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236 vittorio alfieri


Ben io ciò lessi entro il sanguigno sguardo
Che a me volgevi, simulando il riso.
Se ad assalirti in mezzo a’ tuoi fui tardo;
Non creder già che rio timor conquiso
Mi avesse il cor: ch’io di furor tropp’ardo,
Ed esser vo’, purch’io te sveni, ucciso:
Ma il non poter mai ben sicuro il colpo
Vibrar, fa ch’io d’indugio ancor m’incolpo.

Forse al mio dire altro a risponder hai?
Pria di morir, non io tel vieto, parla:
Udiam, se in nulla contraddir mi sai. —
Fin qui sua voce, senza mai fermarla
Movea Lorenzo. Il sir più lento assai
La sua trovava; chè a gran pena trarla
Può dal tremulo petto, e si confonde.
Ma sua Bassezza al fin così risponde:

Che posso io dir, che dal pensier tuo fello
Di darmi morte, or che qui m’hai, ti toglia?
È ver ch’io spesso di pietà rubello
A molti era cagion di fera doglia:
Ben creder puoi ch’or non sarei più quello,
Se mai tornassi alla regal mia soglia;
Or che i tuoi detti ed il mortal periglio
Giovato m’han di salutar consiglio.

Tu, che sei d’alto cor; se aver pietade
Di me non vuoi, poich’io pietà non merto;
Dèi pur pensar che al mio cader non cade
Qui la possanza del mio regio serto,
Che al ritornarsi i Toschi in libertade
Fia ’l gran monarca ispano ostacol certo,
L’alto suocero mio, quel quinto Carlo
Che mezzo ha il mondo e tutto fa tremarlo. —

Scaltro così, benchè atterrito, ei tenta
Di por di sua viltà Lorenzo a parte.
Ma studiato il suo dire tanto stenta,
Che l’altro grida con furore: Ogni arte
Vana è con me, ch’ogni dubbiezza ho spenta.
Bastami sol ch’empio e fellon negarte
Non puoi tu stesso: io narrerotti il resto
Di quanto spetta al mio avvenir funesto.