cucci, puglieschi e mengoti, sbruffo, pozzolana.
«Il petto di donna chiamano ancora cantaràno e senato.
«La moglie la dicono ancora la padrona, el matrimonio, la conzorte, la compagnia.
«La donna bella (in genere) la chiamano cioccia, ciocciona, bon tocco, bon somaro; (e la vecchia) ciòspa, grima, etc.
«Le carte da giuocare, oltre di così dirle, le chiamano sfoglie.
«Dal sopradetto si può comprendere quanto questo idioma sia ricco di termini, oltre quelli della culta italiana favella, ancorchè alterati, o accorciati, come in appresso dimostrerò e per incominciare dagli articoli.
«L’articolo il del nominativo singolare li Romani lo pronunziano el ed alcuna volta er; come in dire: mi ài rotto il capo dicono m’ài rotto el capo, oppure er capo; ma ciò non sempre, nè da tutti; perchè questa più dura espressione viene per lo più usata da’ più rozzi, e quando parlano con veemenza.
«Gli articoli de’ genitivi singolari, mascolino e femminino, del, dello, della, li dicono del o der, de-lo, de-la, dividendo la parola; e quelli de’ dativi al, allo, alla li pronunziano al, a-lo, a-la, gli articoli degli ablativi mascolino e femminino dal, dallo, dalla li dicono dal, da-lo, da-la; e gli articoli dei genitivi plurali delli, delle dicono de-li, de-le; così ancora quelli de’ dativi alli, alle dicono a-li, a-le; ed in ultimo quelli degli ablativi dalli e dalle dicono da-li, da-le.
«La particella di la pronunziano sempre de; come, per esempio, di certo dicono de certo; io fo di tutto, io fo de tutto. E dove dicesi ci vado, ci sto, etc. dicono sempre (invece di ci) ce vo, ce sto.
«Invece di dire gli dico, gli dirò, etc. pronunziano ie dico, ie dirò, etc., ed in ogni vocabolo questa sillaba gli per lo più la riducono ad un solo i; come, per esempio, voglio dicono voio: e per moglie dicono moie, etc. Viceversa, le parole che hanno in aio la desinenza, come aio, raio, abbaio, etc., la pronunciano alle volte aggiungendo il g ed l avanti all’i: aglio, raglio, abbaglio. Nel verbo io tengo dicono io tiengo, ed in tutti li suoi casi pongono sempre la i dopo la prima lettera; e lo stesso fanno nel verbo io vengo, che dicono io viengo, etc. Il nostro io splendo, o risplendo, pronunciano io sprenno, o risprenno, etc.; e tutti li vocaboli che ànno la l dopo il p, come platea, plenilunio, etc., li dicono con la r dopo il p; cioè pratea, prenilunio, etc. Tutti gl’infiniti che ànno la lunga nella prima sillaba, come bèvere, piòvere, muòvere, etc. li dicono beve' (accorciato) o bevène (tramutata la lunga, e la sillaba finale re in ne) e così degli altri suddetti, etc.
«Quegli infiniti, che ànno la lunga nella penultima sillaba, come ammazzare, ricordare, etc, li accorciano levandogli l’ultima sillaba, e glie la cambiano in ne, e li dicono ammazza’ o ammazzane, recorda’ o recordàne, etc. E gli altri infiniti sdruccioli, come risolvere, assòlvere, etc., che ànno la lunga alla seconda sillaba, li pronunciano sempre diminuiti dell’ultima, cioè risòlve’, assòlve', etc.
«Li monosillabi me, te, più, giù, su, vo per vado, vo per vuole, sono alle volte da’ Romani accresciuti in fine della sillaba ne, e così vengono a dirsi mène, tène, piùne, giùne, etc.
«Tutte le parole che anno l’n avanti al d, o nel principio, o sul fine, come andiamo, comando, etc. (dell’n e d facendone due nn) le pronunziano annamo, commanno, etc.
«In tutti quelli vocaboli che ànno l’l avanti l’m, come palmo, salma, etc., sogliono invece della porvi la r e dicono parmo, sarma, etc.
«La negativa non dicono non e no, come, per esempio, non voglio lo dicono col non intiero; ma quando è relativo ad una terza cosa, come a dire non la so, non la voglio, etc., togliendogli l’ultima n, dicono no la so, no la vòio, etc. Quello, quella, quelli, quelle si pronunciano da’ Romani con li due ll, e con un solo, cioè, quando la parola che gli segue principia per consonante allora si pronunciano con un solo l, ma quando principia per vocale li dicono tutt’e due (per esempio) quela capra, quela porta, quele capre, quele porte, quell’arma, quell’erba, etc. Tutte le parole (trattone il nome panza) che terminano in anza, anze, enza, enze, come sostanza, sostanze, licenza, licenze etc., dicono sostanzia, sostanzie, licenzia, licenzie, etc.
