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234 | vittorio alfieri |
Tutto ha ripien del suo terribil Nume
Timore il loco, e più del prence il petto:
Misero! omai di sè nulla ei presume,
E il fiero annunzio duolsi aver negletto.
Quindi il fantasma entro al suo tetro lume
Sen vien del duca al messagger diletto,
In vista d’uom d’armi sonante tutto;
E lunge caccia in fuga il servo brutto.
Ecco il sir dunque d’ogni aiuto è privo:
D’oltraggiato nemico in man sta chiuso,
Tremante, palpitante, semivivo,
Chi dell’altrui viltà fe lungo abuso.
Ma ripigliar l’alto valor nativo
Or or potrà quando fia ’l varco schiuso;
E nel veder che incontro un sol gli vada,
Gli sovverrà che al fianco ha pur la spada.
Già pe’ spiragli della chusa porta
Di luce alcun barlume si frammette:
Già un calpestio di piè l’aura v’apporta:
Già la stridente chiave s’intromette.
Il sir giacente vieppiù si sconforta,
E tien verso il rumor le orecchie erette:
Quand’ecco con grand’urto spalancarsi
L’uscio, e Lorenzo in sulla soglia starsi.
Sovra il suo capo innalza e all’aura scuote
Viva facella con la manca mano;
Ristretta l’altra a sè quanto più puote
Tien col pugnale il feritor sovrano:
E in suon di morte intuona al sir tai note:
Esci, esci, o tu, non men che infame, insano;
Tu, che a noi scorno qui arrecar credesti:
Ti schiudo io ’l varco; e quinci uscir dovresti.
Ma che? ti appiatti, e non rispondi? uscirne
Dunque non vuoi. Sta ben: noi due soletti
A parlamento qui potrem venirne. —
Entrar, l’uscio sprangar dopo tai detti,
Posar la face, e il fier pugnal brandirne,
È un solo istante: i piè quindi ha diretti
Dell’ampia sala in fondo, ove al verone
Non lungi il prence per terra è boccone.