L'isola Tiberina e la regione Trasteverina

Publio Barghiglioni

Francesco Sabatini (filologo) Indice:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf L'isola Tiberina e la regione Trasteverina Intestazione 16 settembre 2024 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Il volgo di Roma


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L'ISOLA TIBERINA

E LA REGIONE TRASTEVERINA .


Noi romani siamo di sovente accusati d’ignorare il tesoro di pregi e di bellezze che fanno Roma ammirabile allo sguardo degli stranieri.

Giudicando dai più, l’accusa non è priva di fondamento; e la ignoranza delle cose nostre dipende, è vero, da quella certa fiaccona tutta romana, ma anche dall’aver sempre sott’occhio meraviglie classiche e naturali, specialmente di quelle riposte in certi angoli della città, come ne’ soffittoni delle case nobili, i cassabanchi e le cornici intagliate; alle quali cose la soverchia famigliarità sembra che diminuisca valore .

Perciò, se alla ricerca delle usanze popolari e di certe origini storiche, come proverò in altro lavoro di prossima pubblicazione, guida meglio la fede che la scienza, io credo che il ricercatore, dopo aver confortato lo spirito degli studî necessari per venire poi a sensate conclusioni, debba piantarsi dinanzi ai luoghi ed ai fatti, come [p. 124 modifica]se fosse loro straniero, considerando novità ciò che pareva già vieto.

Così sulle anticaglie logore e sparse fantasticando, rannodandole, riedificando, si sale, spinti dalla curiosità e dall’amor patrio, fin dove la fede incontra la scienza, e con la scienza il vero o il verosimile.

Un monumento vivo e imponentissimo, co’ suoi perpetui serpeggiamenti, corre sempre dinanzi a noi, nelle vallate dei sette colli.1

Alla originale prepotenza della sua corrente, al colore specioso delle acque che trascina dall’Appennino al Mediterraneo, si fermò l’occhio del fondatore di Roma.

In ogni seno del suo ricco letto riposa una memoria, e Guerrazzi2 penetrò con l’ardente fantasia nelle sabbie d’oro, bevve alle acque regali come a sacro fonte, e più che scrivere ne cantò epicamente.

E questo è il Tevere che passa. Chi pone mente all’eloquente mormorio de’ suoi flutti?

Questo classico fiume divide Roma come in due città: Roma e Romilla. Lo sanno, non si comprende come, i popolani trasteverini, che, dovendo passare i ponti, diconsi: Addio, vado dentro Roma.

[p. 125 modifica]In lui si specchiano i ruderi irti di mattoni rossicci e di silici scagliati, che il tempo e il sole resero simili a corazze vecchie di rame e di acciaio; vi si affacciano le casupole nere coronate di ridenti verdure, e i palazzi con le balconate e le altane trasformate in giardini; vi si disegnano i ponti e gli alti campanili delle basiliche.

Testimonio di glorie, di delitti, di oscenità, di miseria, passa e non canta, passa e tace, portando seco nell’infinità dei mari il miserabile e la sua miseria, la vittima e il suo segreto.3

Chi però volesse leggere tanta storia nei gorghi del Tevere, detterebbe poemi e romanzi; dire della importanza della regione, che da lui prende nome, sarebbe gravissimo e difficilissimo còmpito; ma è un dovere accennarla qui, ora sopratutto che molte spariscono delle bellezze e delle memorie di questo prediletto asilo del volgo .

Là dove tra’ due ponti Palatino e Gianicolense il Tevere si biforca per subito riunirsi, formando così una originale isoletta, attaccata a Roma magnifica dal ponte Fabricio, a Romilla dal ponte Cestio, pochi si soffermano, se non costretti da acerbissimo dolore di denti o da barbara curiosità;4 quasi niuno penetra tra gli abituri degli isolani.

[p. 126 modifica]Eppure l’isoletta che si chiamò più anticamente insula Tiberina, ed oggi si conosce volgarmente per isola di San Bartolomeo, ha la sua storia e le sue leggende.