«Uno e una sogliono alle volte (lasciando la prima lettera) dire ’no stordito, ’no spillone, ’na matta, ’na fava, etc. Altro, altra dicono anche antro, antra, etc. In tutti li verbi, nella parola o caso, portarsi, lavarsi, dolersi, etc., della l’avanti la s ne fanno un’altra s, e dicono portasse, lavasse, dolesse.
«Ne’ verbi volere, fare, dire, nel caso vorrei, farei, direi, dicono vorrebbe e vorria (per vorrei), farebbe e farìa (per farei), direbbe e dirìa (per direi). La parola subito, o subitamente (oltre il così dirlo) viene espressa da’ Romani in molti modi (cioè) de porta, de gelo, de razzo, de brocca, de briva, de botto, de bello, int’un soffio, int’un attimo, int’un ette, de lampo, de trono.
«Del verbo io sono num. sing. del presente dicono io so’, io sone, e nel plur. del presente queli so’, queli sonno, etc. E medesimamente del verbo sapere, nel tempo presente, persona prima, num. sing., io so', dicono io sone.
«Ma di ciò, per ora, abbastanza sia detto; abbenchè a dir tutto quello che dovrebbesi dire per instruir esattamente il lettore di tutti i termini ed espressioni del romanesco linguaggio ci vorrebbe tal’opra, che, prima io stesso, poi il lettore, ne resteremmo fortemente annoiati; però io posi a piè d’ogni pagina2 l’equivalente di tutte le voci, che nei versi delle stanze si contengono, in culta italiana favella, al meglio, che ò saputo.
«Circa l’ortografia, che ci vuol particolare in tutti i vernacoli, siccome questo è il più prossimo alla latina, ed alla buona italiana lingua, ho segnato coll’apostrofe ogni parola che i Romani pronunciano accorciata, o nel principio, o nel fine; ed ò posti gli accenti in quelle tutte nel luogo dove debbono avere la lunga, per servire insieme alla pronuncia ed al verso.
«Altri ànno scritto in questo idioma vaghissimi poemi; ma il parlare che anno usato può chiamarsi ermafrodito, non essendo buon romanesco, nè buon toscano. Oh! sarebbe pur la gran felicità per chi à da scrivere, particolarmente in versi rimati, potersi prevalere de’ termini di più dialetti, a suo capriccio, secondo più in acconcio gli tornassero ne’ suoi componimenti».
Nel secolo nostro, il principe della poesia romanesca, G. G. Belli, faceva un progresso nella grafia, sia pel raddoppiamento consonantico iniziale, sia per la introduzione della j consonante; sia per il trasformarsi delle consonanti iniziali in posizione; ma varî difetti, che qui analizzeremo, s’incontrano tuttavia nel sistema del Belli. Primieramente la c palatina è espressa dal gruppo sc (nosce per nóce, I, 236);3 di modo che non si ha più distinzione fra le due voci romanesche pesce (pece) e pesce (pesce), mentre di fatto distinzione v’ha fra la c e la sc.4 Troviamo inoltre nel Belli le voci zércio (selce), zicario (sicario), zole (sole), zolo (solo), ecc. per sercio, sicario, sole e solo, nelle quali la s è erroneamente sostituita alla z sorda (t + s).
Difatti se osserviamo i luoghi in cui cadono queste voci c’incontriamo nelle seguenti forme:
1) arzo un zércio (II, 191 ); e qui la s iniziale passò in z per la presenza della n; ma la consonante primitiva era la s (un-sércio); 2) cór zicario (col sicario, II, 100); e qui la s iniziale si è trasformata per la presenza della r (cór-sicario), com’è ugualmente avvenuto alle voci zole e zolo (er zole [il sole], I, 199; er zolo [il solo], I, 3 ); e però il Morandi non avrebbe dovuto por nel suo lessico le voci così trasformate per la posizione loro, ma la forma loro primitiva. Ed infatti il romanesco dirà er sole (pronunziando la s come la z sorda), ma dirà pure: che ssole! (raddoppiando la s); e così dirà semplicemente sólo sólo, mentre dirà anche er sólo rimedio (con s = t + s). Per la stessa ragione il Morandi non avrebbe dovuto porre nel lessico col raddoppiamento iniziale quelle voci che prendono tale raddoppiamento per sola posizione; come ad esempio pporcaccio, ccianno, ttrosmarino, ecc., le quali voci si trovano nelle seguenti forme, che spiegano il raddoppiamento iniziale: 1) Ah pporcaccio (I, 50); 2) Quelli che ccianno (IV, 70); 3) viole e ttrosmarino (IV, 180) . Il Belli inoltre indica erroneamente il rafforzamento del gruppo gn (ñ) col raddoppiamento della g, sicchè dà la forma maggnera (mañèra), nella quale o la prima g è palatina, e in tal caso si pronuncerebbe magñera, o è gutturale, ed allora diverrebbe maghnera; pronuncia erronea in ambedue i casi . Il Belli non fa neppure distinzione fra la z sonora e la sorda, nè distingue le due flessioni della e e della o (é, è; ó, ỏ), sicchè ci dà le voci volè, perchè, mommò, alò, ecc. che il Morandi molto giustamente corregge in volé, perché, mommó, aló, ecc. (I, ccxCIX) . Finalmente è da riprovarsi il raddoppiamento superfluo della j usato dal Belli. Questa consonante (derivata dalla l molle: fi-li-us, fi-gli-o, fi-j-o) per poco che si attenui si vocalizza e scompare; e infatti si paragoni la forma fijo mio, che ha due accenti tonici, la quale se nella prima voce perderà l’accento vocalizzerà, e perderà anche la j, divenendo: fio mio; ed abbiamo di ambedue esempi nel Belli: 1 ) Caro quer fijo! dateje la zzinna (I, 4); in questo verso l’accento trovasi sulla i di fijo; 2) S’er mi’ fio ciuco me porta lo stocco ( I, 40); qui l’accento cade ugualmente sulla quarta, ma sulla voce ciuco, rimanendo la i di fio atona per la perdita della j. E così all’inverso per poco che la j si rafforzi va cangiandosi nella g gutturale aspirata dei Siciliani (fi-j-o, fi‑gghi-u).
Luigi Ferretti, valente poeta romanesco, rapito ai nostri cari studî nel 1881, fece un altro passo, e nei suoi sonetti elegantissimi5 adoperò una più retta grafia notando le flessioni della e e della o, usando la j nel suo proprio valore e indicando le lettere cadute nella pronuncia. Solo non fece uso delle doppie consonanti iniziali; perchè egli diceva che tal genere di rafforzamento è comune alla lingua. A me pertanto sembra necessario che venga indicato, specialmente nei dialetti ove non serba una legge costante. Così abbiamo nel romanesco la c di cerase semplice nella forma: lé cerase; mentre in napolitano è raddoppiato: li ccerase.
Del Marini e del Pascarella già parlai altrove6, e del Zanazzo, riguardo all’ortografia, altro non v’è da osservare che generalmente ha seguito il mio sistema, con qualche menda qua e là dipendente per lo più da mal corretti errori tipografici.
Della grafia usata dal Blessig, dalla Busk e dallo Schulze7 nemmeno a parlarne, poichè nella trascrizione dei testi dialettali tanta è la deformità e la confusione, che non v’ha nulla da commendare, anzi da biasimar pure la falsata lezione dei canti.8 Solamente lo Story9 fa eccezione, e nella grafia lascia poco a desiderare.
Abbiamo finalmente la recentissima raccolta di Canti pop. romani, che il mio amico M. Menghini va pubblicando nell’Archivio per lo studio delle trad. pop.,10 nella quale si manifesta un tentativo di migliorare la grafia del Belli; ma, forse per la incuria di chi avrebbe dovuto correggere gli errori tipografici, vi si notano alcune mende, delle quali non indicherò qui che le più rilevanti. Il Menghini adunque, mentre generalmente adotta il raddoppiamento iniziale consonantico, il più delle volte se ne dimentica, come osserviamo nei canti: 11, 33, 82, 103, 143, 152 183, 243, 252, 263, 433, 473, 861, 881.11 Le assimilazioni, che forse il Menghini non riconosce nei casi qui sotto notati, non sono per nulla indicate, e così abbiamo nun me per nu’ mme (42), nun spiccia per nu’ spiccia (262), nun je per nu’ je (313 e Sam Michele per Sa’ Mmicchele (492). Gli accenti, che il Menghini generalmente cura moltissimo, si trovano errati, e specialmente i flessivi della e e della o; così abbiamo pè invece di pé (33, 143), mò invece di mó (312), vòi invece di vói (861), fiòre invece di fióre (331) e (con errore di posizione) pennólone invece di pennolóne (543).
Riguardo all’uso della j il Menghini si mostra molto impacciato, e così scrive erroneamente (se non erroneamente furon corrette le prove di stampa in Palermo): vòijo per vòjo (131, 141, 151 261, 322, 821, 831, 861, 871, 881, 891); baijocco per bajocco (131); itaijano per itajano (394); taija per tajà (503); meijo per mejo (573); aijetti per ajetti (191); móije per móje (632); raccoijerai per raccojerai (803); aijo per ajo (822); oijo per ojo (823). Troviamo inoltre mij per mii (153) e pij per piji (203, 581). Notiamo infine la voce ca per che (532), affatto estranea al nostro dialetto.
