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l’etruria vendicata. — canto iv 231


Vero era ben ch’ivi venían talvolta
A favellar tra lor gli onesti amanti;
Non che licenza di vedersi tolta
Lor fosse il dì, poichè ai parenti avanti
Fè si giuraro che non fia mai sciolta;
Ma ognor d’amor pensieri anco i più santi
Sfuggon l’aspetto di madre severa:
Dei lor segreti la cagion quest’era.

Dal dì che Bianca in cor del prence entrava,
Di Lenoncino astuto il vigil guardo
Gli andamenti di lei tutti spiava:
Onde il cenno ei non era a scoprir tardo,
Con cui sua donna l’amator chiamava.
Già fe credere al sir quel vil bugiardo
Che in casa era Fileno indi introdotto:
E ciò soltanto in carcer l’ha condotto.

Or, com’uom che n’ha visto il pronto effetto,
Manda un certo suo fischio acuto all’aura
Ch’empie di gioia ad Alessandro il petto
E d’ogni avuta pena lo ristaura.
Ecco aprirsi il verone; e in vestir schietto
Donzella, il cui bel crin sparso s’innaura,
Sopra apparirvi con stellanti ciglia:
Volto ed atto che a Bianca appien somiglia.

Dov’è più buio, a invigilar si è posto
Lo scaltro messo; e s’è inoltrato il sire,
Quanto ei più puote, al bel verone accosto;
E senza far lungo proemio, a dire
Le vien ch’è tempo omai sia corrisposto
L’amor d’un prence, che ha per lei martíre,
E che in oblìo mandata sua grandezza,
Notturno vien per la di lei bellezza.

All’udir tali accenti, come stata
Fosse la donna dal segnal delusa,
Fa di ritrarsi vista in atto irata.
Ma allora il sire altro sermon seco usa,
Che tosto immobil l’ha quivi fermata.
Donna, credevi al tuo Filen dischiusa
Aver la via, dic’ei: ma in carcer duro
Io ’l tengo; e in lui far mie vendette io giuro.