Capitolo II

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I III

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II.


Anche Annesa era diventata più triste e taciturna del solito.

Dopo cena Gantine invitò l’ospite povero ad uscire con lui.

— Ora condurremo il cavallo da ziu Castigu, dopo faremo un giro per il paese. Lascia il portone socchiuso, — disse ad Annesa.

— No, davvero! — ella rispose vivacemente. Forse tu starai fuori tutta la notte! Io chiuderò il portone, e tu puoi prenderti benissimo la chiave.

— Va bene, addio, — disse Gantine, cingendole la vita con un braccio. — Tornerò presto, non dubitare.

— Fa quello che credi — ella rispose, respingendolo sgarbatamente.

Oltre il cavallo di Paulu i due giovani portarono via anche la giumenta del venditore di briglie, perchè sotto la tettoja non c’era posto che per un cavallo. E condussero le due bestie nella stalla di un pastore che era stato per molti anni [p. 30 modifica]servo dei Decherchi: poi andarono in una bettola e finirono di ubbriacarsi.

Anche Paulu uscì col suo amico; donna Rachele e la bimba andarono a letto, i due nonni chiacchierarono un altro po’, Annesa finì di rimettere in ordine la stanza e la cucina, e preparò il suo lettuccio.

Ella dormiva sul canapè, nella stanza da pranzo, per esser pronta alle chiamate del vecchio asmatico: quando Gantine era in paese donna Rachele, per evitare ai due fidanzati l’occasione d’un pericoloso colloquio notturno, pregava Paulu o ziu Cosimu di sostituire Annesa, e questa dormiva in una delle camere interne; ma quella notte l’ospite povero doveva dormire in cucina assieme con Gantine, e il pericolo era evitato.

La donna preparò le due stuoje per il servo e l’ospite, chiuse il portone, chiuse la porticina che dava sull’orto, e portò via la chiave; in ultimo chiuse col catenaccio l’uscio della camera. Se Gantine tornava non poteva penetrare nella casa al di là del cortile e della cucina.

I due nonni si ritirarono, zio Zua si assopì. Allora Annesa spense il lume, accese la lampadina da notte, ma non si coricò. Non aveva sonno, anzi pareva insolitamente eccitata, e i suoi occhi, ora che nessuno la osservava, brillavano d’una cupa fiamma, avidi e cerchiati.

Uscì nell’andito, spalancò la porta che dava sull’orto e sedette sullo scalino di pietra.

La notte era calda e tranquilla, rischiarata appena dal velo biancastro della via lattea e dalle [p. 31 modifica]stelle vivissime. Davanti ad Annesa stendevasi l’orto, nero e tacito, dal quale saliva un aspro odore di pomidoro e di erbe aromatiche: il profumo del rosmarino e della ruta ricordava la montagna, le distese selvagge, le valli primordiali, coperte di macchie e di arbusti, che circondavano il paese.

In fondo all’orto cominciava il bosco, dal quale emergeva la montagna, col suo profilo enorme di dorso umano disteso sull’orizzonte stellato. I grandi alberi neri, in fondo all’orto, erano così immobili e gravi che parevano roccie scure.

Ma la pace, il silenzio, l’oscurità della notte, l’immobilità delle cose, pesavano come un mistero sul cuore di Annesa. Ecco, a momenti le pareva di soffocare, di respirare penosamente come il vecchio asmatico.

Anch’ella aveva capito: Paulu tornava da Nuoro senza i denari che da tre mesi egli cercava disperatamente per tutti i paesi del circondario. La rovina era imminente.

— La casa e l’orto, la tanca, il cavallo, i mobili, tutto sarà messo all’asta... — gemeva fra sè la donna, col busto curvo fin quasi sulle ginocchia.

— Ci cacceranno via come cani affamati, e la famiglia Decherchi diventerà la più misera del paese. Bisognerà andarsene via... come i mendicanti che vanno di paese in paese... di festa in festa... Ah!

Sospirò profondamente, ricordando la sua origine.

— Era meglio che mi avessero lasciato proseguire la mia via... Ah, non avrei sofferto così, non [p. 32 modifica]avrei veduto quello che ho visto, quello che vedrò. Che cosa avverrà? Che accadrà di noi? Donna Rachele ne morrà di dolore. Egli... egli?... La sua fine... egli lo ha già detto, la sua fine... No, no: meglio...

Si sollevò, rabbrividì.

Paulu aveva minacciato di suicidarsi, e questo pensiero, questa ossessione, e l’idea che il vecchio asmatico teneva sotto il cuscino un fascio di cartelle di rendita e, per avarizia, per rancore contro il giovane vedovo, s’ostinava a non sborsare un soldo per salvare la famiglia dalla completa rovina, davano ad Annesa una febbre d’angoscia e di odio.