Contasi di quest’isola, siccome dopo la espulsione dei Tarquini e la congiura degli Aquilii e dei Vitellii, l’anno 246 di Roma, nel Tevere, molto basso allora in quel punto e tutto pieno di banchi di arena, fossero affondate le messi che biondeggiavano sul campo detto poi Marzio, appartenenti al re discacciato e donate al popolo dalla Repubblica.

Un banco arrestò le biade, alle quali aggiuntesi altre materie galleggianti, indurirono e formarono in mezzo all’acqua un vasto piano di terra che tosto divenne fertile e coprissi di alberi e d’erba, formando un folto boschetto.

L’amenità del luogo e la originalità di un’isoletta sul fiume colpi l’immaginazione latina; si tagliò parte del bosco, e vi si eressero monumenti, statue, obelischi; vi fu consacrato un tempio a Giove e un altro a Fauno, ed uno superbo ad Esculapio, dedicato in rendimento di grazie, dopo una terribile pestilenza, da coloro i quali, partitisi da Roma con la flotta per consultare gli oracoli della Sibilla, ebbero per risposta la ingiunzione di recarsi in Epidauro e di portare a Roma di colà un serpente sacro al dio della medicina. Tornando però con tale sacro pegno e passando dinanzi all’isola, quel serpente [p. 127 modifica]fuggissi e spari tra le canne che ne coprivano le coste.

Ed è perciò che tale isoletta fu poi chiamata di Esculapio o di Epidauro. E fu allora appunto che, dovendola circondare di sostruzioni, perchè il Tevere, rodendo le arene, non danneggiasse le fondamenta degli edifizi, queste furono fatte in modo da dare a quella lingua di terra forma di nave, in memoria di quella che recò il talismano liberatore; vedesi infatti tuttora sui massi di travertino la protome di Esculapio col serpente avviticchiato allo scettro.

Da questo tempo data la esistenza di un ospedale nell’isola Tiberina.

Imperocchè gli edili plebei Cneo Panuzio Enobardo e Caio Scribonio Curione, avendo colto in frode tre pastori che danneggiavano il bosco sacro, li multarono severamente, e poichè al dio dei campi fatta era l’ingiuria, vollero che quel danaro s’impiegasse a costruire nell’isola Tiberina l’edicola a Fauno e l’ospedale presso il tempio di Esculapio, chiamandovi a curarsi i servi che, abbandonati nelle infermità, spargevano semi di pericolosissime malattie; per poi incoraggiarli a servirsi dell’ospedale, guariti che fossero, ricevevano in dono la libertà.

Non mancò all’isola Tiberina importanza nel medio evo, e ne fanno fede gli avanzi di torri che esistevano sotto le pittoresche mole, ora scomparse.

[p. 128 modifica]Copio a proposito una data preziosa dalla recente pubblicazione dell’eruditissimo capitano del Genio Mariano Borgatti, Castel Sant’Angelo in Roma, dalla quale apparisce come l’isola servisse di rifugio ai Pierleoni nella sommossa del 1083, e rafforza ciò che, riguardo ai castelli baronali, in seguito sarò per accennare.

«Sulla fine del 1083 vi si presentò (Crescenzio o Cencio) per la terza volta....

«Lunghe furono le trattative ed inconcludenti. Enrico IV volendo venire ad una soluzione, fece riconoscere dai Romani il papa Clemente III, che aveva condotto con sè, e si fece da esso incoronare in San Pietro .

«I partigiani del vero papa intanto erano asserragliati in vari punti di Roma; Rustico, nipote di Gregorio VII, era al Celio e Palatino, negli avanzi del palazzo di Settimio Severo; i Corsi erano nel Campidoglio: i Pierleoni nell’isola Tiberina».

