Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
l’edera | 51 |
nargentu chiude l’orizzonte con le sue cime e i suoi profili argentei.
Enormi roccie di granito, sulle quali il musco disegnava un bizzarro mosaico nero e verde, si accavalcavano stranamente le une sopra le altre, formando piramidi, guglie, edilizi ciclopici e misteriosi. Pareva che in un tempo remoto, nel tempo del caos, una lotta fosse avvenuta fra queste roccie, e le une fossero riuscite a sopraffare le altre, ed ora le schiacciassero e si ergessero vittoriose sullo sfondo azzurro del cielo. E le macchie e le quercie, a loro volta, cessata la lotta delle pietre, avevano silenziosamente invaso i precipizi, s’erano arrampicate sulle roccie, avevano anch’esse cercato di salire le une più su delle altre. Tutte le cose in quel luogo di grandezza e di mistero assumevano parvenze strane, e gli uomini solitari che dovevano vivere a contatto con le roccie — alcune delle quali avevano forma di mostri, di pesci giganteschi, d’animali antidiluviani — e comunicavano con l’anima della montagna sussurrante nei boschi, e capivano ciò che diceva il rombo del vento, e il fruscio delle foglie cadute, questi uomini avevano naturalmente ripetuto mille leggende e le avevano collocate nei punti più orridi e più poetici della montagna.
Vicino all’ovile di zio Castigu, per esempio, poco lontano da una chiesetta medioevale, si scorgeva su una cima una lunga roccia in forma di bara, posata obliquamente su un enorme masso quadrato. Ebbene, là dentro, in quella tomba alta