— Vecchio scorpione, — ella riprese, minacciando tra sè il vecchio asmatico, — io ti farò morire di rabbia; ti farò morire di fame e di sete. Guaj a te se ciò che prevedo s’avvera... guaj... guaj! Tu ci lasci agonizzare, ma io...

Non finì di formulare il suo pensiero: qualcuno apriva la porta di strada.

Ella balzò in piedi, si volse, attese, ansiosa. Paulu entrò, la vide, chiuse la porta, poi s’avanzò in punta di piedi e guardò dall’uscio nella camera appena illuminata dalla lampadina notturna. Il vecchio, sempre sollevato, e appoggiato ai cuscini, teneva gli occhi chiusi, il viso reclinato, e anche nel sonno respirava affannosamente.

Accertatosi che zio Zua dormiva, Paulu s’avvicinò ad Annesa e con un braccio le cinse le spalle, abbracciandola con impeto di desiderio. Ella tremò tutta: con le mani abbandonate lungo i fianchi, [p. 33 modifica]gli occhi chiusi, parve svenire, e si lasciò trascinare da Paulu che l’attirò in fondo all’orto, verso il bosco.

Ma quando furono laggiù, sotto l’albero nero ed immobile, la cui ombra conosceva il loro amore, ella si scosse, sollevò le braccia e si attaccò a Paulu con una stretta nervosa.

— Credevo che non tornassi, — gli mormorò sul viso, — ti ho veduto così cupo, così triste... Invece sei venuto... Sei venuto... Sei qui! Mi pare di sognare... Dimmi... dimmi... dimmi...

— Mi son liberato dell’ospite: l’ho lasciato in casa di prete Virdis, dove andrò a riprenderlo... Gantine ha la chiave?

— Sì; ho chiuso tutto, — disse Annesa, con voce velata. — Dimmi... dimmi?...

— Niente ancora! — egli disse. — Ma non pensiamo a questo.

E la baciò. Le sue labbra scottavano, ma c’era nel suo bacio un ardore amaro, la disperazione dell’uomo che cerca sulle labbra della donna l’oblio delle sue cure e delle sue tristezze. Annesa era intelligente e capiva i sentimenti di Paulu: si lasciò baciare, senza insistere nelle sue domande, ma cominciò a piangere.

Un profumo come di pere mature fondevasi con l’odore umido dell’orto: in lontananza, nella profondità nera del bosco, una fiammella rossa brillava ogni tanto e pareva un occhio che si aprisse di tratto in tratto per spiare gli amanti. E una voce lontana, giovanile e sonora ma alquanto [p. 34 modifica]avvinazzata, — forse la voce di Gantine, — cantava una battorina1 amorosa:

Bona notte, donosa,
Comente ti la passas, riccu mare?...2

Ma Annesa non udiva, non vedeva nulla: sentiva soltanto d’esser vicina a Paulu, e piangeva d’angoscia e di piacere.

— Annesa, — egli disse alfine, quasi indispettito, — finiscila. Lo sai che non mi piace veder la gente triste.

— E tu sei forse allegro, tu?

— Non sono allegro, può darsi, ma non sono disperato! Dopo tutto, se i nostri beni saranno venduti come i beni d’un impiccato, la vergogna sarà più sua che nostra. Tutti sanno ch’egli potrebbe salvarci. Vecchio scorpione, maledetto avaro! Quando lo vedo sento il sangue montarmi alla testa. Se fossi un altro uomo lo soffocherei...

Paulu s’animò, s’agitò, strinse le mani, come per soffocare qualcuno. Annesa trasalì, s’asciugò le lagrime e disse con voce lamentosa:

— Morisse una buona volta, almeno! Ma non muore, non muore. Ha sette anime come i gatti...

— Sono stato a Nuoro, — raccontò poi il giovine. — Ho cercato denari in ogni buco. Mi avevano indicato uno strozzino, un vecchione nero e gonfio [p. 35 modifica]come un otre. Mi sono umiliato, ho pregato, mi sono avvilito, io, sì, mi sono avvilito fino a pregare come un santo questo vecchio immondo, questo usuraio turpe e vigliacco... Niente! Egli mi ha chiesto la firma di Zua Decherchi... Poi andai da un proprietario nuorese, che mi guardò sorridendo e mi disse: «Ricordo quando tu eri nel seminario di Nuoro: eri un ragazzo che promettevi molto!» E mi mandò via senza i denari! Poi... Ma perchè ricordare queste cose? Ho subito tutte le umiliazioni, inutilmente; io, io, Paulu Decherchi, io... E ho dovuto chinare il capo come un mendicante.

Annesa chinò il capo, anche lei umiliata e avvilita.

— Non hanno più fiducia in te, — disse timidamente. — Zio Zua ti ha anche screditato, spargendo la voce che tu sei stato la causa della rovina della tua famiglia. Ma se andasse don Simone... forse... troverebbe i denari...