Che se dall’isola si volge intorno lo sguardo, imponente è lo spettacolo che designa il vasto orizzonte. I colli Vaticano e Gianicolense a destra, il Palatino e l’Aventino a sinistra, chiudono l’ampia vallata dove in grande parte ancora ridono gli orti che prendevano nome dai più famosi personaggi.

E tu vedi gli avanzi dei palazzi dei Cesari sul Palatino, i prati di Nerone ed i Bruziani, dove colui che diè loro il nome fu condannato al più [p. 129 modifica]vile servaggio per aver tramato contro Roma in favore di Annibale, ed i Codeti, dove l’ingegno audace di Cesare fe’ scavare una naumachia vastissima per dare al popolo spettacolo di combattimenti navali, i campi Muzii e Quinziani, i primi donati a Muzio Scevola, gli altri già possessione di Cincinnato.

Oggi l’isola non presenta che una grande piazza, chiusa dalla facciata e dalle pareti dell’ospedale dei Fate - bene -fratelli e dalla chiesa di San Bartolomeo; e quindi e quinci come due braccia si stendono da ambe le parti nell’acqua a formare la poppa e la prua della nave che rappresenta.5

Affacciandosi alla balaustrata sinistra del ponte Fabricio, e guardando dove si stende il destro braccio dell’isola, si vede la casa ed il giardino dei Minori osservanti, ridotto ora a camere mortuarie per la esposizione e l’autopsia giudiziaria dei morti per cause ignote o accidentali.

Dall’altro braccio inoltrandosi per viuzze, che sboccano tutte al fiume, son le une e alle altre addossate casupole irregolari, circondate da giardinetti di aranci e coronate di terrazze fiorite.

Sono le poche dimore dei mugnai dei [p. 130 modifica]pescatori che popolavano l’isola, formanti come un piccolo popolo, dall’aspetto e dai costumi quasi marinareschi. Questo nucleo di popolani somiglia, anzi fa parte dei regionari trasteverini: ma poichè questi, per ragione di mestieri e di costumi, si possono dividere in due, in quelli cioè di Ripa e in quelli di Terra, gl’isolani confondonsi coi primi.

Oltre le differenze che accennai, questa specialità di trasteverino ha eziandio una particolarità nel linguaggio, che è romanesco, ma pieno di termini e di modi marini.

Conoscitori del nostro fiume, del quale è raro chi non abbia in casa una vittima, enumerano le correnti, i pozzi, le tante e terribili accidentalità del vecchio alveo; ed a contatto coi navigatori velieri calabri e siciliani, la loro fantasia, piena sempre di Roma, accetta e rende immagini meridionali, ed ha famigliarità con le cose di mare.

Mentre poi il romano in genere ha un coraggio fenomenale, ma suscitato il più delle volte dall’entusiasmo, nutrito dall’ambizione, ingigantito dalla pubblicità e dal plauso, questi hanno un coraggio più pronto e più severo, come si potè ammirare e si ammira ancora nei salvataggi da essi operati nei gorghi del Tevere.

Oggi spariscono queste case l’una dopo l’altra, man mano che sono aboliti i molini nelle acque del Tevere e sparirà il germe di questi generosi.

[p. 131 modifica]Passato però il vecchio ponte, e tornati dall’isola in terra ferma dalla parte di ponente, si entra nella regione trasteverina.

Quanto interesse avesse questa regione lo dice la sua storia che compendio rapidamente.

Il Gianicolo, protetto alle spalle da più alte colline, cinto alle falde da un’estesa vallata atta a evoluzioni militari, difeso dal Tevere che lo divide da Roma, come posizione strategica, non isfuggì ai nemici di Roma. I Veienti infatti vi piantarono primi le tende.

Tolto loro di mano, restò luogo munito in difesa della città, a lei congiunto dal ponte Sublicio, che cavalcava il Tevere da Ripa romana all’Aventino.