Da quanto ho qui esposto non è difficile rilevare l’importanza e la necessità di un sistema unico per la grafia del dialetto romanesco; ma la povertà delle nostre tipografie non mi permette ancora usare completamente l’alfabeto da me proposto nella ortografia razionale. Ed è per ciò che, restando ferme tutte le leggi da me stabilite per la trascrizione dei dialetti, i segni alfabetici restano nella forma e nel valore, come si usano per la lingua, facendo solo le seguenti avvertenze: 1) la c palatina corrisponde alla c in pece; 2) la g palatina corrisponde alla g in giorno, ma è dissimile dalla g toscana, e si distingue per la sua durezza; 3) il gruppo gn corrisponde alla ñ; 4) l’h non ha valore alcuno, e serve solo ad indicare la c e g gutturali avanti a vocali deboli e a distinguere alcune forme del verbo avere e le esclamazioni; 5) la q resta in uso e si rafforza colla c gutturale; esempio: cómme sé sta a cquatrini?; 6) la s è sempre aspra come in seno; 7) il gruppo sc equivale alla sc in scemo; 8) la z dolce (d + s) si segna con un apice (z’èrola). Gli accenti si segnano sempre, eccetto sulle piane che lo hanno grave, in tutte quelle voci che non seguono la flessione o la posizione dell’accento come nella corrispondente italiana (così abbiamo il romanesco spósa accanto all’italiano spòsa); in quelle che hanno ugual gruppo consonantico e duplice significato (così si accentua mórto [molto] per distinguerlo da mòrto [morto], e in quelle che sono puramente dialettali (come: sémo [siamo], boccio [vecchio], ecc.).
L’apostrofe indica la caduta di lettere o per assimilazioni o per incontro di vocali simili (es .: Dóv’ho d’anna’?). Stabilite così queste norme per ottenere una grafia possibile, a superare gli ostacoli tipografici e ad unificare tanti discordi sistemi; non mi resta che far voti perchè presto una grafia razionale si adotti per la trascrizione dei dialetti, onde non debbano giungerci di essi le nude forme grafiche (spesso errate), ma la pronuncia loro insieme, che ci aiuta nelle ricerche etimologiche, come ha ad evidenza dimostrato l’insuperabile Ascoli nei suoi mirabili studî di glottologia comparata.
- ↑ L’ortografia razionale per la lingua e pei dialetti d’Italia, appunti e proposte di Francesco Sabatini (con una tavola autografica), Roma, 1888.
- ↑ Intendasi del poema: La libbertà romana.
- ↑ I sonetti di G. G. Belli, a cura di Luigi Morandi, Lapi, Città di Castello, 1889.
- ↑ Trovasi negli scrittori del sec. XVIII camiscia per camicia.
- ↑ Centoventi sonetti in dialetto romanesco di Luigi Ferretti, Firenze, Barbera, 1879.
- ↑ Cfr. Sabatini, Polemica romanesca; Sabatini, Critica dialettale ai 25 sonetti (Villa Gloria) di C. Pascarella.
- ↑ Cfr. Blessig, Römische Ritornelle; Busk, Folk-Songs of Italy; Schulze, Römische Ritornelle, in Zeitschr. f. roman. philolog., XIII, 253.
- ↑ Il ritornello 181 dello Schulze così dice spropositando:
Quattordici bajocchi un falegname
Non lo sperate ch'abuschi di piùne,
Attacca ricci, ve vuol governane.Eccone la vera lezione:
Quattordici bbajocchi 'n falegname,
Nu' lo sperate ch'abbuschi de ppiune,
A ttacchie e rricci ve vo' ggovernane. - ↑ Story, Roba di Roma.
- ↑ Vol. IX, p. 33 e 247. Il Menghini nella sua prefazione chiama «grande e immeritata accusa» il credere che Roma non sia «provvista di canti popolari in tanta copia e così belli come quelli delle altre provincie d’Italia» (p. 33; cfr. Volgo, I, 35); ma di ciò dirò altrove in più opportuna occasione. Quindi, parlando de’ raccoglitori di canti popolari romaneschi, pone la mia raccolta (Saggio di canti pop. rom., Roma, 1878) fra quelle compilate da coloro che «non posero la debita cura nel dare alla scienza il frutto delle loro fatiche» (p. 33); eppure le mie annotazioni ai canti e le osservazioni complementari meritarono gli elogi del D’Ancona e di Gaston Paris, come le melodie romane pubblicate nel mio opuscolo dal Parisotti ebbero parole di encomio dal dottissimo Bourgault-Ducoudray. E fu questo il primo tentativo di pubblicar con intendimento scientifico i canti e le melodie popolari di Roma. Tuttavia è da osservarsi che la scorrettezza della Raccolta del Menghini devesi in gran parte alle mende tipografiche, che non difettano nell’Archivio del Pitrè.
- ↑ Il numeretto posto in basso alla destra indica il verso.