Paulu non la lasciò proseguire. Le strinse la mano con violenza e disse a voce alta:

— Anna, ti perdono perchè non sai quello che dici! Finchè vivrò io, nessun altro della mia famiglia dovrà abbassarsi...

Ella tacque ancora; cercò l’altra mano di Paulu, se la portò al viso, la baciò.

— Perchè... — mormorò, quasi parlando a quella mano ora inerte e fredda, — perchè... non cerchi ancora una volta di convincere zio Zua?

— È inutile, — egli rispose con voce accorata. Egli non farebbe che insultarmi ancora. Lo sai bene [p. 36 modifica]ciò che egli dice continuamente... Lo sai bene, Annesa. Egli dice, che vogliamo rovinarlo, che vogliamo assassinarlo.

— Ah, — ella sospirò, — tante volte ho avuto la tentazione di strappargli le cartelle di sotto al cuscino. Bisognerà fare così...

— Egli è capace di farci arrestare tutti, Anna! Eppoi io non sono un ladro!... Piuttosto mi uccido!

Ella si aggrappò nuovamente a lui, spaventata e dolente:

— Ecco che torni a parlare così! Paulu, Paulu, non vedi come mi fai paura? Non dire così, non parlare come parlano i pazzi. Ecco come sei, tu! Lasciami parlare, ho diritto anch’io... Paulu, ricordati: tu hai dato tanti dispiaceri ai tuoi nonni ed alla tua santa madre, ed ora vuoi farli morire di vergogna e di spasimo... Non dirla più, sai, quella cosa terribile; non parlarne più...

— Ebbene, taci. Non parliamone più.

— Ascoltami bene, — ella proseguì, sempre più agitata. — Devo dirti una cosa. Ricordati, Paulu; ricordati quando i tuoi parenti volevano farti sposare Caderina Majule. Era ricca, era di buona famiglia: e tu non l’hai voluta perchè non era bella. Ora son passati molti anni; tu non sei più un ragazzo capriccioso. E Caderina Majule non ha preso marito e ti vuole ancora. Sposala, Paulu: tutto si accomoderà... Sposala, Paulu, sposala... Se io fossi in te la sposerai...

Ella parlava come in delirio, soffiandogli sul viso il suo alito ansante: ed egli, a sua volta, teneva [p. 37 modifica]le mani abbandonate sui fianchi, il capo chino, gli occhi bassi. Gli pareva di venir meno, di soffocare, di non dover mai più uscire dall’ombra nera e pesante che lo circondava.

— Rispondi, — ella proseguì, scuotendolo con le sue piccole braccia che parevano d’acciaio. Dimmi di sì. Ci hai pensato, vero? Non aver paura di me, Paulu... Anch’io sposerò Gantine, se tu vorrai: e ce ne andremo lontani, io e lui, e con te non ci vedremo mai più. Tanto, vedi, lo so: io sono nata per seguire una via di sventura. La sorte mi odia, e mi ha gettato nel mondo per ischerno, come una maschera ubbriaca getta uno straccio sulla via... Chi sono io? Uno straccio, una cosa che non serve a nulla... Non prenderti pensiero di me, Paulu... Chi sono io?

Paulu l’ascoltava e taceva. Ella gli destava compassione e dispetto. E ad un tratto egli la respinse e mormorò parole crudeli.

— Io non ho mai creduto che io fossi da vendere. Annesa! Ma forse ora è tempo di pensarci, poichè non c’è altro rimedio. Chi lo sa? può darsi che segua il tuo consiglio...

Allora ella tacque, spaventata. Egli la respingeva, ma ella si teneva aggrappata a lui, e solo quando egli ebbe pronunziate le ultime parole, ella aprì le braccia, e cadde a terra come una pianta rampicante priva di sostegno. Egli la credette svenuta e si curvò su lei.

— Che fai ora, Anna?

Ella gemette. [p. 38 modifica]

— Lo vedi? — egli disse, con rimprovero e sarcasmo, sollevandola e accarezzandola in viso come una bambina. — Tu stessa lo vedi, come sei sciocca a dirmi certe cose. Tu mi umilii sempre, e se non fossi te, a parlarmi così, non so cosa farei...

— Taci, taci, — ella riprese singhiozzando, io lo faccio per il tuo bene. Io sono la tua serva, e non dovrei far altro che tacere e ascoltarti in ginocchio... Tu hai ragione, Paulu: sono sciocca... sono sciocca... sono pazza. Certe volte ho idee strane, come quando si ha la febbre: vorrei andare per il mondo, scalza, mendicante, in cerca di fortuna per te... per voi... Non sgridarmi, Paulu mio, cuore mio caro, non sgridarmi... tu l’hai già detto una volta, che io sono come l’edera; come l’edera che si attacca al muro e non se ne distacca più finchè non si secca...