Anco Marzio vi portò i vinti popoli di Palitorio e di Tellene, e ne fece una tribù suburbana, staccata dal centro, ma compresa nella sua Roma; anzi quella regione trovasi spesso nominata Romilla, quasi che nel forte elemento che componevala rappresentasse in piccolo la città regina.

Dagli uomini robusti e audaci di quelle prime legioni romane, da quei vinti generosi discendono senza interruzione nè sensibile incrociamento i nostri trasteverini.

Recanti ancora sulla fronte l’orgoglio di aver avuto un giorno affidato al loro braccio e al loro coraggio la difesa di quell’importante adito alla sede del nuovo impero, stretti in fraterno nodo [p. 132 modifica]raccolti in gruppi, pare ancora che nel loro centro custodiscano l’affidato vessillo; tanto tenacemente si mantengono compatti.

Che il Trastevere fosse tenuto in conto anche dal governo dei Consoli e poi dall’Impero, ne fanno fede le opere colossali, come i ponti Palatino6 sostituito al Sublicio, Gianicolense,7 Elio,8 Fabricio e Graziano.9

È leggenda popolare che le erme a quattro teste che vedevansi all’ingresso del ponte, al quale danno nome, siano quattro teste di decapitati; e raccontano che Sisto V facesse restaurare il ponte da quattro bravi architetti, i quali, per certe loro bisogna venuti a lite, fossero per ordine del papa stesso, ed in quel luogo decapitati, e le teste loro prima esposte e poi scolpite e murate alle testate del ponte.

Ma sappiamo invece che quelle sono avanzi del vecchio ponte che aveva balaustre di ferro appoggiate a tante erme quadrifronti, in onore di Giano, e che nel rinnovare il parapetto in pietra e muratura, due di esse vi furono incassate dove e come ammiransi adesso.

Fu eziandio quella dimora cara ai patrizi; vi abitò gente danarosa, e ne fanno fede i [p. 133 modifica]monumenti che vi esistevano, come il tempio della Fortuna, il bosco di Furina e delle Carnische, i campi Muzii e Bruziani, gli orti di Cesare, che dopo la sua morte furono ereditati dal popolo per testamento, la naumachia, il tempio di Alessandro Severo, i bagni Empelidi, le terme Jemali di Aureliano, la casa dei fratelli Anici, di cui esiste ancora una memoria nel nome della via sulla quale era fabbricata; infine vi si contavano negli ultimi tempi romani 110 tra strade maggiori e minori, 22 edicole, 445 palazzi, 150 fra case e bagni privati, 180 vasconi, e la regione compresa dalla Romilla al Vaticano aveva un circuito di 33,488 piedi, abitati dal più puro sangue latino, imperocchè in quella XIV regione di Roma i governanti per molto tempo non vollero che si aggregassero ad abitarvi altre genti.

La bassa riva del Tevere fu occupata da pescatori e da conciatori di pelli, dai cardatori di lana, dai lettigari, dai vetturini, dai facchini.10

Vi si annidarono una volta gli ebrei, ma questi, per gelosia di razza e per sentimento religioso, non ebbero coi Romani altro contatto che quello del commercio, di quel commercio usuraio che rese celebre l’acies asiatica.

Per la facilità di trasportare il pesce per fiume, o per la via Portuense, vi fu istituito un mercato di pesce, che vi durò finchè, con pessimo [p. 134 modifica]divisamento, non fu trasportato a profanare il Portico di Ottavia.

Il lavoro e l’industria però, anzichè tornare a lode di questa regione, le meritò talvolta l’appellativo di vile e di plebea da certi poeti della latinità, venduti ai laticlavi, e dal vero e proprio popolo romano che abborriva dal commercio e dalle opere che chiamava servili.

Intanto la previdenza dei capi militari v’istituì un ospizio pei veterani mutilati o altrimenti inabilitati alla milizia o al lavoro, per aver pugnato a favore della patria.

Fu detto Taberna meritoria quest’ospizio aperto ai vecchi valorosi, e occupò appunto l’area dove sorge la chiesa di S. Maria in Trastevere.

