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L’ortografia del dialetto romanesco 99

la povertà delle nostre tipografie non mi permette ancora usare completamente l’alfabeto da me proposto nella ortografia razionale. Ed è per ciò che, restando ferme tutte le leggi da me stabilite per la trascrizione dei dialetti, i segni alfabetici restano nella forma e nel valore, come si usano per la lingua, facendo solo le seguenti avvertenze: 1) la c palatina corrisponde alla c in pece; 2) la g palatina corrisponde alla g in giorno, ma è dissimile dalla g toscana, e si distingue per la sua durezza; 3) il gruppo gn corrisponde alla ñ; 4) l’h non ha valore alcuno, e serve solo ad indicare la c e g gutturali avanti a vocali deboli e a distinguere alcune forme del verbo avere e le esclamazioni; 5) la q resta in uso e si rafforza colla c gutturale; esempio: cómme sé sta a cquatrini?; 6) la s è sempre aspra come in seno; 7) il gruppo sc equivale alla sc in scemo; 8) la z dolce (d + s) si segna con un apice (z’èrola). Gli accenti si segnano sempre, eccetto sulle piane che lo hanno grave, in tutte quelle voci che non seguono la flessione o la posizione dell’accento come nella corrispondente italiana (così abbiamo il romanesco spósa accanto all’italiano spòsa); in quelle che hanno ugual gruppo consonantico e duplice significato (così si accentua mórto [molto] per distinguerlo da mòrto [morto], e in quelle che sono puramente dialettali (come: sémo [siamo], boccio [vecchio], ecc.).

L’apostrofe indica la caduta di lettere o per