— O finchè il muro non cade, — mormorò l’uomo, col suo accento doloroso e beffardo. — Basta, non parliamone più. Caderina Majule si sposi qualche vecchio mercante di porci, se non ha potuto trovare altri... Io mi tengo la mia piccola Anna e... basta... E ora vado a cercare Ballore Spanu. Egli è ricco, lo sai: forse mi presterà lui i denari per impedire l’asta dei nostri beni. Voglio tentare. Dammi un altro bacio e sta allegra...

Ella gli porse le labbra tremanti, bagnate di lacrime, ed egli le raccolse fra le sue, come un frutto umido di rugiada, e ancora per un attimo entrambi dimenticarono tutti gli affanni, le miserie, gli errori che li separavano. [p. 39 modifica]

Poi egli uscì ancora, ed ella sedette di nuovo sul limitare della porta.

Non aveva sonno, e l’idea di doversi chiudere nella camera dove ogni tanto s’udiva il gemito del vecchio asmatico, le dava quasi un senso di terrore. Ma alla sua inquietudine, al suo affanno, si mescolava ora una vaga ebbrezza: ella sentiva ancora il sapore delle labbra di Paulu, e davanti a sè non vedeva che la figura di lui, triste, beffarda e voluttuosa. Questa figura, d’altronde, le stava sempre davanti, la precedeva in tutti i suoi passi come la sua ombra.

Da anni ed anni ella viveva in compagnia di questo fantasma che solo la presenza reale di Paulu faceva dileguare. Ella non era una donna ignorante e incosciente: aveva studiato fino alla quarta elementare, e dopo aveva letto parecchi libri; tutti i libri che Paulu possedeva. Ed egli era stato il suo migliore e più suggestivo maestro. Le aveva insegnato tutto ciò che egli sapeva o credeva di sapere. Le aveva additato le costellazioni, le aveva spiegato l’origine dell’uomo, e il mistero del tuono e del fulmine, e l’aveva eccitata dandole da leggere romanzi d’amore, e infine l’aveva convinta che Dio non esiste.

Ella conservava due o tre dei romanzi letti nella sua prima gioventù: li teneva fra le sue cose più care, giallognoli e scuciti come libri sacri letti e riletti da molte generazioni. E sapeva quasi a memoria quelle storie d’amore e d’angoscia, come leggende famigliari. [p. 40 modifica]

Allora, nei tempi lontani della sua adoloscenza, la famiglia era ricca e potente. Servi e serve, mendicanti, bambini poveri, donnicciole, ospiti dei paesi vicini, cavalli, cani, cinghialetti e mufloni addomesticati animavano la casa. Un pescatore di trote veniva tutti i giorni a portare la sua pesca.

Regali andavano, regali venivano: qualche ospite s’indugiava in casa Decherchi persino quattro o cinque giorni, e la tavola era sempre imbandita. E mentre il cortile era sempre pieno di mendicanti, in cucina si nascondeva qualche povero vergognoso, cioè qualche individuo che mendicava segretamente, e al quale donna Rachele era lieta di fare la carità.

Annesa, allora, era servita e riverita dalle persone di servizio, come una signorina: più che figlia d’anima era considerata come figlia vera di donna Rachele, ed ella teneva le chiavi in saccoccia, e apriva persino il cassetto ove don Simone riponeva i denari, allora abbondanti.

Ella ricordava bene. E quante volte si era pentita di non aver messo a parte qualche somma, con la quale ora avrebbe potuto ajutare i suoi benefattori caduti in miseria!

Ella aveva partecipato a tutte le vicende della famiglia, in quella casa dove il destino l’aveva gettata come il vento di marzo getta il seme sulla roccia, accanto all’albero cadente. Ed era cresciuta così, come l’edera, allacciandosi al vecchio tronco, lasciandosi travolgere dal turbine che lo schiantava. [p. 41 modifica]



Seduta sul limitare della porta, ombra nell’ombra, ella si lasciava avvincere dai ricordi: e questi ricordi erano tristi, e avevano uno sfondo incerto e melanconico come quel cielo notturno che finiva davanti a lei sopra la montagna addormentata.

Solo qualche ricordo, fra gli altri, brillava e si staccava da questo sfondo, simile alle stelle filanti che di tanto in tanto pareva si staccassero dal cielo, stanche di tanta altezza serena, per scendere sulla terra ove si ama e si muore.

Sì, una volta Paulu ritornò da Nuoro e Anna non lo riconobbe, tanto egli s’era fatto alto e bello.

Durante quelle vacanze, un giorno, mentre infuriava un temporale, egli le spiegò, meglio che non l’avesse fatto la maestra di terza elementare, perchè l’aria rimbomba dopo che il fulmine l’ha attraversata.

— Io credevo che il tuono fosse la voce di Dio, ella disse, un po’ scherzando, un po’ seria.