Segno è questo che, se tanta plebe riunita faceva di quel quartiere un nucleo forse poco civile e sanguinario, pure gli abitanti di Trastevere non avevano demeritata la loro vecchia rinomanza di benemeriti cittadini romani.

La Taberna meritoria sembra che degenerasse in una vera osteria e in un convegno di crapuloni.

Di questo fatto ci dà notizia l’avv. Giuseppe Bandini nella sua Santa Cecilia, togliendo memorie da Lampridio, da Eusebio, da Pietro Moretti, che descrive le chiese di San Callisto e di Santa Maria in Trastevere.

Egli cosi racconta: «Nella regione al di là del Tevere, a piè del Gianicolo, era posta la [p. 135 modifica]famosa taberna meritoria, dal di cui suolo, nell’anno di Roma 718, aveva zampillato su una fontana d’olio, e stillato un intero giorno, non altrimenti che un fiume misterioso.

«Augusto.... era per cominciare l’epoca della pace universale, quando tal presagio annunciò ai Romani il propinquo nascimento di Cristo....» .

Questo edificio trapassò nelle mani dei cristiani sotto il pontificato di papa Calisto.

S’ignora per qual termine di transazione pervenisse in potere dei cristiani di Roma un edificio, nel quale, per lo innanzi, non si erano praticati che usi profani; ma Lampridio racconta che i popinari portarono le loro lagnanze ad Alessandro Severo appunto perchè un luogo insino allora aperto pubblicamente a lor profitto era stato loro tolto per essere tramutato in servizio di una religione, la quale le leggi dell’impero non riconoscevano. La benevolenza di quel principe si parve dal decreto che egli portò intorno a tale reclamo. Ben amo meglio, rispose, che Dio sia onorato in qualsivoglia modo in questo luogo, di quello che abbandonarlo di nuovo a venditori di vino.

Ad ogni modo, venne un’epoca in cui il puro germe trasteverino minacciò di corrompersi, e si sentì il bisogno di purificarlo.

I giudei prima si ritirarono sul Vaticano, dove fondarono una sinagoga, poi furono chiusi come in una città sulla sinistra del Tevere, dove [p. 136 modifica]che si collocarono i conciatori di pelli, e restarono i lettigari, i vectigari e i facchini, che esercitavano l’opera loro all’approdar dei legni mercantili al porto di Ripa magna, e s’incaricavano di trasportare uomini e cose nei punti lontani della città.

E la Ripa romea, o magna (Ripa Grande), era un punto principale del commercio di Roma che non aveva altro adito più commerciale che il Tevere, ed era perciò luogo di traffico e di guadagno; sicchè i facchini di Ripa,11 gli scaricatori di vino (i famosi carrettieri)12 e i cocchieri13 furono e sono gli eredi del sangue, del cuore, della professione di quegli indigeni trasteverini, avvezzi a nuotare nella ricchezza ai tempi antichi, ed anche nei più moderni, finchè i nuovi mezzi di locomozione non tolsero importanza alla via del Tevere e al trasporto delle mercanzie a spalla d’uomo o sui carri.

Per quanto, come vedemmo, monumenti ed edifici privati e pubblici nobilitassero questa XIV regione, pure la Romilla ebbe sempre un carattere che la distinse dalla vera sede dell’impero e poi del papato.

Come nel resto di Roma, anche qui furono cancellate le orme della civiltà pagana, grandiosa, classica, e vi successe il gretto affastellamento di [p. 137 modifica]casupole, che restò fino ai nostri tempi; però le vie si mantennero meno anguste e più regolari, forse perchè, tranne quelli dei Tolomei e degli Anguillara, altri castelli importanti non vi furono edificati, a causa della moltitudine di conventi che, in grazia del suo isolamento, vi furono eretti .

Anzi il monachismo in Trastevere tenne luogo, per così dire, del baronismo.

