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l’etruria vendicata. — canto iv | 233 |
Ma il pro’ Lorenzo, che sua immagin viva
Caldamente nel core ha ognor scolpita,
Tosto a gioia i lor petti rïapriva
Gridando: O santa Libertade, aìta
Certo ne arrechi: il tuo venir ravviva
La speme in noi di non infame vita;
E a me foriero è del bramato istante,
In che il tiranno io svenerotti innante.
È giunta, sì (gli rispondea con voce
Tutta fremente di magnanim’ira
La Dea); sì, giunta alla tartarea foce
È omai quella crudele anima dira:
Fra queste mura, in tuo poter, l’atroce
Tiranno è già, che del suo error sospira;
Ma in vano. Io stessa de’ suoi vizi al laccio
Or or l’ho colto: ei sta di morte in braccio.
Arma, su tosto, la tua ardita destra
Del pugnal ch’io ti diedi sanguinoso.
La sala, a cui solo è il veron finestra,
Chiuso nasconde quel vile orgoglioso:
Quivi entro vanne: e la tua man maestra
Colpo sicuro vibri e dignitoso;
Ch’io, per tôr di viltade ogn’ombra all’atto,
Cingere al sire anco il suo brando ho fatto.
Ciò detto, spare: e già Lorenzo vola
Di gioia pieno all’additata stanza.
Ma intanto il sir sente afferrarsi a gola
Da una man d’invisibile possanza;
Ed ode a un tempo articolar parola
Da voce di terribil rimembranza:
Giunto è il momento ch’io predetto t’aggio;
Me non credesti: or credi in tuo coraggio.
Ciò dire, un lampo balenare, e sciorsi
A quel fulgore in fumo una figura,
È un punto sol: ma benchè ratta a tôrsi
Dagli occhi suoi, pur l’ombra raffigura
Il prence; e cade com’uomo che muorsi.
Già più di pria tornata è l’aura scura:
Silenzio e Morte sottentrati sono
Dei feri detti all’improvviso tuono.