— Stupida, Dio non esiste! — egli disse, guardandosi attorno, pauroso d’essere udito dai suoi nonni.

— Paulu, che dici? — mormorò Annesa con terrore. — Se ti sente don Simone! Se ti sente prete Virdis!

— Prete Virdis è un chiacchierone, un peccatore come tutti gli altri uomini! Dio non esiste, [p. 42 modifica]no, Annesa. Se Dio esistesse — egli riprese — non permetterebbe che nel mondo accadessero certe cose. A parte la solita storia dei ricchi e dei poveri che nascono tali senza averne merito o colpa, ci sono tante altre ingiustizie nel mondo! Tu, per esempio... perchè sei senza padre e senza madre, perchè non sai neppure chi sei? Vedi, se io volessi sposarti non potrei...

Annesa impallidì, sebbene non avesse mai pensato, neppure in sogno, di sposare il figlio dei suoi benefattori.

Poi gli anni passarono. Un giorno in casa Decherchi accadde una cosa spaventosa. Il padre di don Paulu cadde nel cortile, come se avesse inciampato, e non si sollevò più. Le sue ultime parole furono rivolte alla moglie:

— Rachele, ti raccomando quel fanciullo.

E Gantine, il ragazzetto che la voce pubblica diceva figlio del morto, fu preso in casa come servetto. Gli altri servi, siccome Gantine era quasi ancora un bambino e non era neppure buono a scorticare un agnello, lo maltrattavano e lo deridevano; egli si lagnava con donna Rachele.

— Figliolino di Dio, — gli diceva la santa vedova — abbi pazienza. Di’ loro che crescerai e diventerai più abile di loro.

E zio Cosimu Damianu, il padre di donna Rachele, aggiungeva:

— Figlio di Sant’Antonio, di’ loro così:

Frati vanno e frati vengono
e il convento fermo resta;

[p. 43 modifica]voi siete frati randagi, andrete, verrete, ed io resterò sempre nel convento.

Donna Rachele sgridava suo padre perchè «figlio di Sant’Antonio» vuol dire bastardo, e perchè non voleva che i servi avessero a mormorare per la risposta significativa consigliata a Gantine.

Ma don Simone interveniva, sorridente e sereno come sempre:

— Lascia passare trenta giorni per un mese, lascia che dicano quel che vogliono, tanto il prossimo non è mai contento.

E la pace regnava nella famiglia.

Ma in quel tempo appunto cominciò l’esodo dei servi; prima uno, poi un altro, poi tutti. Rimasero soltanto Gantine e un servo pastore, chiamato zio Castigu perchè era un po’ scemo. Poi anche questo fu licenziato. La famiglia cadeva in rovina, precipitava sempre più giù, più giù, in un vuoto spaventoso.

I debiti di tre generazioni, i trecento scudi che don Simone aveva preso dalla Banca agricola, le cambiali in bianco di don Pilimu, gli interessi del duecento per cento dei debiti di Paulu, divorarono in pochi anni le tancas, le vigne, le greggie e i cavalli dell’intera famiglia. Donna Rachele piangeva e diceva: — Vedete, è stato come il fico d’india: da unifoglia ne son nate mille.

Sulle prime anche don Simone e zio Cosimu Damianu piangevano e si bisticciavano; ma col tempo si abituarono alla povertà e don Simone ritornò [p. 44 modifica]sereno e sorridente e ripetè il suo filosofico ritornello: «Lascia passare trenta giorni per un mese».

Paulu, dopo essere stato cacciato via dal Seminario di Nuoro, non aveva voluto proseguire gli studi: si divertiva, come si divertono molti piccoli proprietari sardi, correndo di villaggio in villaggio per le feste campestri. Tutti i mendicanti della Sardegna, che vanno appunto di festa in festa, lo conoscevano. Anche i ciechi dicevano: «È quel cavaliere di Barunei, don Paulu Decherchi, un riccone ispassiosu».3

Nei villaggi egli prendeva denaro dagli usurai, nelle feste lo sprecava. Pareva pazzamente innamorato della vita. A giorni era buono e allegro, a giorni cattivo e violento.

Annesa ricordava. Ora Paulu era diventato docile e mansueto; gli anni e le sventure lo avevano domato come un puledro: ma allora! Quante volte l’aveva bastonata perchè ella faceva l’amore con Gantine!

— Vergognati, sfacciata; egli è un servo; è un bastardo.

— Ed io non sono una serva? — ella rispondeva piangendo. — Non sono anch’io figlia di nessuno?

— Egli ha dieci anni meno di te!

— Gli anni non contano; l’albero giovane intreccia i suoi rami con quelli dell’albero vecchio...