Nei quartieri più popolari della città, come nei paesotti circonvicini, veggonsi altri affastellamenti di casupole e catapecchie addossate ai vecchi, neri, diritti scheletri di castelli. Chi ne cerca la ragione, comprende di leggieri come il primo a nascere su quel cumulo di ruine, su quel cucuzzolo più o meno praticabile di montagna, fosse la ròcca o il castello, e di là il duca, il marchese od altri, investito o usurpatore del potere, simile spesso a sgherro, spesso a brigante, tiranneggiava le circostanti vallate. Quindi, o per voglia di guadagno, o per paura, o per forza, pian piano pastori, coloni, vicini, ne formarono la corte e la guardia, avvicinarono le loro capanne, le ridussero a case, formando una trincera al luogo forte.

Lo stesso accadde nelle città. Ogni signorotto si formò il suo castello, e intorno affastellati abitacoli di sgherrani, di clienti, di schiavi; l’abuso di pochi fu seguito da molti per invidia, per rivalità. Un Frangipani occupò il Colosseo; un [p. 138 modifica]Savelli gli si piantò alle falde, cangiando in fortificazione il teatro di Marcello; un Conti si barricò all’est; un Orsini si annidò sul monte Giordano, un Cenci presso Fiumara; un Colonna sulla basilica di Costantino, e così tanti, l’uno di fronte all’altro, attraversando vie, serrando piazze, facendo di Roma un laberinto, in mezzo al quale, piantato il dominante del giorno, ne divideva co’ suoi il territorio, come campo conquistato nelle guerre civili, delle quali i papi, spettatori o fautori, godevano sempre il frutto.

Con guerra più pacifica in apparenza, limosinando o mercanteggiando, i frati si divisero una grande parte della generosa Romilla, tanto che vi avviene di rado il vedere una casa o un palazzotto che non porti in fronte l’insegna d’una confraternita, di una congregazione, di una frateria; e così addosso alle grandi case, castelli dei baronetti monacali, si addossarono case di adepti, di affigliati, di bisognosi, e mentre i bravi alle porte di casa Cenci allontanavano i petulanti con la punta di una picca o col calcio di una pistola, il frate, ponendo un tozzo fra i denti al lamentoso sulla porta del convento, soffocava le imprecazioni e le voci disgustose dei miserabili.

Per tal modo però si mantenne in Trastevere il primitivo romano; imperocchè, pago degli abbondanti guadagni, che tutti scialaquava romanamente, trovava poi da empire la sportula nei tempi [p. 139 modifica]calamitosi, e non dovendo ad alcuno rendere grazie nè dei guadagni, nè delle elemosine, si conservò in quella sua prepotente libertà, che non venivagli contrastata nel suo nido quasi impune, e all’egida della quale, fatto ossequio al parroco ed al vicario, menava di coltello ai rivali e gittava il sarcasmo e la satira in faccia anche ai suoi pontefici massimi.



  1. Scilicet et rerum facta est pulcherrima Roma
    Septemque una sibi muro circumdedit arces.

  2. Beatrice Cenci.
  3. La caratteristica estetica del Tevere sparisce con la monotona costruzione dei muraglioni.
  4. Da un lato, presso l’ospedale, è il celebre frate odontalgico: e dall’altra parte, presso San Bartolomeo, è la Morgue, o sala d’esposizione dei cadaveri d’ignoti.
  5. Scinditur in geminas partes circumfluens amnis,
    Insula nomen habet, laterumque a parte duorum
    Porrigit aequales media tellure lacertos.

    Ovid., Metam. XV.

  6. Ponte Rotto.
  7. Ponte Antonino e poi Sisto, per essere stato restaurato dai due monarchi.
  8. Sant’Angelo dopo la dedicazione del Castello.
  9. Ponte Quattro Capi.
  10. Lecticarii, vectarii, baiuli.
  11. Baiuli et vectarii.
  12. Vectarii.
  13. Lectigarii.