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l’etruria vendicata. — canto iv 227


Il sol che immantinente non dà luogo
Al buon messo d’amore, è Dolcimèle,
Che altero va dell’Apollineo giogo.
Vate non men che servitor fedele,
Vorría far de’ suoi carmi un breve sfogo
Per acquetar del prence le querele:
Ma, accennandogli il sir ch’ei non l’annoi,
Gli ha ricacciati in gola i carmi suoi.

Tosto che il duca è sol col messo fido,
Gli dice: Arrechi tu cosa novella?
Sir (gli risponde) io certo in me confido
Farti stanotte possessor di quella
Ch’ebbe finor più di ritrosa il grido;
Del fier Lorenzo la gentil sorella;
Bianca, che già sì debilmente or niega,
Che certo il sol tuo aspetto omai la piega.

Molto ella trema per l’amante suo,
Che da più giorni in carcer duro hai chiuso:
Con lui pur essa or tieni in poter tuo,
Se sai del suo timor far debit’uso.
Taciti e soli andremo a lei noi duo:
Certo segnal farò cui fare er’uso
Il suo Fileno, al qual Bianca venía
A un veron basso onde il suo amor udía.

Ella, credendo il suo amator disciolto
(Ciò che si brama credesi per poco)
Verrà al veron; dove a scoperto volto
Tuo nome a un tempo appalesando e il fuoco,
Le avrai ben tosto ogni suo scrupol tolto.
In erma strada corrisponde il loco:
Io veglierò ch’uom non vi passi: e intanto
Per te fia ’l cor della donzella infranto.

Ben dici: ov’io parlar possa con lei
Da solo a sol, tosto fia vinto il tutto.
E piacer doppio di quest’una avrei,
Per vieppiù rïempir di scorno e lutto
Quel suo fratello e madre, entrambi rei
Di questo a me finor vietato frutto.
Ciò detto; il prence in suo pensier disegna
Come Bianca ei possegga, e il fratel spegna.