Gli occhi di Paulu splendevano come gli occhi di un gatto selvatico. [p. 45 modifica]

— Ingrata, sfacciata, mantenuta per l’anima.4

Ella, che amava Gantine perchè rassomigliava a Paulu, così come si ama il fuoco perchè ricorda il sole, piangeva, taceva e lavorava. Era diventata davvero la serva di casa; ma anche donna Rachele lavorava, pregava e taceva.

In quel tempo Paulu si ammogliò. La sposa era una fanciulla nobile, bella, ma povera e malaticcia. Per un anno i due sposi vissero felici; donna Kallina era buona e rendeva buoni tutti quelli che l’avvicinavano. Il marito parve diventare un altro; ma dopo la nascita di una bambina dalla testa enorme, la giovine sposa ammalò gravemente.

Don Paulu la condusse a Cagliari, a Sassari, nel continente; ma donna Kallina morì e un’altra tanca fu venduta.

La casa divenne triste, solitaria; i mendicanti non insistevano più, come prima, per ottenere l’elemosina; gli ospiti si fecero rari.

Don Simone sorrideva sempre, ma con tristezza; e ripeteva che bisogna rassegnarsi a lasciar passare trenta giorni per un mese, ma borbottava perchè la gente non credeva più in Dio e perciò commetteva il male.

Zio Cosimu Damianu, con la piccola Rosa fra le braccia, conveniva che il timor di Dio è un gran freno contro il male, ma difendeva gli errori e le debolezze umane: gli uomini sono nati per il peccato. E la bimba, vivente risultato di molte [p. 46 modifica]debolezze e di molti errori umani, chinava la enorme testa sull’omero del vecchio e non protestava.

Intanto Annesa s’era fidanzata con Gantine, dopo aver chiesto il consentimento dei suoi benefattori. Ella aveva passato i trent’anni: che aspettava più? Gantine era povero ma buon lavoratore. Si sarebbero sposati appena i Decherchi avrebbero dato al giovine un po’ del denaro che gli dovevano: ma il tempo passava, e il denaro non si vedeva.

Il giovane fidanzato era allegro, buono e sereno come don Simone. Chiamava Annesa con due nomignoli: Pili brunda quando ella si mostrava tenera e allegra, cosa molto rara; e mudore5 quando ella taceva, triste e cupa, per intere giornate.

— Figlio di Sant’Antonio — diceva zio Cosimu Damianu, tu sai il proverbio sardo: ribu mudu tiradore6.

In quel tempo Annesa cominciò a non credere più in Dio perchè la famiglia dei suoi benefattori cadeva sempre più in rovina. Era mai possibile l’esistenza di un Dio così cattivo? I Decherchi non avevano fatto altro in vita loro che temerlo, adorarlo e seguirne i precetti, ed Egli li ricompensava mandando loro ogni peggiore sventura.

Ma d’un tratto il Signore parve muoversi a pietà della famiglia così a lungo e duramente provata. Zio Zua, un vecchio parente avaro, ch’era [p. 47 modifica]

stato alla guerra di Crimea, dove aveva perduto una gamba, propose ai Decherchi di prenderlo in casa. Avrebbe dato un tanto al mese, e poi avrebbe fatto testamento in favore di Rosa. Egli era vecchio, soffriva d’asma, aveva paura di venir derubato.

Paulu non amava il vecchio asmatico, al quale era spesso ricorso invano per farsi prestare denari; ma non si oppose a che egli venisse in casa. E ziu Zua venne e prese posto accanto ai due nonni, che usavano prendere il fresco seduti fuor della porta di strada, simili a due vecchi leoni vigilanti l’ingresso d’un palazzo incantato in rovina. La gente passava, ascoltava le discussioni e le chiacchiere dei tre vecchi e li chiamava «I tre re magi con cinque gambe».

Zio Zua ansava e parlava male dei «giovani d’oggi» alludendo a Paulu; don Simone ammetteva che il nipote s’era rovinato perchè non aveva mai avuto timor di Dio, ma zio Cosimu Damianu, con Rosa sulle ginocchia, stringeva le labbra e difendeva i «giovani d’oggi».

— Tutti siamo stati giovani ed abbiamo commesso i nostri errori. Il Signore disse: chi è senza peccato scagli la prima pietra...

— Per chi vuoi dire? — gridava il vecchio asmatico, tirando fuori dal petto velloso la medaglia al valor militare. — Guarda qui: la vedi o non la vedi questa medaglia? Guardati in essa come in uno specchio.

Don Simone fingeva di specchiarsi, si accomodava la berretta, poi diceva: [p. 48 modifica]

— Veramente non è molto pulito quello specchio.

E zio Cosimu Damianu esclamava: — Ma, figlio di Sant’Antonio, chi accenna a te, Zua Dechè? Però, vedi, è appunto chi è senza peccato che scaglia la prima pietra contro il peccatore. Chi è senza peccato non compatisce, non compatisce...

Poi zio Zua raccontava i suoi ricordi di guerra. La sua voce dispettosa si raddolciva, e spesso egli piangeva, ricordando che La Marmora gli aveva stretto la mano. Ma i suoi ricordi erano molto confusi: fra le altre cose egli si ostinava a dire che i Sardi avevano preso parte alla battaglia di Balaclava, e invano don Simone ripeteva:

— No, è stato alla battaglia della Cernaia.

— No, no, è stato a Bellaclava. Mi ricordo; era d’estate, d’agosto, ma c’era una nebbia che pareva d’inverno. Fin dalla notte noi eravamo sul colle, al comando di quel diavolo di maggiore Corpograndi7. Imparatelo questo nome Cor-po-gran-di. Non bisogna sbagliarne una sillaba perchè sarebbe una bestemmia, come sbagliare il nome di Dio.

Un giorno zio Zua cadde per terra come era caduto don Pilimu. Non morì, ma quando lo sollevarono la sua gamba destra era rigida e morta peggio del bastone ferrato che sostituiva l’altra gamba. Lo misero a letto e non si alzò più. Egli diventò insoffribile: nascose sotto il guanciale le sue cartelle di rendita e non le affidò ai parenti [p. 49 modifica] neppure per riscuoterne gli interessi. Di notte si svegliava, gridando che volevano derubarlo, e pretendeva che Annesa dormisse nella camera ove dormiva lui. Paulu cominciò ad odiarlo: e Annesa lo odiava perchè lo odiava Paulu. E Gantine lo odiava perchè lo odiavano loro.

Fra le persone rimaste fedeli e affezionate alla disgraziata famiglia, c’era zio Castigu, il vecchio servo diventato pastore a solus, che cioè aveva acquistato un certo numero di pecore e le pascolava per conto proprio.

— Girate tutto il mondo, — diceva con ammirazione, parlando della famiglia presso la quale aveva servito per quarant’anni — provate pure a girarlo, se volete: non troverete una famiglia più nobile e buona. Don Simone? Ma se Dio morisse, gli angeli del cielo eleggerebbero don Simone a signore loro e nostro! Bisogna rispettare persino le scarpe di don Simone!

In paese lo deridevano per questo suo feticismo: il messo ogni volta che lo vedeva gli domandava:

— Ebbe, è morto il Signore?

Anche prete Virdis, il rettore, quando zio Castigu andò a confessarsi, lo trattò malamente.

Anghelos santos!8 (prete Virdis usava quest’intercalare anche coi suoi penitenti). Non dire più queste cose, fratello mio. Il Signore è uno solo e non morrà mai, neppur dopo che avrà fatto morire tutti noi. [p. 50 modifica]

Ma zio Castigu non smetteva di lodare la famiglia «più nobile del mondo». Anche Annesa godeva tutta l’ammirazione e la confidenza di zio Castigu. Una volta egli le confidò di essere innamorato di una bella e ricca fanciulla del paese, e la pregò di un favore:

— Voglio mandarle una lettera: scrivemela tu, pili brunda: perchè ridi?

— Perchè io non so scrivere lettere!

— Non importa: non sei un avvocato tu! Basta che tu scriva così: «Maria Pasquala, anima mia, ti amo e se tu mi vuoi ti metterò entro una nicchia». Va, Annesa, fammi questo piacere: per scrivere la lettera ti porterò un foglio di carta di amore che potrebbe essere mandato anche alla Corte reale.

Annesa promise di scrivere la lettera, e zio Castigu portò la famosa carta di amore ch’era poi uno di quei foglietti di carta traforati e adorni di un cuore ferito, usati dagli studentelli per le loro prime dichiarazioni amorose.

Ma la dichiarazione non ebbe l’esito desiderato; anzi un fratello di Maria Pasquala, un giorno, vedendo zio Castigu passare davanti a casa sua, lo rincorse col pungolo, e il pastore fuggì «come un cane a cui siasi messo il fuoco sul muso».

Un giorno zio Castigu invitò al suo ovile i suoi amici e i suoi ex-padroni. Zio Cosimu Damianu, Paulu e Annesa accettarono l’invito. L’ovile era quasi in cima al monte Santu Juanne, una specie di prealpe al di là della quale il [p. 51 modifica]Gennargentu chiude l’orizzonte con le sue cime e i suoi profili argentei.

Enormi roccie di granito, sulle quali il musco disegnava un bizzarro mosaico nero e verde, si accavalcavano stranamente le une sopra le altre, formando piramidi, guglie, edilizi ciclopici e misteriosi. Pareva che in un tempo remoto, nel tempo del caos, una lotta fosse avvenuta fra queste roccie, e le une fossero riuscite a sopraffare le altre, ed ora le schiacciassero e si ergessero vittoriose sullo sfondo azzurro del cielo. E le macchie e le quercie, a loro volta, cessata la lotta delle pietre, avevano silenziosamente invaso i precipizi, s’erano arrampicate sulle roccie, avevano anch’esse cercato di salire le une più su delle altre. Tutte le cose in quel luogo di grandezza e di mistero assumevano parvenze strane, e gli uomini solitari che dovevano vivere a contatto con le roccie — alcune delle quali avevano forma di mostri, di pesci giganteschi, d’animali antidiluviani — e comunicavano con l’anima della montagna sussurrante nei boschi, e capivano ciò che diceva il rombo del vento, e il fruscio delle foglie cadute, questi uomini avevano naturalmente ripetuto mille leggende e le avevano collocate nei punti più orridi e più poetici della montagna.

Vicino all’ovile di zio Castigu, per esempio, poco lontano da una chiesetta medioevale, si scorgeva su una cima una lunga roccia in forma di bara, posata obliquamente su un enorme masso quadrato. Ebbene, là dentro, in quella tomba alta [p. 52 modifica]e solenne, che un imperatore poeta non avrebbe sdegnato, la fantasia popolare rinchiudeva un gigante, ucciso a tradimento dai nani astuti che un tempo popolavano la montagna.

Durante la colazione, gl’invitati di zio Castigu, seduti all’ombra di alberi millennari che coi loro lunghi ciuffi di liane grigiastre parevano vecchi barbuti, non parlarono di altro che di queste leggende.

Due vecchi sposi, che dopo il giorno delle loro nozze avevano sempre mangiato nello stesso piatto, ricordarono il viaggio di nozze di un avo di Paulu.

— Egli sposò una dama di Aritzu. Da Aritzu a Barunei gli sposi furono accompagnati da ventisette parenti che montavano magnifici cavalli bai; solo gli sposi cavalcavano su una giumenta bianca. Attraversarono una montagna, e giunti qui, salirono sulla tomba del gigante, dalla quale si scorge il paese, e tutti spararono in aria i loro fucili... Sembrava una battaglia...

— Voglio salire lassù; chi viene? — domandò Paulu che aveva bevuto abbastanza e sembrava allegro e ringiovanito.

Ma gli altri erano quasi tutti vecchi o stanchi e preferirono sdrajarsi all’ombra degli alberi. Solo Annesa seguì il giovine vedovo, e nessuno mormorò: tutti erano abituati a considerare Paulu e Annesa come fratello e sorella.

Essi andarono: era di maggio, il sole del meriggio batteva sulle roccie, intorno alle quali [p. 53 modifica]fiorivano le rose di macchia; le foglie degli alberi scintillavano.

A un tratto il bosco s’aprl, e fra le due quercie dalle chiome riunite apparve, come nello sfondo di un arco grandioso, la piramide lontana di monte Gonare, azzurra sul cielo luminoso.

A destra del bosco sorgeva la cima rocciosa, sulla quale, nella sua tomba di pietra che il musco copriva d’un drappo di velluto verde, riposava il gigante. La salita era difficile: bisognava saltare di roccia in roccia.

Paulu precedeva, Annesa seguiva; più che altro ella desiderava vedere in lontananza il villaggio. Ad un tratto ella si trovò su alcune pietre che oscillavano: le parve di perdere l’equilibrio e diede un grido. Paulu si volse, tornò indietro, la guardò e le porse la mano.

Salirono più su, sedettero sulla sporgenza del masso, sotto la roccia del gigante: ai loro piedi il bosco precipitava come una grandiosa cascata verde, giù, giù, fino alla costa sul cui giallore le case del villaggio apparivano grigie e nerastre simili ad un mucchio di brage spente. Valli e montagne, valli e montagne si seguivano fino all’orizzonte: tutto era verde, giallo e celeste.

Gli avoltoi in amore stridevano e s’inseguivano, tra il sole ed il vento, nell’aria serena.

Annesa e Paulu non scambiarono una parola; egli era ridiventato triste, ma i suoi occhi ardenti, più che guardare il panorama, fissavano gli avoltoi in amore. Improvvisamente si alzò e Annesa lo [p. 54 modifica]seguì. Nel punto ove le pietre si muovevano egli si fermò, le porse ancora la mano e la guardò.

Annesa sentì quello sguardo insolito investirla come una vampa: e le parve di cadere e che tutte le roccie precipitassero sotto di lei. Ma Paulu la teneva sospesa nel cerchio delle sue braccia, e aveva unito le sue alle labbra di lei, in modo che pareva non dovessero staccarsi mai più.

  1. Battorina, quartina.
  2. Buona notte, donosa (ricca di doti naturali), Come te la passi, ricco mare?
  3. Che ama i divertimenti.
  4. Allevata per carità.
  5. Che tace.
  6. Fiume (che è) silenzioso (è) travolgente.
  7. Corporandi.
  8. Angeli santi.